BEATO ANDREA DA MONTEREALE

di Vico Stella

 

Montereale (AQ) 1990

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Gli Agostiniani […]

 

Gli Agostiniani nel ‘400

[pag. 6]I primi due secoli dopo la Grande Unione del 1256, vengono definiti dagli storici agostiniani “i secoli d’oro” dell’Ordine. Veramente non ci si sarebbe aspettata una così ricca fioritura di dotti, di letterati, di predicatori, oltre che di santi, da un Ordine religioso sorto da un’aggregazione di eremiti, fino allora vissuti appartati su i monti, dediti alla penitenza e alla preghiera. Basti ricordare, nei primi cinquant’anni di vita dell’Ordine, i nomi di un Egidio Romano, di un Giacomo da Viterbo, di un Agostino Trionfo d’Ancona; il primo eletto poi alla sede vescovile di Bourges, in Francia e il secondo a quella di Benevento e quindi a quella di Napoli. Tutti e tre, come altri, teologi di fama internazionale, contemporanei di S. Tommaso d’Aquino e di S. Alberto Magno; divennero intrepidi difensori e assertori della dignità e dell’autorità del Papa, contro le tesi di coloro che volevano [pag. 7] il Papa sottoposto all’Imperatore o al Concilio Ecumenico. Questa difesa del Papa sarà una costante nella storia degli Agostiniani. Inizia appunto con Egidio Romano nella difesa di Bonifacio VIII, fino a Fra Mariano da Genazzano, celebre predicatore, il quale rintuzzerà vivacemente gli attacchi del Savonarola contro Alessandro VI. Dotti e Santi. Anche qui basterà ricordare alcuni nomi, tra i più venerati, di Santi e Sante agostiniani. Ci dice il P. D. Gutierrez, nella sua recente Storia dell’Ordine: “Nella moderna Biblioteca Sanctorum figurano quindici agostiniani, che morirono prima del 1356 e il cui culto immemorabile è stato approvato dalla Chiesa. “I cronisti agostiniani, nei loro elenchi, ci offrono più di cento confratelli insigni per santità, vissuti tra il 1357 e il 1518, tra i quali due Santi canonizzati e tredici Beati, il cui culto immemorabile è stato approvato dalla Chiesa, e altri venti per i quali non si è ancora ottenuta tale approvazione”. Vogliamo citare soltanto: S. Nicola da Tolentino, S. Giovanni da Sahgun, S. Chiara da Montefalco, S. Rita da Cascia, Beato Giacomo da Viterbo, Beato Simone da Cascia, Beato Guglielmo da Tolosa. In questa eletta schiera entra adesso anche il nostro Beato.

 

Cronaca di un giorno di festa

Ecco. Son qui. Su questo altipiano, aperto, immenso, luminoso nel sole. Una sorpresa per me, questo sbocciare di vette in ampie frastagliate corolle. E, in mezzo, la gemma, azzurra, scintillante: il bel lago di Campotosto. Ho risalito la valle del Vomano, dalla riviera adriatica. [Pag. 8] Pendici, valli, forre e gole, a volte strette, cupe, con rari sprazzi d’azzurro. Ecco perché la meraviglia; a quest’altezza una grande pianura, non brulla, verde, abitata, movimentata, in questo periodo, da un discreto silenzioso turismo. Costeggio il lago, quasi per intero: roulottes, campeggiatori, villeggianti. Mi colpisce questo turismo quieto, pudico, timoroso di turbare la rustica serenità dell’ambiente. Ora salgo a Mascioni, dove seicento anni fa nasceva il nostro pastorello, il Beato Andrea da Montereale. Poche case, alcune dirute, altre in rifacimento, alcune messe a nuovo per la villeggiatura. Vie strette, rampanti, colorate di sole, di tenue ombre, pulite, adorne di verde e di fiori. Simpatico, questo agglomerato di case, raccolte a spirale su questo poggio, come sulla tolda di una nave protesa sul lago, pronta per una crociera nel sole. C’è ancora la sua, la casa dove nacque, nel 1397; una parte è trasformata e adibita a cappella. L’esterno e tutto il complesso, a sassi e pietre, trasmette ancora il tipico sapore ambientale dell’epoca. Di sorpresa in sorpresa. Era, il mio, nell’intenzione, un viaggio in incognito. Una gita. Una visuale paesaggistica in questi luoghi, resi celebri dalla vita e dalla morte del Beato. Invece. Già al primo entrare a Montereale, un manifesto, appeso ai muri delle strade, mi avverte che oggi è festa quassù. Festa per lui, il Beato Andrea. Festa patronale, con processione, concerto, banda. [Pag. 9] Questo tripudio di festa mi dice che il pastorello vive ancora tra la sua gente. E, come la generazione del suo tempo e le altre susseguitesi in questi cinquecento anni, così la generazione di oggi continua ad onorarlo, ad amarlo, ad esaltarlo. E quella statua, che incede per le vie cittadine, alta sulle spalle dei portatori (c’è anche una donna che si sottopone alle stanghe), sembra operare una trasposizione ottica: la sua presenza, viva, palpitante. E il popolo l’avverte e l’esterna in canti, preghiere, invocazioni. “Il nostro Beato!”. Figlio glorioso di questo popolo orgoglioso. Ma c’è del nuovo quest’anno. Un apposito Comitato (abbastanza efficiente, come noto dai risultati) ha curato una più degna e funzionale sistemazione della Cappella e dell’Urna del Beato, che un esperto ha riportato al suo splendore settecentesco. Mi attardo in preghiera e ammirazione. Ammirazione per il suo corpo, rimasto intatto, pur reso mummificato dai lunghi secoli trascorsi. Precisamente quest’anno, è stato sottoposto ad una accurata e competente ricognizione. Ottimi risultati, che hanno messo in luce particolari finora non conosciuti, quale quello che ci dice che il Beato soffriva di artrite; e inoltre, una vistosa callosità sotto il ginocchio testimonia di una vita di preghiera assidua, costante, sofferta. I devoti, poi, attraverso i vetri dell’urna, possono notare altri particolari in perfetta conservazione, come le mani e i piedi (hanno ancora la pelle), così i capelli, il volto, gli occhi. [Pag. 10] Ora sono in programma altri importanti lavori. Fervore di fede e di opere. Ma, noto: in tutti, nei Superiori dell’Ordine, nel Comitato, nelle Autorità cittadine e in ogni singolo fedele di Mascioni e di Montereale, come di altri luoghi, vive un’aspirazione ardente: poter cambiare presto l’invocazione di “Beato” in quella più gloriosa di “Santo”. “Sant’Andrea da Montereale, prega per noi”.

