FRANCO BERGONZONI

NOTE E PRIME CONSIDERAZIONI

SUI LAVORI IN CORSO NELLA BIBLIOTECA

Estratto da:

ANNUARIO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA "G. B. MARTINI" DI BOLOGNA

EDITORE RICCARDO PÀTRON - BOLOGNA 1971

 

a cura di Antonio Cringoli

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[P. 241] Sapienza costruttiva degli antichi e insipienza dei rabberciatori di ieri. Così completato, il titolo di queste note è senz’altro molto più rispondente al vero. Non si potrebbe infatti sintetizzare più chiaramente la situazione statica della biblioteca del Conservatorio precedente l’intervento effettuato d’urgenza dall’ufficio tecnico comunale, e iniziato verso la fine del 1968, al fine di evitare - forse in extremis- la rovina di una parte dell’antico convento dei frati Agostiniani e, con esso, la distruzione di un ingente patrimonio librario. Sempreché, a rincarare la dose, non ci fosse scappato il morto. La descrizione degli interventi effettuati e dei successivi lavori di restauro - al momento presente non ancora completati- merita, per la singolarità del caso, l’onore di una premessa. Ecco dunque l’antefatto. Da tempo la Direzione e i bibliotecari (comunale e statale) del Conservatorio avevano segnalato alcune piccole lesioni in una delle pareti della sala di lettura; lesioni insignificanti, almeno a prima vista, e di modeste dimensioni, ma non per questo sprovviste di una particolare e tenace malignità nel riformarsi regolarmente dopo essere state chiuse. Alla cosa, comunque, non veniva attribuita troppa importanza, sia per l’inveterata abitudine di considerare rientranti nella norma i piccoli dissesti nelle antiche strutture, sia -e soprattutto- in quanto il muro interessato dalle lesioni era di notevole spessore e, come tale, facente parte di una compagine muraria per tutto il resto integra e bene assolvente le proprie funzioni portanti [cfr. Tavv. XV, XVI, XVII]. Portante, invece, il nostro muro non lo era affatto, nonostante le apparenze. Anziché di un muro si trattava di una complessa ed interessantissima struttura ad arco, tamponata con un doppio tavolato di mattoni simulante una continuità muraria, che in effetti non c’era, e sopportante una serie di volte in muratura di mattoni in foglio, debitamente rinfiancate. Una struttura ideata molto intelligentemente per poter realizzare l’ultimo tratto del loggiato antistante lo scalone monumentale [P. 242] con caratteristiche uguali a quelle degli altri loggiati del primo piano -e cioè con un soffitto in volte a croce- senza gravare sulla sottostante volta da tempo costruita. Volta che, per le sue dimensioni (circa undici metri per nove) [cfr. Tavv. XVIII - XIX] e per la sua forma, a sesto alquanto ribassato, non era stata evidentemente giudicata idonea a sopportare il notevole peso del nuovo muro e del relativo soffitto ma che, provvidenzialmente, si dimostrò invece capace di caricarsi di tanto onere quando, a duecent’anni di distanza, mani sconsiderate aprirono due porte proprio in corrispondenza alle imposte del grande arco di scarico e tutto il muro trasversale, non più sostenuto, venne a gravare col proprio peso e con quello del soffitto soprastante al centro esatto della volta. La quale, ovviamente, sotto l’azione del nuovo carico si deformò -ed ecco l’origine delle lesioni di cui si è dianzi ragionato- e continuò a deformarsi sempre di più con il continuo accrescersi del peso dei libri che, acquisiti o donati alla biblioteca, venivano preferibilmente collocati… proprio in corrispondenza alla linea mediana della volta sottostante. Che si trattasse della zona meno idonea ad essere caricata di pesi ulteriori nessuno, in verità, lo sapeva, così come nessuno avrebbe mai immaginato quali sorprese -e quale pericolo latente- nascondesse, con l’arco di scarico in essa incluso ma, ahimè, privato ormai delle sue imposte, la parete di destra della biblioteca. Tanta tranquilla ignoranza (in senso strettamente etimologico, s’intende) traeva le sue origini da uno stato di fatto da tempo consolidato, in virtù del quale religiosi al piano terreno e musicisti al primo piano vivevano ignorandosi reciprocamente, almeno per quanto riguardava le caratteristiche dei locali dell’altrui proprietà. Solo nella totale assenza di una visione globale delle caratteristiche statiche dell’intero complesso poteva collocarsi un intervento inconsulto come quello effettuato sul grande arco di scarico, così come solo in conseguenza di tale particolare situazione si poteva spiegare l’indifferenza di fronte al continuo riaprirsi di lesioni in strutture a prima vista portanti. Fortuna volle che, verso la metà del 1968, all’ufficio tecnico comunale venisse chiesto uno studio per la definitiva sistemazione della biblioteca e che, di conseguenza, venisse -per la prima volta-eseguito un preciso rilievo dell’immobile, piano terreno compreso. Dall’esame del rilievo apparve immediatamente l’anomalia statica della parete di destra della biblioteca (che ancora non si conosceva nelle sue vere caratteristiche) traversante il