Franco Bergonzoni
CRONACHE
estratto da
CULTA BONONIA
Rivista di Studi Bolognesi
Anno II - 1970 N. 1
ED. PÀTRON - BOLOGNA
a cura di Antonio Cringoli
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IL DISSESTO DELLA SALA BOSSI - ALCUNE NOTIZIE E QUALCHE CONSIDERAZIONE
[P. 101]
Non c’è stato giornale con cronaca della città che il sedici febbraio scorso non abbia dato notizia del piccolo terremoto avvenuto verso le ventitré del sabato precedente, quattordici febbraio, nelle strutture della sala Bossi del Conservatorio di Musica, sul finire del concerto di cori di montagna del gruppo "Stelutis", mentre la sala era gremita di pubblico. Ovviamente i vari resoconti hanno posto l’accento sul felice esito del dissesto, causato dalla rottura di quattro catene della volta sulla quale appoggia il pavimento della sala, che pur avendo profondamente turbato l’equilibrio statico dell’edificio, non aveva provocato alcun crollo e nemmeno panico nelle persone presenti nella sala. I resoconti dei quotidiani, ovviamente, si sono limitati al fatto di cronaca, sia pure con particolari coloriture nell’esposizione dei fatti e con qualche notizia di carattere storico sull’edificio nel quale si era verificato il dissesto. Non sembra quindi inopportuno riprendere l’argomento per approfondirne quegli aspetti, appena sfiorati dalle cronache dei quotidiani, che valgano a far meglio comprendere la natura del dissesto attraverso una analisi storica e costruttiva dell’edificio e permettano anche di trarre qualche deduzione sul comportamento delle antiche strutture. Inserita nel complesso conventuale che fu già degli Eremitani di San Giacomo Maggiore, la sala Bossi si trova al primo piano del corpo di fabbrica prospiciente la piazza Rossini. Sotto la sala vi è l’antico "Refettorio Grande", che un tempo aveva dimensioni uguali a quelle della sala e che al presente, diviso in due da un muro trasversale, viene utilizzato in parte come palestra e in parte come aula per il coro e come magazzino. Chi si limitasse ad un esame superficiale potrebbe essere facilmente tratto in inganno dall’aspetto attuale dell’edificio e ritenerlo di costruzione abbastanza recente. Esso infatti si compone armonicamente con il porticato settecentesco del chiostro e non presenta sensibili differenze o discontinuità strutturali con esso. In realtà l’edificio, nel suo impianto planimetrico, non deve essere di molto posteriore alla attigua chiesa di San Giacomo, sorta nella seconda metà del duecento. Di ciò fanno fede le caratteristiche dei muri d’ambito, in mattoni originariamente a vista sui paramenti esterni (come si è potuto rilevare durante la rimozione dei monconi delle catene che si erano spezzate) e la presenza, su uno di questi muri, a livello della sala Bossi, di tracce molto ben conservate di finestrine con arco a tutto sesto e forte strombatura, tipiche del duecento bolognese. [P. 102] Molto probabilmente in origine questo edificio, a somiglianza della sala capitolare che lo fronteggia dall’altro lato del chiostro, non aveva piani intermedi ed era coperto con un tetto in legno a capriate. Solo una copertura con strutture non spingenti, quali le capriate in legno, poteva essere infatti compatibile con il modesto spessore dei muri d’ambito, che non supera in nessun caso i sessanta centimetri. All’inizio del cinquecento, e precisamente nel 1513, l’edificio venne suddiviso in due piani con la costruzione di una grande volta, molto probabilmente a botte con unghie in corrispondenza alle finestre. Il locale ottenuto al piano terreno fu adibito a refettorio della comunità. I lavori vennero eseguiti da mastro Piero da Brensa, curiosa figura di imprenditore e architetto piuttosto attivo a Bologna in questo periodo, dietro un compenso di cinquecentocinquanta lire, più altre dieci per "l’armadura", cioè per le catene in ferro, indispensabili per