 

Il pastorello

Ecco. Vorrei si operasse anche per me, quest’oggi, una trasposizione ottica. Ritrovarmi, cioè, in questi luoghi, seicento anni fa, quando il nostro pastorello pascolava quassù il suo gregge. Scelgo un luogo solitario. Salgo su i monti che sovrastano Mascioni. Chiudo gli occhi e le orecchie al pur lieve movimento turistico, e li alzo su, verso il cielo, sopra la panoramica dei monti, e anche giù al lago, che da questa altezza ritorna ancor più mistico, solitario, assorto. Silenzio. Solitudine. Luminosità di cielo. Incanto di vette. Scintillìo di acque. E un gregge che bruca l’erba tra un pendio e l’altro. E lui è lì, tra le candide pecorelle, forse seduto su una di queste pietre, col ciufolo di canna; suona e si diverte. Poi. Contempla e prega. Certamente. C’è una presenza viva, qui, che lo avvolge tutto, lo investe, come il vento che passa. E lo riscalda. La presenza di Lui, dell’Assoluto, di Dio. Ha un cuore docile, ardente. [Pag. 11] Una mente aperta, vivace. Lo sapremo dopo, scorrendo la sua vita. E spesso alza gli occhi e guarda lontano, oltre quell’arco di cielo che lo illumina dall’alba al tramonto. O, a sera, su in alto, verso quella volta immensa disseminata di luci. Contempla e prega. Chissà? Forse un desiderio confuso, non ancora bene individuato, a poco a poco gli smuove l’animo e la volontà. Fino a diventare voce, richiamo, vocazione.

 

Finché un bel giorno...

Finché un bel giorno... Ecco passare su quei monti un religioso agostiniano. Dal vicino convento di Montereale, con la sua cavalcatura, si recava a Montorio, giù in basso verso l’Adriatico. Un incontro che decide una vita. Un incontro, quasi un idillio. Ma che si risolve in una chiamata e in una risposta. Come quello avvenuto sul lago di Tiberiade. “E lasciate le reti, lo seguirono”. “E lasciate le pecore, lo seguì”. Non subito, però. Attese il ritorno del frate. Certamente ne avrà parlato ai genitori, ne avrà avuto il consenso. Anche il frate ne avrà parlato ai superiori. E così, in un successivo incontro, eccoli di nuovo lì, proprio lì, tra il gregge, per la partenza definitiva. A proposito di questa partenza ci viene tramandato un particolare di tipico sapore virgiliano, illustrato in affresco nella chiesa di Montereale. [Pag. 12-13] Forse il tempo stringe. Forse era già tutto deciso con i genitori. Non c’è bisogno che Andrea torni a casa per l’ultimo saluto. Ma le pecorelle sì, devono tornare all’ovile. Prima però un ultimo saluto, un’ultima festa insieme. E lì di nuovo seduto sulle pietre, dà fiato al ciufolo, mentre le pecorelle gli danzano intorno. Infine, una voce al cane, un fischio alle candide ballerine, e queste, docili, s’incamminano, sole solette, verso casa. Lui, dopo averle seguite con occhio commosso fino all’ultima curva, s’incammina dietro al frate, verso quell’orizzonte che scolora al tramonto in leggere sfumature dorate. In attesa che un’alba nuova sorga ad illuminare per sempre la sua gloriosa giornata terrena.

 

La sua giornata: 1397-1479

La sua giornata terrena è racchiusa tra queste date. Due date, due secoli: il ‘300 e il ‘400. Se a Mascioni e a Montereale la vita scorre tranquilla, nella pace bucolica dei monti o nella quiete orante del chiostro, nel mondo e nella Chiesa ben altra è la vita che si svolge e l’aria che si respira. […][Pag. 14] Non sappiamo se il nostro pastorello, nei suoi primi anni di formazione a Montereale, abbia avvertito echi di tali avvenimenti. Forse quel tanto per indurlo a una più intensa preghiera e all’impegno per una preparazione seria, che lo abilitasse domani a svolgere con profitto la sua missione apostolica, in difesa della Chiesa e a salvezza delle anime. Come d’altronde già da anni svolgevano i suoi confratelli maggiori.

 

Sulla via della santità

Ecco. Sarebbe ancora necessaria una trasposizione ottica, che ci permetta di inoltrarci nel convento di Montereale, [Pag. 15] a vivere quegli anni insieme al nostro pastorello e a condividere l’ascesi, le aspirazioni, il laborioso e generoso cammino sulla via della perfezione, verso il raggiungimento di quell’ideale da sempre accarezzato nel cuore. Raccoglimento. Studio. Preghiera. Era già innamorato della solitudine, vissuta e respirata su i monti di Mascioni. Era già avviato e quasi sospinto per natura alla ricerca e al contatto col mistero sublime dell’Assoluto. Ora. Lo studio metodico, una preghiera regolata e compresa, man mano, col passare dei giorni, gli aprirono orizzonti radiosi, da renderlo felice, anche nell’aspetto esteriore, nel possesso di questa eterna e luminosa realtà. “O bellezza sempre antica e sempre nuova -aveva già cantato il suo grande Padre e Maestro- tardi ti ho conosciuto, tardi ti ho amato!”. “Solo in Te l’inquieto nostro cuore trova riposo”. Il nostro pastorello non ebbe bisogno di travagli giovanili, nè di angosciose attese. Il suo fu un continuo dischiudersi, un aprirsi a quella Luce incandescente di Amore, che da sempre lo sollecitava nel cuore. Certamente avrà avuto le sue crisi, i suoi annuvolamenti. Per questo si impegnò maggiormente, come vedremo, nella preghiera, nella penitenza. Ma, ormai, aveva già visto il Sole, ne aveva gustato il calore. Era certo della sua continua presenza, anche se a volte poteva sembrare assente. Peccato. Non abbiamo un suo scritto, un “Diario Spirituale”, che ci riveli l’intimo movimento mistico della sua anima. Dobbiamo ricavarlo dalle risultanze della sua vita o dalle testimonianze, quelle pervenuteci, di confratelli e di fedeli, che ne furono testimoni e partecipi. [Pag. 16] Sappiamo che prima di morire, in un “inventario-testamento”, come usavano allora i religiosi, aveva lasciato i suoi scritti e i suoi libri in dote a un certo Santi Alessio di Montereale, ma che nè lui nè i confratelli conoscevano, perché non ancora nato, ma che trent’anni dopo sarebbe diventato agostiniano, grande predicatore, insigne per dottrina. Così asserì il Beato. Una testimonianza del suo dono profetico. Una certezza che scritti personali ne aveva. E purtroppo un’amarezza per noi, per non essere riusciti a rintracciarli in qualche archivio o biblioteca. Il che fa supporre che siano andati definitivamente perduti. “Gli scritti del così detto Beato Andrea da Montereale, ricercati da me come Bibliotecario della biblioteca Angelica di Roma, dove si supponeva si conservassero, dopo una diligente perquisizione non si poterono rinvenire; e nemmeno è a me noto che si ritrovino in varie librerie dell’Ordine da me investigate con desiderio di scoprire se questi, ed altri Manoscritti dei nostri antichi, si ritrovassero. (P. Maestro Agostino Antonio Giorgi)”.

 

Una giornata in convento

La vita religiosa, in quegli anni, era vissuta nell’osservanza scrupolosa delle regole e in uno spirito di emulazione e di generosità. La giornata del religioso è descritta nelle norme dettate, oltre che dalla Regola del S. P. Agostino, dalle Costituzioni dell’Ordine, emanate dai Superiori Generali fin dai primi anni della Grande Unione.