centro della grande volta sottostante e quindi gravante su di essa con tutti gli undici metri della sua lunghezza e con il peso del soffitto sovrastante. [P. 243] Considerata la precarietà della situazione -si pensi che la volta ha uno spessore in chiave di quindici soli centimetri e che sulla sua striscia mediana gravavano non meno di quaranta quintali per metro di sole strutture murarie, oltre al notevolissimo peso dei libri- venne deciso un immediato intervento al fine di evitare l’aggravarsi del dissesto già in atto. Rapidamente vennero trasferiti libri e scaffalature. Per ultime vennero spostate le vecchie librerie parietali e apparve finalmente in tutta la sua dimensione il muro incriminato. Apparvero anche, come era stato previsto, altre -e numerose- lesioni che le vecchie librerie avevano celato fino a quel momento. Lesioni che indicavano chiaramente in qual modo in origine il muro era stato realizzato - e cioè con un grande arco di scarico- al fine di non gravare sulla sottostante volta e come, successivamente, l’apertura delle due porte in corrispondenza alle imposte dell’arco avesse provocato il dissesto di una struttura così intelligentemente concepita [cfr. Tavv. XX, XXI, XXII, XXIII]. Risarcito con ogni prudenza l’arco seguendo la tecnica vecchia - ma sempre valida, almeno per le strutture antiche- della muratura con mattoni e malta di gesso, si poté finalmente procedere alla demolizione di tutto il tratto di parete sottostante l’arco, sgravando così definitivamente la grande volta e ripristinando l’originario equilibrio statico. A questo punto si dovettero rivedere tutti i progetti di sistemazione della biblioteca già elaborati e si incominciò a prendere in esame la possibilità di realizzare una sala di lettura non più limitata alle dimensioni di quella precedente, ma ampliata fino a coprire una superficie doppia, equivalente cioè all’incirca alla superficie del salone sottostante. Evidentemente, però, il vecchio edificio non si era ancora stancato di riservare delle sorprese. Spostando l’indagine dal primo piano al sottotetto - di cui, ovviamente, si volevano conoscere le condizioni prima di dare inizio alla sistemazione della biblioteca- ci si imbatté, inaspettatamente, nelle strutture della costruzione primitiva, quasi sicuramente trecentesca, perfettamente conservate. Al di sopra del soffitto in volte a croce, ascrivibile alla metà del settecento, esistevano ancora i tratti terminali dei muri perimetrali in mattoni - a vista verso l’esterno e intonacati con tinta verde a fresco verso l’interno- nei quali erano conservate praticamente intatte le parti superiori di tre finestre a sguancio, rifinite con mattoni molati e lavorati a minuscoli dentelli, recanti ai lati dell’architrave due piccole mensole in cotto. Anche il coperto, nelle sue parti essenziali, [P. 244] era ancora quello originario, interessantissimo per la sua conformazione del tutto particolare, da tempo non più in uso. Esso, infatti, è costituito da una serie di capriate in travi squadrate di legno di abete, sostenute da mensole pure in legno a profilo sagomato, poste ad intervallo costante di sei piedi bolognesi (circa due metri e trenta) e sopportanti una serie di travicelli di piccole dimensioni, anch’essi con mensole; sopra a questi si stende -purtroppo incompleto- il tavolato disposto nel senso della pendenza del tetto, con coprifili in legno ad intervalli regolari. L’aspetto del coperto, la sua perfetta esecuzione e le tracce di tinta scura ancora esistenti sui legni provano con tutta certezza che, in origine, esso era stato in vista. Avvalorano questa tesi le tracce di tinta verde all’interno dei muri perimetrali, che si spingono fino alla quota di imposta delle capriate. In seguito a questa ulteriore, ed imprevista, scoperta, è sembrato opportuno riconsiderare tutti i progetti finora elaborati, i quali prevedevano la conservazione delle volte settecentesche ed il mantenimento in vista -quale elemento puramente strutturale, in fondo alquanto inusitato- del grande arco di scarico traversante tutto lo spazio destinato alla nuova sala di lettura. In seguito ad un approfondimento dell’esame del monumento, oltre che da un più dettagliato studio degli elementi già noti, è stato ritenuto più conveniente ed accettabile un ritorno alla primitiva forma trecentesca, della quale tanti elementi ancora sussistevano a documentazione anche di un momento della vita del vetusto complesso conventuale. La riscoperta e la valorizzazione dell’antico coperto -ormai già iniziate con l’avvenuta demolizione delle strutture settecentesche- ha comportato però la risoluzione di nuovi problemi. Le antiche Capriate, infatti, dopo secoli di mancata manutenzione, di interventi inconsulti e anche distruttivi, non erano ormai più in grado di tornare ad assolvere le originarie funzioni portanti. Di conseguenza si è provveduto a realizzare, al di sopra di esse, una nuova struttura di copertura in laterizio armato, debitamente coibentata, e totalmente indipendente dalle antiche strutture lignee. Queste ultime