assicurare l’equilibrio statico delle volte, che non poteva essere certo affidato ai muri preesistenti, di spessore troppo modesto e senza alcun contrafforte esterno. Poco dopo il compimento dell’opera, il quindici luglio 1516, inaspettatamente crollò tutta la volta, mentre i frati, fortunatamente, erano in chiesa. Tutto il danno ricadde sulle spalle del povero mastro Piero da Brensa, il quale non aveva ancora ricevuto il compenso pattuito; l’opera, evidentemente, era ancora - si direbbe oggi - sotto collaudo. Buon per lui che il monastero mosso a compassione gli condonò "cento ottantasei lire e dodici soldi per rifare il caduto edificio, senza le chiavi che si ruppero et il Monastero le fece risaldar et riboglire". Sfruttando quelle pareti che non erano state dissestate dal crollo delle volte mastro Pier da Brensa ricostruì subito il refettorio grande con una volta a botte policentrica e unghie perimetrali in corrispondenza alle finestre, impostata su peducci in arenaria (che nel secolo XVIII verranno contraffatti con riporti in stucco, tranne due, sulla parete di mezzogiorno). Nella nuova costruzione furono ricollocate le catene in ferro recuperate, "rinsaldate e riboglite", cioè ricomposte nella lunghezza necessaria mediante saldature ottenute alla forgia lavorando il metallo portato al color bianco. Questa volta la costruzione riuscì bene. Tanto bene che la nuova volta con le sue catene in ferro si conserverà perfettamente efficiente ed integra, nonostante l’incendio del 1747, i molti terremoti, segnatamente quelli del 1779 e del 1929, e le bombe cadute nelle immediate vicinanze, una addirittura subito al di là della testata di mezzogiorno durante l’ultimo conflitto. E anche quando, nella notte del 14 febbraio 1970, quattro delle nove catene in ferro improvvisamente si spezzeranno, il dissesto sarà estremamente limitato e nessun danno verrà alle mille e più persone affollanti la sovrastante sala Bossi. Nessun morto nel crollo del 1516 - avvenuto mentre "li frati erano in chiesa"; - nessun incidente durante il dissesto del febbraio 1970. Evidentemente la costruzione può ben dirsi nata sotto una buona stella. Per la verità il merito del buon comportamento statico della volta, che pur sotto carico non si è dissestata nonostante l’improvvisa rottura di quattro catene, va equamente ripartito fra il mastro Piero da Brensa e la particolare curvatura della sua volta, e le costruzioni attestate ai lati del refettorio grande, le quali hanno svolto la funzione di contrafforti sostituendosi all’azione delle catene quando questa è venuta meno. [P. 103] In modo particolare è stata provvidenziale la presenza del porticato del chiostro che ha impedito il rovesciamento - o anche una semplice rotazione - del muro longitudinale di levante, a differenza forse di quanto era avvenuto nel 1516, quando contro il muro esterno di levante del refettorio non si attestava alcuna costruzione. Come si è visto la causa di entrambi i dissesti della volta di copertura del refettorio grande, quello del 1516 e quello del 1970, è stata la rottura delle catene in ferro alle quali era stata affidata la funzione di contrasto delle spinte verso l’esterno date dalla volta in muratura. Spinta assai notevole, dell’ordine di grandezza di almeno venticinque tonnellate per ogni catena, di cui quattro quinti circa per il solo peso proprio della struttura. Per reggere un tale sforzo mastro Piero da Brensa aveva assegnato alle sue catene una sezione di circa dieci centimetri quadrati, una sezione cioè che oggi si reputerebbe assai scarsa, sia pure con l’uso di catene con caratteristiche qualitative molto migliori di quelle delle catene di cui si poteva disporre nel Cinquecento. In quel tempo infatti i materiali ferrosi erano prodotti con procedimenti artigianali - i così detti bassi fuochi o fuochi catalani - dai quali si ottenevano