 

La preghiera

[Pag. 17] Trascriviamo dalla Storia dell’Ordine del P. D. Gutierrez. “La divisione dell’Ufficio divino in diurno e notturno allora corrispondeva al significato di tali aggettivi. Durante la notte, in un’ora che variava a seconda delle stagioni dell’anno e le consuetudini di ciascun paese, in chiesa o in coro si recitavano i Mattutini: prima quello dell’Ufficio della Vergine e poi di seguito quello proprio del giorno. Poco prima dell’alba si recitavano le Lodi, seguite da Prima, Terza, e la Messa conventuale; Sesta e Nona a volte si recitavano dopo la Messa e in altri casi nell’ora corrispondente (ore 12 e ore 15). I Vespri si recitavano sempre sul far della sera; e di notte Compieta. All’Ufficio divino del giorno, e a quello della Vergine, del quale si dovevano recitare le ore diurne, gli agostiniani aggiungevano la recita quasi quotidiana della Veglia mariana, detta “Benedicta Tu”, composta di tre salmi e tre letture in onore di Nostra Signora della Grazia. Quasi ogni settimana recitavano l’Ufficio dei Defunti, cantando un Notturno e la Messa, con la processione e le preci nel cimitero della comunità (i morti venivano seppelliti in chiesa o nelle adiacenze). Alla buona celebrazione del culto servivano le scuole di canto, prescritte in ogni comunità: canto recitativo o salmodico e canto gregoriano. Non mancano neppure notizie degli organani e degli organisti. Le prime Costituzioni non trattano espressamente dell’orazione mentale. Ma è chiaro che la suppongono e la raccomandano in quei punti dove esortano i religiosi all’orazione fuori del coro, alternandola con lo studio, continuandola nel silenzio della notte”.

 

Vita di austerità e penitenza

[Pag. 18] “Il Priore del convento doveva esporre al postulante e aspirante alla vita religiosa il genere di vita che stava per abbracciare, spiegandogli l’austerità dell’Ordine, la rinuncia alla propria volontà, la povertà del cibo, la rozzezza delle vesti, le veglie notturne, le fatiche diurne, la mortificazione del corpo, l’umiliazione della povertà, il rossore della mendicità, la debilitazione del digiuno, il tedio del chiostro e altre cose simili a queste. L’Ordine agostiniano non è mai figurato tra i più noti per le sue austerità e penitenze. Nelle leggi citate non si parla di cilizi nè di discipline, nè di dormire per terra o su tavole; eppure non sono mancati religiosi (tra questi il nostro Beato) che hanno castigato il loro corpo in tutte queste maniere, come quel fr. Giacomo Piccolomini, di cui il Cardinale Egidio da Viterbo dice che dormiva per terra, non assaggiava il vino e portava il cilizio, benché appartenesse a una delle più nobili famiglie di Siena. I religiosi -dicono le Costituzioni del tempo- non mangino carne il lunedì e il mercoledì (oltre il venerdì); nei venerdì osservino il digiuno, in modo che alla sera si dia loro solo una bevanda e un po’ di pane; dalla festa di Tutti i Santi si faccia un solo pasto al giorno, fino alla Natività di Nostro Signore. Tolleriamo che dalla festa dei Santi fino all’Avvento nell’unico pasto si possa prendere carne, uova e latticini; ma dall’Avvento alla Natività si osservi il digiuno rigoroso. Naturalmente non era meno rigoroso tale digiuno nel tempo di Quaresima, nè mancavano le così dette Vigilie e i Digiuni solenni nei mesi di gennaio e febbraio e da aprile a ottobre “.

 

Gli studi

[Pag. 19] “Dopo il tempo di Noviziato, nel quale ogni novizio doveva rimanere per un anno e un giorno, il candidato alla vita religiosa pronunciava i suoi voti -povertà, castità, obbedienza- e cominciava la sua preparazione scientifica, che, per regola generale, si estendeva dal compimento dei quindici anni fino ai ventiquattro di età. Se non era già una persona istruita, doveva assistere alle lezioni di grammatica fino a che non sapesse leggere e si rendesse conto di quello che leggeva, cioè fino a capire il latino. Apprese le regole grammaticali di Donato e Prisciano, per lo meno in compendio, il giovane passava alla scuola di logica, dove si studiavano alcune opere di Aristotele, di Porfirio e altri scritti di Boezio. Nelle scuole di logica, che duravano almeno tre anni, cominciava già la preparazione filosofica con lo studio anche della Metafisica. Ma la formazione filosofica non terminava in questa seconda tappa di studi, continuava negli anni dedicati allo studio della Teologia. I due testi principali in quest’ultima disciplina erano la Bibbia e i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. I principali centri di formazione erano gli “Studi” generali, ossia Collegi dell’Ordine, perché dovevano accogliere alunni di tutte le Provincie (ai tempi del Beato le Provincie religiose dell’Ordine erano ventiquattro). Il primo di tali Studi, in ordine di tempo e di importanza, fu quello di Parigi, il più favorito dai Superiori dell’Ordine, il più internazionale per professori e alunni, e quello che servì di modello, con in suoi Statuti, a quelli che ad esso si avvicinarono di più per fama e internazionalità. Furono primi in questo gli Studi di Bologna e di Padova. Segue lo Studio della Curia che si trovava a Roma o nella residenza pontificia; [Pag. 20] allo stesso si possono quasi paragonare quelli di Firenze, di Cambridge, di Oxford; meno internazionali quelli di Napoli, Siena, Milano, Vienna, Praga, Magonza, Colonia, Bruges, Strasburgo, Lione, Montpellier e Tolosa. Tre erano le tappe del corso di studi ecclesiastici e tre erano i tipi di corsi: uno per il sacerdozio, che ordinariamente durava nove o dieci anni, e che terminava con l’esame dei religiosi che dovevano dedicarsi al sacro ministero come predicatori e confessori; l’altro per il Lettorato, che tra i Religiosi Regolari veniva considerato un grado accademico e che durava poco più del primo corso, abilitava l’alunno, che era rimasto per cinque anni nello Studio generale e superava l’esame finale, all’insegnamento della Filosofia e Teologia ai propri confratelli; il terzo corso, che non durava meno di quindici anni e che era frequentato solo dai religiosi che volessero ottenere tutti i gradi accademici, abilitava ad esercitare l’ufficio di Professori Reggenti in uno Studio generale, incorporato ad una Università”.