dovranno così sopportare solamente il proprio peso, e lo potranno fare senz’altro con tutta sicurezza, soprattutto dopo che saranno state disinfestate da eventuali parassiti ed opportunate risarcite, consolidate e protette con adeguati trattamenti [cfr. Tav. XXVI]. Un approfondimento dell’esame del monumento, si è detto, è stato alla base dello studio della soluzione adottata nella nuova organizzazione della biblioteca. Non sarà quindi inutile ripercorrere la successione delle costruzioni e degli interventi succedutisi in questa parte [P. 245] del complesso conventuale di San Giacomo Maggiore, sia con la scorta dei già noti documenti d’archivio, sia alla luce degli elementi emersi durante i lavori di consolidamento e di esplorazione finora eseguiti. Al fine di una più completa comprensibilità e delimitazione dell’oggetto della nostra indagine, non sarà inopportuno precisare che il corpo di fabbrica di cui si ragionerà è quello attualmente delimitato a nord dal fianco destro della chiesa, a ponente dal chiostro grande, a mezzogiorno dallo scalone monumentale e a levante dalla sagrestia. Dagli elementi finora rinvenuti non sembra errato desumere che nella seconda metà del Trecento questa parte del complesso conventuale avesse già le dimensioni attuali tanto in pianta quanto in alzato (escluso ovviamente il portico prospiciente il chiostro, con il corpo di fabbrica ad esso sovrastante, di chiara impronta cinquecentesca) così come sembra ormai accertato, da tracce di finestre rinvenute verso la fine dell’Ottocento, che il primo impianto dell’edificio debba farsi risalire alla seconda metà del secolo precedente. Nella seconda metà del Trecento l’edificio doveva già essere a due piani, con un solaio intermedio in legno, sotto il quale correva un magnifico fregio ad affresco (1). Il coperto doveva essere quasi sicuramente quello a capriate rinvenuto nel corso dei lavori. Il primo piano riceveva luce da due file di finestre a sguancio, disposte lungo i lati di levante e di ponente al di sotto delle capriate. Una di tali finestre, di forma rettangolare molto allungata, è stata rinvenuta nel muro di ponente, in corrispondenza del cortile che corre lungo la sagrestia della chiesa di San Giacomo. Molto probabilmente, fin da quel tempo, il piano terreno dell’edificio doveva essere destinato a sala capitolare. Se è vero che nel 1564 venne "constatato che la cappella di Santa Lucia, che si trova nell’andito che è tra la sagrestia e il capitolo", era "molto malridotta" (2) esaminando la planimetria del complesso conventuale l’ubicazione della sala capitolare appare chiaramente identificata nel corpo di fabbrica di cui ora ci occupiamo.[P. 246] Verso la fine del Quattrocento le finestre del piano superiore vennero modificate, pur conservando la precedente forma rettangolare, ed ebbero all’esterno una finissima decorazione in cotto, per la quale potrebbe non essere impropria una attribuzione al Nadi, che in quel tempo operava nell’attigua cappella di Santa Cecilia. Tracce di queste finestre, come già si disse, sono state rinvenute nel corso dei lavori nel sottotetto del corpo di fabbrica soprastante il portico del chiostro. Molto probabilmente a questo momento della vita dell’edificio si deve ascrivere la tinteggiatura a fresco del primo piano, che ancora conservava le dimensioni della sottostante sala capitolare e non doveva essere suddivisa da tramezzi, con quella magnifica e tipica tinta verde, di cui si sono rinvenute larghe tracce nel corso dei lavori. Nell’arco di tempo compreso fra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento il solaio in legno sovrastante la sala capitolare venne sostituito con la grande volta a padiglione, con unghie perimetrali, tuttora esistente (3). Nell’intercapedine fra la volta e il pavimento rimase nascosto il fregio che correva sotto il precedente solaio in legno, che in tal modo si è potuto conservare fino ad oggi, preziosa testimonianza di un tipo di decorazione fino ad ora non troppo nota. Il nuovo piano ottenuto al di sopra della grande volta venne tramezzato con un muro longitudinale formato, per evitare pesi eccessivi, da due muri in foglio collegati da una serie di pilastrini interni. Il pavimento venne realizzato con quadrelli di cotto della misura allora corrente: mezzo piede (circa diciannove centimetri) di lato. Probabilmente questo nuovo piano ebbe anche un proprio soffitto in legno, di cui però non è rimasta alcuna traccia. Tracce, invece, di altre modifiche, quali ulteriori tramezzature, modifiche di aperture e simili, si sono potute riscontrare durante i lavori di consolidamento e provano come l’edificio si sia continuamente adattato alle mutevoli esigenze dei suoi abitanti, fino a quando, l’otto febbraio dell’anno 1747 "abbrugiò una parte del convento ed una casa attinente ad esso nella via delle Campane, ove fu poi eretto di nuova pianta un gran casamento, che fu compito di fabbrica l’anno 1750". L’incendio risparmiò [P. 247] la parte del complesso che stiamo ora esaminando, come è provato dalla esistenza dell’antico