piccole masse spugnose che venivano successivamente liberate dalle impurità mediante prolungate martellature a caldo. Il metallo, data la mancanza di combustibili e di procedimenti adeguati, non poteva mai giungere allo stato liquido, ma solo a quello pastoso. Di conseguenza gli oggetti di ferro di grandi dimensioni, come le catene da usare in edilizia, venivano prodotte mediante la successiva unione alla forgia di piccoli pezzi di metallo portati al color bianco e preventivamente trattati nei punti di saldatura con piccole quantità di sabbia. Ovviamente la buona qualità dei prodotti finiti non poteva mai dirsi del tutto garantita. Troppe infatti erano le componenti che entravano in gioco, e molte non potevano essere esattamente valutate con i mezzi di cui disponeva la metallurgia del tempo. Segreti o quasi (da essi infatti dipendeva la produzione delle armi) erano i sistemi di carburazione del ferro, e di valutazione dell’effettiva entità di questa carburazione. Universalmente diffuso il sistema di riutilizzazione costante di ogni oggetto di ferro per produrre altri oggetti, con il risultato che questi ultimi venivano ad essere composti da materiali di diversa qualità - soprattutto in relazione al tenore di carbonio - e risultavano quindi discontinui nelle loro caratteristiche intrinseche di lavorabilità, resistenza alla trazione e resilienza. Di impossibile controllo infine la efficienza delle saldature dei vari pezzi, effettuate con sistemi diversi e, soprattutto, da artigiani di diversa abilità e, di tanto in tanto, da apprendisti non ancora esperti. Anche le catene del refettorio grande, di cui si sono potute esaminare e analizzare le caratteristiche, rientrano nel quadro generale dianzi tratteggiato. Esse, infatti, risultano eseguite mediante l’impiego di materiali fra di loro assai diversi, con tenore di carbonio variabile fra lo zero e l’uno per cento. Cosa questa del resto ovvia, quando si pensi alla difficoltà che avrà certo incontrato mastro Piero da Brensa nel reperire in breve tempo una cosi considerevole quantità di materiale ferroso, quale quella necessaria per l’esecuzione delle diciotto catene (nove alle imposte della volta e nove in corrispondenza alla sommità di queste, secondo l’uso del tempo) e dei relativi bolzoni per l’ancoraggio alle pareti. Una quantità che si può valutare all’incirca in una trentina di quintali e che, per quel tempo, dovette rappresentare un impegno piuttosto consistente. [P. 104] Impegno non solo relativo all’approvvigionamento del materiale ma anche alla sua lavorazione, che senz’altro dovette essere affidata a diverse persone. Lo provano le saldature dei vari tratti formanti ogni catena, ottenuti nei modi più diversi e curiosi, con giunzioni a becco di flauto, a gola di lupo e a sella. Di queste giunzioni alcune furono eseguite da fabbri coscienziosi, a perfetta regola d’arte e si sono mantenute perfettamente efficienti fino ai nostri giorni. Altre, invece, vennero eseguite con una certa trascuratezza o, forse, con procedimenti errati. Ad almeno due di queste giunzioni male eseguite si devono infatti imputare le rotture delle rispettive catene, la cui sezione utile, in corrispondenza a tali giunzioni, si era ridotta a non più della metà di quella prevista, con conseguente concentrazione delle sollecitazioni di trazione oltre i limiti di resistenza del metallo. Di qui la rottura delle catene registrata lo scorso febbraio. Rottura che, pur essendosi risolta felicemente con un nuovo equilibrio statico delle strutture, pone da un lato una serie di interrogativi e dall’altro ci fornisce una grande quantità di elementi utili ed interessanti come oggetto di meditazione e di approfondimento delle nostre conoscenze sulle strutture di un tempo e sulle tecniche antiche. Un utile apporto, quindi, per i futuri interventi di restauro.Franco Bergonzoni