 

Il pastorello in cattedra

Abbiamo lasciato il nostro amabile pastorello nel convento di Montereale, a trascorrere quegli anni di formazione nella preghiera e nello studio, secondo le norme che abbiamo riportato. Ci dicono i biografi che il suo curriculum fu brillante, e nella preghiera e nello studio. Ora è Sacerdote, e si presenta alla storia col nome che rimarrà venerato per sempre: P. Andrea da Montereale. Dopo Montereale, sull’età dei trent’anni, lo troviamo negli Studi di Rimini, di Padova, di Ferrara, a perfezionarsi negli studi, per conseguire, diremmo oggi, la laurea in Teologia e [Pag. 21] Diritto Canonico, o, secondo quanto abbiamo riportato, il titolo prestigioso di Maestro in Sacra Teologia. La sua prima cattedra è a Siena, nello Studio dell’Ordine, promosso Rettore e Professore. Dalle testimonianze qui sotto riportate possiamo dedurre con quale impegno e dottrina egli abbia svolto la missione di docente. “Il B. Andrea da Montereale rifulse per molti segni e miracoli ai nostri tempi. Fu dottissimo nella Filosofia e nella Teologia, come nel Diritto Canonico. Diede grande esempio di santità nelle opere di misericordia verso il prossimo, nel sopportare ingiurie con somma pazienza” (P. Ambrogio da Cori). “Il Beato Andrea da Montereale, persona molto dotta, grande predicatore; molto paziente e caritativo. Fiorì nell’anno 1479. Ha fatto molti miracoli” (Beato Alfonso d’Orozco). “In quest’anno (1479) si fa memoria del Beato Padre Andrea da Montereale; del quale si narrano molte cose meravigliose e miracoli; fu molto dotto nel Diritto Canonico, grande teologo, sommo filosofo, grande predicatore, amato da tutti: perché continuamente portava pace e serenità tra i popoli inquieti e divisi. Fu esempio di grande santità e devozione” (P. Girolamo Roman). “P. Andrea da Montereale, della Provincia dell’Umbria, teologo e abbastanza erudito nel Diritto pontificio, condusse una vita insigne per prodigi e miracoli” (Giuseppe Panfilo). “A Montpellier, in Francia, innanzi a un’accolta sceltissima di Padri dell’Ordine, convenuti da tutto il mondo, tenne dispute intricatissime intorno a questioni di Filosofia e di Teologia, da farne stupire l’assemblea; e giudicato degno, per acclamazione, del titolo di Maestro, all’età di trentacinque anni. Dopo di che gli venne dato l’incarico di insegnare nei nostri principali Collegi” (Riccitelli).

 

Il Superiore

[Pag. 22-23] Dalla cattedra al governo. A volte l’una e l’altro insieme. Esperto e dottissimo in Filosofia, Teologia e Diritto canonico. Ora si presenta esperto anche di problemi amministrativi e di responsabilità, se nella Cronistoria dei Regesti dell’Ordine lo troviamo più volte incaricato di varie mansioni in proposito. Sfogliando i Regesti (sì, erano dei registri dove venivano annotati le gesta, cioè le delibere principali del governo dell’Ordine), il primo ufficio che ricopre il P. Andrea è quello di Vicario del P. Generale nel convento di Norcia, ivi mandato dal P. Guglielmo da Salemi con piena autorità “di disporre e provvedere in merito al capo e ai membri della comunità. Inoltre con facoltà di accogliere nella famiglia del convento altri tre religiosi di altra Provincia”. Nel capitolo celebrato ad Amatrice il giorno di Pentecoste del 1453, viene eletto all’unanimità Superiore Provinciale della Provincia religiosa della Valle di Spoleto. Nel 1455 viene confermato Vicario Generale del convento di Norcia. L’anno avanti, nel 1454 viene inviato come Visitatore nel convento di Anghiari, per risolvere, a quanto pare, una vertenza amministrativa, sollevata da certi benefattori e stipendiati del convento. Finché nel 1459 troviamo notizia della sua rinunzia al priorato e alla reggenza dello Studio di Siena.

 

Sotto processo

Sì. Proprio così. Sotto processo. A questo punto la cronistoria dei Regesti cambia “registro”, [pag. 24] e invece di continuare a trasmetterci altre nomine e promozioni del P. Andrea, trascrive purtroppo delibere di sospensioni ed inchieste a suo riguardo. Vediamo. “Anno 1461, 18 febbraio, Viterbo - Abbiamo scritto a Norcia per sollevare dall’incarico di Priore di quel convento fr. Girolamo da Cittaducale, ingiungendo al medesimo, sotto pena di scomunica, di presentarsi entro quindici giorni, al suo Provinciale per essere collocato altrove. E comandiamo, in virtù di santa obbedienza, al P. Maestro Andrea da Montereale di non rimanere oltre in quel convento. Tutto questo abbiamo disposto per evitare scandali e per iniziare la riforma di detto convento, come ci è stato richiesto; disposti tuttavia a sentire gli stessi accusati e a dare loro piena soddisfazione”. “24 aprile dello stesso anno -Montefiascone- Abbiamo nominato il P. Provinciale, M. Gregorio da Spoleto e Fr. Giacomo da Bevagna Visitatori nella causa intentata dai religiosi del convento di Norcia contro il P. Maestro Andrea da Montereale, come nella vertenza di una donazione fatta al domestico del P. Maestro Nicola di Narni e a sua madre”. “25 giugno dello stesso anno -Firenze- abbiamo nominato il P. Maestro P. Ercolano da Perugia nostro Vicario nella Provincia della Valle di Spoleto. E come Visitatori nella causa del P. Maestro Andrea da Montereale il detto P. Ercolano e il P. Maestro Gregorio da Terni, perché entro due mesi svolgano l’inchiesta; sollevando dall’incarico i precedenti Visitatori, P. M. Gregorio da Spoleto e Fr. Giacomo da Bevagna”. “2 ottobre dello stesso anno -Scarperia- Abbiamo confermato gli Atti del Capitolo di Querceto e l’elezione canonica a Provinciale della Valle di Spoleto il Ven. P. Maestro P. Ercolano da Perugia. [Pag. 25] Inoltre confermiamo i visitatori nella causa del convento di Norcia e del P. Maestro Andrea da Montereale, con piena autorità di diffidare e punire, come richiede la colpa degli erranti (P. Guglielmo da Firenze Superiore Generale)”.

 

Cosa era successo

Cosa era successo? Mah! I Regesti non registrano la soluzione del caso, nè riportano alcuna sentenza in proposito. Anzi, nel 1468, riprenderanno a trasmetterci altre notizie buone sul nostro Beato, altri incarichi di fiducia e di governo. Una calunnia? Invidia? Malignità? Non sappiamo. Da come sono andate a finire le cose sembrerebbe proprio doversi trattare di quelle tre bestiacce. Innanzitutto, crediamo, sono da escludere mancanze di ordine morale, almeno per quanto attiene al nostro Beato. Abbiamo visto che ad essere inquisito e rimosso non è solo il P. Andrea, ma lo stesso Priore del convento. Inoltre si parla di una vertenza in merito a una donazione. Pertanto ci sembra di poter leggere tra le righe del Regesto che l’accusa rivolta dai religiosi verso i due Padri doveva essere di ordine amministrativo. Se così fosse, ci sarebbe facile capire e spiegare. I Santi sono fatti così. Quando si tratta di compiere opere di misericordia a beneficio del prossimo, non guardano a leggi e norme legali. E di conseguenza danno motivo agli invidiosi, paludati di legalismo, di accusarli presso le autorità competenti. Non dimentichiamo che il P. Andrea era stato Visitatore [Pag. 26-27] e Vicario Generale nello stesso convento. Incarichi questi che danno luogo in seguito a invidie e malignità nei men disposti ad essere inquisiti e corretti. E’ la prassi di ogni convivenza, religiosa e civile. E la comunità di Norcia ci appare una famiglia alquanto rissosa, se più di una volta la vediamo sottoposta alla cura dei Visitatori Generali. Per non essere considerati come quei biografi, che canonizzano il loro eletti fin dal seno materno, siamo disposti ad ammettere colpevolezza nel nostro Beato. Col risultato di rendergli maggior onore e stima. Avrà peccato il P. Andrea. Ma chi è che non pecca in questo mondo? L’importante è quel che segue. E quel che segue nella vita del Beato, nell’immediato, nel passato e nel futuro, vale assai di più di qualsiasi colpa che avrà potuto commettere. Agli onori degli altari non salgono solo gli innocenti, ma più numerosi ancora i peccatori.