coperto trecentesco in legno di recente ritrovato. Tuttavia, nella ricostruzione del "gran casamento", e cioè degli edifici attestati sul chiostro grande, anche il nostro fabbricato fu in parte trasformato, con la copertura a volta del loggiato di fronte alla "nuova sontuosa e teatrale scala maggiore del convento, di Alfonso Torreggiani" (4). La modifica del soffitto di questo loggiato - che, come l’altro, trasversale allo scalone, aveva la funzione di disimpegno dei locali ad esso attestati su ambo i lati- comportò la risoluzione di un difficile problema di statica. Il muro destro del loggiato, sul quale sarebbero venute poi a gravare le volte del nuovo soffitto, si sarebbe dovuto costruire in corrispondenza alla linea mediana della grande sala sottostante, coperta con una volta a padiglione a sesto ribassato. Un peso enorme che la volta non avrebbe certamente sopportato. Per la verità in questa posizione un muro già esisteva, ma era un muro leggero, formato da due pareti in foglio, sul quale, probabilmente, si appoggiava un soffitto in legno, quindi di peso trascurabile. Su di un muro di tal fatta sarebbe stato però molto arrischiato posare le volte della nuova soffittatura. Il problema venne risolto in modo assai brillante, soprattutto se si considerano le possibilità tecniche del tempo. Si cominciò con una modifica del salone sottostante, la cui lunghezza venne ridotta da quindici a dodici metri circa, mediante un muro trasversale, comprendente anche, a metà, un robusto pilastro (5). Al di sopra si costruì un grande arco di scarico, che sfruttò, come appoggio, il pilastro appena costruito e, dall’altro lato, un muro già esistente e di sufficiente portanza. Per la costruzione dell’arco di scarico si utilizzò, come centina, il muro a cassa già esistente, il quale venne demolito nella sua parte superiore e sagomato secondo la curvatura dell’arco che si voleva realizzare (6). Costruito l’arco di scarico, si poté con tutta tranquillità [P. 248] proseguire la soprastante muratura e realizzare la prevista copertura in volte a crociera. Sulla volta della sala sottostante venne così a gravare un peso assai limitato, il peso cioè della sola porzione di muro a cassa rimasto al di sotto dell’arco di scarico. Per mettere in comunicazione il nuovo loggiato con i locali posti alla sua destra venne praticata -in perfetta coerenza con il sistema costruttivo adottato- una piccola porta al centro dell’arco di scarico, ovviamente al di sotto dell’arco stesso. Per molto tempo la nuova sistemazione si conservò integra e perfettamente efficiente. Col passar degli anni però, mutandosi le esigenze e, soprattutto, venendo a mancare la memoria degli interventi precedentemente effettuati sulle strutture dell’edificio, cominciarono le modifiche e le manomissioni. Si cominciò col sopraelevare il piano del pavimento dei locali attigui al loggiato, posti al di là del muro inglobante l’arco di scarico. Aumentò quindi il peso sulla volta della sala sottostante e - quel che è peggio- aumentò in modo irrazionale, solo su di una metà della volta stessa. La quale, essendo ben costruita, resse bene a questa prima prova, ma cominciò a dar segni di stanchezza quando, alcuni anni dopo, venne aperta una porta che tagliò netto l’arco di scarico in corrispondenza al suo appoggio sinistro. Le condizioni di affaticamento della volta continuarono ad aggravarsi, anno dopo anno, con il progressivo aumentare dei libri coscienziosamente stipati nelle grandi librerie addossate al muro, che ormai gravava con buona parte del suo peso sulla volta stessa. Venne, infine, l’ultimo intervento, e cioè l’apertura di una seconda porta, praticata proprio in corrispondenza all’appoggio destro dell’arco di scarico, allo scopo di realizzare un nuovo accesso alla stanza destinata ad accogliere i cimeli rossiniani depositati presso il Conservatorio. Con questo ultimo intervento l’arco di scarico venne a perdere ogni sua funzione. Per buona fortuna la volta sottostante continuò a reggere, anche se -forse- ormai al limite delle sue possibilità statiche. E cominciarono ad apparire quelle lesioni che, qualche anno più tardi, avrebbero funzionato da campanello d’allarme e dato origine -finalmente- ad un generale consolidamento dell’edificio e ad un suo definitivo restauro. Restauro che è ora in corso e sul quale, ovviamente, non si possono ancora trarre conclusioni definitive. [P. 249] Queste poche note, quindi, si devono considerare solo come una introduzione all’argomento sul quale, a lavori ultimati, e dopo aver acquisito ulteriori elementi e documentazioni, non si mancherà di ritornare. I lavori di consolidamento -diretti dallo scrivente nella sua qualità di capo divisione edilizia pubblica dell’Ufficio tecnico comunale- sono stati eseguiti a spese del Comune di Bologna, proprietario dell’immobile, per mezzo del servizio manutenzione fabbricati comunali, diretto dal geom. Alfredo Lolli. All’esecuzione dei lavori non è mancata, ovviamente, l’alta sorveglianza del Soprintendente ai Monumenti, arch. Francesco Schettini.