 

Quasi un fioretto”

A sostegno della nostra tesi vogliamo citare a testimonianza, come si usa nei processi, un fatto accaduto al Beato nella sua attività benefica. “Mi riferisce il P. Cotta di aver consultato un manoscritto del convento di Montereale, nel quale era annotato che il nostro Beato aveva preso a soccorrere una povera vedova, carica di figlie vistose e pericolanti. Ma, fosse invidia, fosse malignità, per questo era stato messo in sospetto presso il Priore della casa, il quale un giorno, sorpresolo con un involto mentre si recava da tale famiglia, volle vedere che cosa portasse. [Pag. 28] Aperto l’involto si trovò che il contenuto si era cangiato in rose. Iddio aveva giustificato la carità del suo servo e aveva messo a nudo la malignità degli invidiosi e dei detrattori”. Fatti del genere possiamo trovarli numerosi nella vita dei Santi. Noi agostiniani li troviamo canonizzati nei Processi di canonizzazione di S. Nicola da Tolentino, riferiti da testimoni oculari. “Qui a Norcia, contro il nostro Beato nell’anno 1461 e 1462 venne agitata quasi una tempesta da parte dei cittadini e dei confratelli. Così in questo mondo il Signore usa mescolare alle gioie grandi amarezze, e quelli che vogliono vivere con pietà in Cristo Gesù, devono subire varie persecuzioni. Ma Colui che permise al mare di sollevare le sue onde procellose, comandò poi ai venti e al mare. E fu bonaccia (P. Herrera)”.

 

Torna il sereno

Una parentesi alquanto oscura nella vita del nostro caro pastorello. Gli vogliamo bene. E lo assolviamo da ogni colpa, se ce ne fosse bisogno. Anzi a noi dà motivo di maggior affetto e stima, per quel che abbiamo detto. E per quel che andremo dicendo. L’accaduto è una testimonianza in più della sua santità. Una certezza che Dio lo aveva scelto, amato e prediletto. “Poiché eri accetto a Dio, era necessario che la tentazione ti provasse” (Dal Libro di Tobia). “Dio lo ha provato, come si prova l’oro nel crogiuolo, e lo ha trovato degno di sé. Per una breve pena riceverà grandi benefici” (Sapienza). [Pag. 29] “Siate felici se venite sottoposti ad ogni genere di persecuzione” (S. Pietro). E le citazioni bibliche potrebbero seguitare. Ma noi seguitiamo la lettura dei Regesti, dopo questa parentesi. “Anno 1468, 31 Gennaio -Roma- Abbiamo nominato il P. Maestro Andrea da Montereale e il P. Maestro Antonio di Cittaducale nostri Vicari, con l’incarico di Visitatori del convento di Amatrice, per derimere alcune lamentele riguardanti i beni che furono del P. Maestro Giovanni di Amatrice, dando loro facoltà di vendere tutti i mobili e i beni che non siano di comune utilità per il convento, e il ricavato investirlo in beni immobili”. “Anno 1471, 15 maggio -Roma- Abbiamo consegnato lettere al Vicario di codesta Provincia (Valle di Spoleto) per il Capitolo Provinciale, ponendo (nella lista dei candidati) in primo luogo il P. Maestro Andrea da Montereale, in secondo luogo Fr. Sante da Gonissa, in terzo luogo Fr. Francesco da Perugia”. “25 giugno, stesso anno -Roma- Confermiamo in Provinciale di codesta Provincia di Valle di Spoleto il P. Maestro Andrea da Montereale, eletto canonicamente, dando a lui tutte e singole le facoltà consuete”. “Anno 1472, 3 giugno -Roma- Abbiamo concesso al P. Maestro Andrea da Montereale, Provinciale di codesta Provincia, l’autorità di aumentare la colletta, onde poter sostenere le spese necessarie alla Provincia e coprire quelle sostenute per il rinnovamento di Calixtine”. “Anno 1474, 2 novembre –Roma- Abbiamo demandato facoltà al P. Maestro Andrea da Montereale di riformare il capo e le membra del convento di Amatrice, S. Nicola, dando piena autorità di confermare o di espellere i religiosi [pag. 30] di detto convento, secondo i loro meriti o demeriti”. “Anno 1475, 21 novembre -Roma- Abbiamo nominato nostro Vicario nel convento di Cerreto il P. Maestro Andrea da Montereale, per ricuperare i beni appartenuti a Fr. Melchiorre”. (P.Giacomo dall’Aquila Superiore Generale). Il P. Maestro Andrea da Montereale, dopo la burrasca, torna nella stima e nella fiducia dei Superiori Maggiori, promosso ad altri incarichi di responsabilità, che lo tengono sulla breccia fino agli ultimi anni della sua vita. Ma più ancora, non viene minimamente scalfita la stima e la fama di santità che da tempo andava riscuotendo presso i fedeli, che beneficiavano delle sue opere di carità e delle sue doti di confessore e di predicatore.

 

L’Apostolo

Sì. Confessore e predicatore. Non solo quindi dottore di Teologia e Filosofia, non solo cattedratico. Ma forse, per noi senz’altro, l’aspetto più santificante della sua multiforme attività è proprio questo: l’apostolato a beneficio del prossimo, nell’esplicazione più genuina della missione sacerdotale. Confessare. Predicare. A cui si aggiunge, come abbiamo visto, l’opera di carità, di aiuto verso i più bisognosi. Il tutto condito di quella bontà naturale e soprannaturale che lo distingueva, e riscaldato da quella fiamma di amore che si alimenta sul Cuore di Cristo. “Sò che amò Iddio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente; favellava sempre di lui, riempivasi di allegrezza nel vederlo amato dai fedeli, e ne promuoveva sempre [pag. 31] con gran zelo, e nelle esortazioni e nelle prediche, il di lui onore, e l’osservanza dei divini comandamenti. (Un testimone)”. “Sò che amò, con amore sviscerato, il suo prossimo, insegnando agli ignoranti, facendo missioni per le ville e le castella, udendo, senza risparmiare fatica, anche vecchio, le confessioni, visitando gli infermi e carcerati, consolando e consigliando i fedeli che concorrevano a lui per conforto e per consiglio, e soccorrendoli in tutte le altre opere di misericordia spirituali e temporali. Acceso di questo amore, in tempo del suo Governo (da superiore) regolò sempre i suoi sudditi con mirabile affabilità e dolcezza. Questa è pubblica voce e fama (Un testimone)”. “Il suo confessionale era sempre affollato, e spessissimo si vedea uscire delle persone, tergendosi le lacrime del pentimento. La sua carità fu eroica ed i suoi pensieri ed affetti non conoscevano altra strada fuorché quella del cielo. Predicatore mellifluo e celeberrimo, ad udire il quale le intere città si precipitavano con frutto copioso delle anime (Filippo Elossio)”. “Uomo interessantissimo, Servo di Dio fedelissimo, Predicatore instancabile della Parola Divina, Confessore e difensore della Fede (Papa Innocenzo X)”. Parole solenni da rito di Canonizzazione. Pronunciate da un Papa. Senonché di qualche secolo fa. Da quale Papa potremo riascoltarle, ripetute sotto la luminosa gloria del Bernini?

 

Il pastorello alla corte del re

Riportiamo anche questo avvenimento nella vita del Beato, [pag. 32] così come ci viene tramandato dai suoi biografi. Il pastorello alla corte del re. E precisamente alla corte del Re di Francia. Potrebbe sembrare l’inizio di una bella favola, alla “Cenerentola”. Gli agostiniani, già nei primi anni della loro Grande Unione, come già detto, avevano uno Studio o Collegio a Parigi, che permetteva loro di frequentare come alunni e come Professori l’antica e prestigiosa Università. Ricordiamo ancora una volta Egidio Romano e Giacomo da Viterbo, insigni alunni e poi illustri dottori della medesima. Anche il P. Andrea fu mandato a Parigi. Non come professore, ma come predicatore. Testimonianze ci dicono che, oltre l’Italia, la Francia fu spesso mèta delle sue peregrinazioni apostoliche, e ne magnificano l’eloquenza, la “mellifluità”, i frutti. Ora dovete sapere che era costume a quei tempi, presso le corti reali, avere un sacerdote, colto e bravo, facente funzione di consigliere ecclesiastico, predicatore ufficiale e anche confessore. Dunque. Volle il caso che la Regina di Francia s’invaghisse presto di questo umile e bravo religioso, dotto, affabile, mellifluo, che in breve tempo aveva conquistato e commosso il non facile uditorio parigino. Così lo mandò a chiamare e lo fece venire a corte quale suo confessore particolare, e col mandato di espletare anche le altre funzioni.

 

Corteggiamenti a corte

Di proposito abbiamo detto che la regina “s’invaghì” del P. Andrea. Difatti, quel sentimento spirituale che l’aveva attratta [pag. 33] alla stima e alla venerazione del santo religioso, si trasformò col tempo in un affetto sensibile, alquanto morboso, da spingerla a sollecitazioni e proposte non proprio regali. Cosa volete fare. Non è da meravigliarsi. Capita, nelle vicende di questi santi uomini di Dio. Ne abbiamo esempio classico nella Bibbia. Ricordate Giuseppe ebreo, venduto dai fratelli, schiavo in Egitto, il quale un certo giorno sfugge alle lusinghe della sua padrona, la moglie del ministro Putifarre, finisce in carcere, per poi uscirne libero, anzi addirittura da Viceré del Faraone. Il nostro pastorello, è da crederlo, non ne subì danno. La sua virtù era ben solida e collaudata, nonché ben difesa. E anche la sua permanenza a corte non subì mutamenti. Non fuggi dal palazzo, come fece Giuseppe Ebreo, ma continuò nel suo lavoro apostolico; e anche le relazioni con la regina ripresero il loro tono altamente e unicamente spirituale. La discrezione, la prudenza, la santità del P. Andrea evitarono uno scandalo a corte. Un’altra gemma nella sua corona di meriti verso la gloria.

 

Il Santo

Abbiamo percorso, veramente di corsa, le varie tappe della vita del nostro pastorello: sacerdote, professore, superiore, predicatore. Ed ecco ce lo troviamo acclamato Santo a voce di popolo, in vita e in morte. Voce di popolo ratificata ufficialmente dalla Chiesa, che l’ha dichiarato Beato. Ci domandiamo perché. Non abbiamo incontrato forse tra i suoi confratelli uomini illustri per scienza e dottrina? [Pag. 34-35] E la vita di comunità, quale l’abbiamo riportata dalle regole del tempo, non era condivisa e vissuta a pari merito dagli altri religiosi, dei quali però non resta memoria? Come mai il P. Andrea riscosse a Montereale prima, e poi ovunque svolse il suo ministero, quella stima, quella venerazione, come le varie testimonianze ci hanno tramandato? Il segreto dei santi. C’è qualcosa che emana dalla loro persona, dai loro atti. Certamente emanazione di Divino, frutto di una vita interiore intensa, di un intenso e partecipato amore a Dio, amato sopra ogni cosa e più di ogni altra cosa. Al quale poi è conseguente un altrettanto intenso e operante amore al prossimo. Anzi è proprio questo che rende testimonianza palese all’altro. “Se non ami il prossimo che vedi, come puoi dire di amare Dio che non vedi?” (S. Giovanni). E i fedeli in questo hanno buon fiuto, come d’altronde la storia dei santi tutti sta a dimostrare. Dono certo dello Spirito Santo, la santità. Merito però della corrispondenza, docile, generosa, sofferta, di queste anime elette.

 

Le componenti della santità

Non sono certo i miracoli. E nemmeno la penitenza in sé, nè la preghiera come tale. Conosciamo ciò che dice il Signore per mezzo del profeta Isaia riguardo al digiuno e a una preghiera puramente formali. “E’ questo forse il digiuno che io bramo? Non è forse questo il digiuno che voglio: dividere il pane con gli affamati, introdurre in casa i miseri senza tetto, vestire chi è nudo? [pag. 36] Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi. Smettete di presentare offerte inutili. Anche se moltiplicate le preghiere io non ascolto. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. E S. Paolo: “Anche se dessi il mio corpo alle fiamme e praticassi le più austere penitenze, ma non ho la carità, cioé l’amor di Dio, niente mi giova; sono un cembalo sonante. La carità è paziente benigna. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Conosciamo qual’è il procedimento che usa la Chiesa nei così detti processi di canonizzazione. Alla base di ogni santità è l’amor di Dio e l’amor del prossimo. Dal quale poi scaturisce l’esercizio eroico di ogni virtù cristiana: la fede, la speranza, l’umiltà, la pazienza, la fortezza nelle prove, ecc. Adesso sì la preghiera ha il suo valore, il suo merito, la sua funzione. Così la penitenza, come il sacrificio di Cristo sulla Croce, diviene elemento santificante e salvafico. Poste queste premesse essenziali, ecco il miracolo, concesso da Dio a volte, quale attestato divino di amore verso queste anime ripiene di amore.

 

Le componenti nella vita del Beato

Le componenti della santità, naturalmente. Dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo credo siano sufficienti le poche [pag. 37] ma belle testimonianze che abbiamo riportato. D’altronde ne è testimone tutta la sua esistenza terrena; tutte le varie attività svolte (professore, superiore, predicatore) avevano questo alimento e questo scopo: l’amor di Dio e il bene dei fratelli. Ora ci resta da riportare testimonianze relative alla sua vita di preghiera e di penitenza. Nei santi, sappiamo, la preghiera è il coagulante di tutta la giornata, di tutte e singole le ventiquattro ore. Essi hanno capito l’espressione di Gesù: “È necessario pregare sempre, in continuazione, senza stancarsi”. La preghiera che è una continua “elevazione della mente a Dio”, un continuo respiro di divino, un desiderio, un’aspirazione verso il possesso di quella vita che ci attende. Ma il nostro Beato, nei momenti liberi, oltre le preghiere di comunità, si concedeva pause di raccoglimento intenso, in cui la sua anima entrava in quell’intimo colloquio di amore, che a volte raggiungeva il misticismo dell’estasi. La prima e più attendibile testimonianza di questa vita di preghiera, ricordate? è proprio sul suo corpo. Quella callosità sotto il ginocchio è lì a dirci le ore trascorse genuflesso dinanzi all’altare, di notte e di giorno, o nella sua camera, lesinando al sonno le pur naturali esigenze. Ecco, proviamo a vederlo, questo pastorello divenuto P. Andrea, assorto in preghiera. Forse potremo ricavarne stimolo, oltre che ammirazione e devozione. “Il di lui vivere, fu un continuo pregar (Un testimone)”. “Il sole lo fasciava (di luce) prono a terra fino al suo tramonto e tale lo ritrovava al suo sorgere al mattino” (Torelli). “I suoi pensieri e i suoi affetti non conoscevano altra strada, fuorché quella del cielo” (Un testimone).