 

NOTE:

(1) Ampie tracce di questo fregio sono state rinvenute sul muro di levante nell’intercapedine esistente fra il piano del pavimento della Bibiblioteca e la sottostante volta della sala Capitolare. Gli elementi floreali stilizzati ripetuti sul fondo nero della parte centrale del fregio, e le decorazioni geometriche delle fascie correnti sopra e sotto la zona figurata permettono di stabilire con sufficiente attendibilità la data di esecuzione dell’opera pittorica all’inizio della seconda metà del Trecento. Si vedano, in proposito, altre opere della medesima epoca nell’attigua chiesa di San Giacomo e all’interno delle arche di recente riaperte sotto il portico esterno.

(2) Bologna, Archivio di Stato: Demaniale, S. Giacomo, 122/1728, vol. II, cc. 79v-80 apud D. LENZI, Regesto in "Il Tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna – Studi sulla storia e le opere d’arte – Regesto documentario", Bologna 1967, p. 244.

(3) Parrebbe provare l’asserto la forma della volta e la scoperta, effettuata dallo scrivente, di una iscrizione dipinta ad affresco sul muro di fondo della sala capitolare (ora corrispondente alla centrale termica della chiesa). Tale scritta, coperta a calce da molto tempo e perciò sfuggita sinora agli studiosi, consta del seguente testo: ...ARs. F. HIERONs. SERIPANDVS NEAPs., / …. ET CONC. TRIDni. LEG. A PIO IV / AN. 1561. Sembrerebbe lecito arguire che l’iscrizione sia stata apposta dopo l’avvenuta sistemazione della sala capitolare a ricordo dell’elezione a cardinale e della nomina a legato pontificio presso il Concilio di Trento, entrambe avvenute nel 1561, del celebre teologo agostiniano Girolamo Seripando.

(4) Cfr. D. LENZI, Regesto cit., p. 257.

(5) Il muro divide la grande sala, attigua alla sagrestia, dalla centrale termica della chiesa. In quest’ultima è ancora chiaramente visibile il tratto di volta originariamente apparente all’unico grande salone al piano terreno, ricavato dalla vecchia sala capitolare.

(6) Questo particolare è stato notato durante i lavori di consolidamento dell’arco di scarico. Si è infatti constatato che il vecchio muro a cassa non aveva la stessa larghezza dell’arco ad esso sovrapposto al quale, pertanto, si era dovuto affiancare un rigrosso di spessore variabile allo scopo di realizzare superfici murarie abbastanza piane. Inoltre l’estradosso dell’arco presentava colature di malta in corrispondenza a tutti i giunti, prova che non si era usata alcuna centina, ma si erano disposti i mattoni del nuovo arco direttamente sul muro a cassa sagomato secondo la curvatura stabilita per l’arco stesso.