 

Le penitenze

[Pag. 38] Diciamo “le penitenze”. Cioè quelle forme di austerità non richieste, abbiamo visto, nè dalle regole nè dai processi di canonizzazione. Eppure molti santi, come il nostro, allo spirito di penitenza e di mortificazione, elemento essenziale in ogni santità, hanno aggiunto anche queste. S. Paolo: castigo il mio corpo e lo riduco in servitù - Io porto le stigmate del mio Signore sul mio corpo. S. Francesco: anch’egli chiede le stigmate, oltre la povertà e il resto. S. Rita: chiede la spina in fronte; anch’essa oltre tutto il resto. E provate voi a scorrere tutta la Biblioteca dei Santi. Noi trascriviamo le varie testimonianze che riguardano il nostro Beato. “Portava sopra le nude carni un cilicio molto pungente, fatto di crini di cavallo aspri e acuti, ed intessuti non a modo di fascia, ma a modo di mezza camicia senza maniche (una specie di corazza), che copriva al Beato non solo i fianchi ma parte del collo, tutto il petto, le spalle e la schiena, e si studiava di coprirlo bene, per farlo palese soltanto a Dio; ed acciocché questo cicilio si accostasse maggiormente alla vita e più lo martoriasse, lo cingeva con un cerchio di ferro, quale notte e giorno teneva sopra le reni. Inoltre si percuoteva il petto con una pietra, vegliando la maggior parte della notte in orazione. A imitazione di S. Girolamo. Per questo forse si usa scoprire il suo corpo nella festa di questo santo, il 30 settembre, fin da antichissimo tempo. Il suo brevissimo riposo lo prendeva vestito dell’abito e cinto di cilicio, sopra un pagliariccio rozzo, duro, e per cuscino un sasso. [Pag. 39] Il P. Cotta confessa di aver visto con i suoi occhi, negli archivi di Montereale, questi strumenti, e specialmente il cilicio, e di esserne rimasto spaventato al solo vederlo; e volle accostarselo al viso per sperimentare l’impressione; e ne rimase talmente impressionato da meravigliarsi come avesse fatto il Beato a portarlo per tutta la vita. Ancora il P. Cotta racconta di aver visto lo strumento della disciplina, con cui si flaggellava le spalle, e dice che non era nè di molte corde nè di catene, affinché non facesse volume o risuonasse nell’usarlo; ma di sole quattro tenui cordicelle, armate di punte di acciaio, le quali punte erano ancora intrise di sangue fino alla metà” (P. Tomassini). Fin dall’anno del Noviziato prese a digiunare per tre giorni la settimana, a pane e acqua. Così per tutta la vita.

 

Le altre virtù

“La sua vita fu una perpetua umiltà” (Torelli). “Padre Santo -rispose a Papa Callisto III che lo voleva nominare Prelato- più mi diletta la lettura del Trattato sopra il Vangelo di S. Giovanni del mio Santo Fondatore, che qualunque mitra o grado d’onore” (Torelli). “Per suscitare il dispregio del popolo, ricorreva talune volte ad usare bizzarria nel modo di vestire. Spesso meditava le umiliazioni a cui si era sottoposto il Divin Maestro, ma molto lo feriva la considerazione che egli era morto fra due ladroni. Non poteva portare in pace che altri lo lodassero per il suo sapere e per le sue virtù. Gli elogi del mondo erano per lui altrettanti dolori, amando di vivere nascosto e da tutti ignorato. Sceglieva di per sè gli uffici più umili, e il suo maggior godimento era di penetrare negli ospedali, ove portava il conforto [pag. 40] della divina parola agli infermi e accudiva alle più elementari e umili necessità dei medesimi. So che osservò con tutta perfezione il voto di obbedienza, lasciando ben volentieri le sue estasi per eseguire i comandi dei superiori, e lasciandosi caricare di affari rilevanti e sottoponendosi a qualunque fatica e pericolo per ubbidire. Anche dopo la morte, nel tumulo, onorava con qualche moto del corpo le visite che gli facevano i Superiori Provinciali. Le sue aspre penitenze, i suoi digiuni, le sue continue privazioni, la sua vita ritirata erano i mezzi potenti e le cautele con cui egli circondava e difendeva il bel fiore della castità. Ecco. Cerchiamo di riflettere. Queste ultime pagine non farebbero meraviglia se fossero lì a narrarci la vita di un anacoreta, di un monaco, dedito esclusivamente all’esercizio della penitenza e della preghiera. Ma noi siamo andati narrando la vita di un apostolo, indaffarato tra cattedre, pulpiti, confessionali, beghe amministrative. E adesso veniamo a sapere che portava addosso tutto quell’armamentario, e si concedeva anche il lusso di non mangiare, di non dormire. Penseremmo. Come ha fatto a tirare avanti. E senza lamentele. Anzi. “Mellifluo” nel predicare, amabile nel conversare, gioioso ilare in ogni rapporto con gli altri. “Tutto io posso in Colui che mi dà forza”. Certamente. [Pag. 41] Doveva essere ben acceso quel fuoco interiore, che già dai monti di Mascioni lo illuminava, lo riscaldava, lo sospingeva.

 

Alla corte del Re dei re

E finalmente lo introduce alla corte del Re dei re. Per immergersi e spaziare nell’infinito eterno Amore. Siamo arrivati. Una vita non breve. Anzi. Sopra gli ottanta. E sempre in discreta salute. L’unica malattia di cui si parla è quella che precede la sua morte. Una settimana appena. Quasi un settenario di preparazione. E adesso veniamo a sapere che soffriva d’artrite. Ma. Chi se ne era mai accorto? E quella callosità sotto il ginocchio avrà pur dato fastidio, nel camminare, nel muoversi. Nessuno si accorge di niente. Nessuna testimonianza al riguardo. Ci son voluti cinquecento anni per saperlo. Cosa volete farci? Così son fatti i Santi.

 

L’ultimo desiderio

Ma. Anche loro hanno un debole. Un risveglio, un richiamo d’infanzia, in attesa dell’ultimo approdo. A ben pensarci, il ricongiungersi di due poli, che fu uno all’arrivo e torna ad essere uno al ritorno. “Se non ritornerete bambini, non entrerete nel Regno di Dio”. Anche il nostro Beato avverte nostalgia di quegli anni lontani, [pag. 42] e chiede di tornare ai suoi monti, per ritrovarsi bambino, spoglio di quella casacca di varie attività che lo aveva tenuto avvolto per lunghi periodi. Non ci risulta che sia andato a Mascioni. Montereale, però, è lì a due passi. Lo stesso cielo, lo stesso respiro, lo stesso profumo di silenzio, di verde. E anche lo stesso belare di greggi. Quando partì dai suoi monti fu una danza campestre. “Al suo ritorno a Montereale, ci attesta una antichissima tradizione, le campane, senza tocco umano, si diedero allegramente a tintinnare, dandogli il benvenuto, ed avvisando la popolazione che il santo, quale volgarmente veniva chiamato, riprendeva possesso della sua terra nativa. E tutti accorrevano, non solo per vederlo, ma per sentire la sua santa parola, godere della sua presenza, e ritemprare la loro fede agli esempi di pietà e di zelo. Benché molto vecchio, seguitò ad istruire e a passare lunghe ore in confessionale” (P. Tomassini).

 

Il Transito

Non ci è difficile immaginare come avvenne. “Servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore”. Trascriviamo qualche particolare. “Il giorno diciasette aprile, penultimo della sua vita, secondo quanto prescrivevano le Costituzioni dell’Ordine, fece l’inventario dei suoi beni”. A quei tempi non vigeva, tra gli Agostiniani, un concetto rigido della povertà, e i religiosi, specie i Maestri in Sacra Teologia, disponevano del possesso di libri, di varie somme di denaro per i viaggi, lo stipendio alla servitù e per altre opere inerenti alla loro attività. [Pag. 43] Però prima di morire dovevano compilare questo inventario, dichiarando quello che avevano, e disporsi al distacco da ogni cosa. L’inventario del nostro Beato è un po’ lungo e assai minuto. Non che possedesse niente. Anzi, a quanto sembra, è tutto un elenco di ducati e di libri prestati a varie persone, e che ancora deve avere. Tra i libri figurano i Decretali e il quarto Libro delle Sentenze di S. Tommaso. “Nel ricevere il Santo Viatico fu notata la sua profonda pietà e devozione; e fu udito esclamare con tutta l’enfasi del cuore: “E che potevate far di più, o Signore! Partivi dal vostro adorabile Tabernacolo per pascere delle vostre carni e del vostro Sangue chi non ha fatto mai niente per Voi. Io non sono altro che fango e peccati”. Appena avvenuta la morte è tradizione costante che si udirono cantare, entro la camera, i cori degli Angeli; e le quattro campane della torre, senza essere toccate da nessuno, suonarono a festa per ventiquattro ore. Era il diciotto aprile 1479, domenica in Albis. L’intero paese e i villaggi circostanti si svuotarono per accorrere a vedere il Santo, e raccomandarsi a lui per i propri bisogni. L’accorrere fu così straordinario che si dovettero mettere le guardie attorno al feretro, perché i fedeli facevano a gara per prendere qualche pezzo delle sue vesti o altro oggetto come reliquia. Di questo fatto fa menzione il P. Cotta nella vita del Beato, e dice di averlo appreso in una memoria manoscritta, letta da lui, e che si conservava nel convento di Montereale” (P. Tomassini).

 

E la Regina?

[Pag. 44] Non quella di Francia. Di ben altra Regina vorremmo parlare, alla corte di ben altro Re. Purtroppo, sfoglia, sfoglia, non troviamo alcun accenno in proposito. E la devozione alla Madonna del Beato? Ci domandiamo. Non è pensabile sia entrato alla corte del Re dei Re senza il suo invito. Lo sappiamo. È una delle componenti essenziali della santità. “Senza croce in cielo non si entra. Senza Maria in cielo non si entra”. E se il pastorello è entrato, e in maniera così eccellente, non c’è da dubitare: l’invito della Regina c’era. Eccome! È logico. Che bisogno abbiamo di testimonianze. Non ricordate come era impostato l’orario di preghiera dei religiosi? Ogni notte e ogni giorno l’ufficio completo in onore della Madonna, oltre quello del giorno. In più l’antifona cantata “Benedicta tu”, composta di tre salmi e tre letture, quasi ogni giorno, e, da pensare, in tutte le feste della Madonna. E quella callosità sotto il ginocchio non è fiorita solo dinanzi al tabernacolo, ma certamente anche dinanzi alla Sua Immagine. “Madonna delle Grazie”. “Madre di Consolazione”. I due titoli con i quali da sempre gli agostiniani venerano la Madonna. [Pag. 45] E precisamente dodici anni prima della morte del Beato, il 25 aprile 1467, a Genazzano, ecco l’altro bel titolo: “Madre del Buon Consiglio”.

 

I miracoli

Abbiamo detto. I miracoli non rendono Santi. Non sono componenti essenziali alla Santità. I miracoli dichiarano Santi. Cioé, meglio, è il Signore che mediante i miracoli pone suggello alla santità. Non necessariamente e solamente dopo morte. Spesso in vita. Basti citare i miracoli di S. Antonio da Padova, di S. Nicola da Tolentino e altri, operati quand’erano ancora viventi. Ora la chiesa vaglia ed esamina accuratamente e scientificamente ogni miracolo, perché risulti veramente tale. Ed è prassi nei processi di canonizzazione avere un miracolo autentico per dichiarare Beato o Beata, e due miracoli per procramarli Santi. Del nostro Beato i biografi riportano numerosi miracoli, molti dei quali avvenuti nei primi trenta giorni dalla sua morte, quando il suo corpo rimase esposto in chiesa alla venerazione dei fedeli. Annotati diligentemente uno per uno alla presenza di Notati e sottoscritti da testimoni, in carta pergamena furono mandati alla Santità di Nostro Signore Papa Sisto IV, per le procedure richieste. Senonché tutto rimase in sospeso per l’avvenuta morte del Papa. La fama di Santità del P. Andrea continua, aumenta; il suo culto si estende oltre i confini di Montereale. Troviamo le sue immagini venerate a Bologna, Venezia, Perugia. Ma, per invocarlo col titolo di Beato [Pag. 46] dobbiamo attendere il 1764, dopo un processo regolare svoltosi nella diocesi di Rieti. Trascriviamo da tale processo una dichiarazione, nella quale si attesta: “Il servo di Dio, dall’ora del suo felice passaggio al cielo, tanto dal volgo come dai Nobili ed Ecclesiastici e dai laici; tanto in Italia, come in Francia, è stato ritenuto uomo religiosissimo, integerrimo, umile, casto, giusto, semplice, servo fedelissimo a Dio, infiammato di carità. Predicatore instancabile della divina parola, difensore della Fede cattolica, venerato con devozione, e come tale invocato da ogni sorta di fedeli, in privato e in pubblico; e chiamato in aiuto nei loro travagli, pericoli, ingiurie, infermità e bisogni”. I miracoli sono detti innumerevoli e di ogni sorta. Quando potremo invocarlo Santo? È in esame un ultimo miracolo operato dal Beato, in questi anni. Attendiamo in preghiera. Ricorriamo a lui con fiducia, sempre. Il caro pastorello continua a volerci bene. Siamo pur sempre suo gregge e suo popolo.