BEATO ANDREA DA MONTEREALE
di
Vico Stella
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Gli Agostiniani […]
[pag. 6]I primi due secoli dopo la Grande Unione del 1256,
vengono definiti dagli storici agostiniani “i secoli d’oro” dell’Ordine.
Veramente non ci si sarebbe aspettata una così ricca fioritura di dotti, di
letterati, di predicatori, oltre che di santi, da un Ordine religioso sorto da
un’aggregazione di eremiti, fino allora vissuti appartati su i monti, dediti
alla penitenza e alla preghiera. Basti ricordare, nei primi cinquant’anni di
vita dell’Ordine, i nomi di un Egidio Romano, di un Giacomo da Viterbo, di un
Agostino Trionfo d’Ancona; il primo eletto poi alla sede vescovile di Bourges,
in Francia e il secondo a quella di Benevento e quindi a quella di Napoli.
Tutti e tre, come altri, teologi di fama internazionale, contemporanei di S.
Tommaso d’Aquino e di S. Alberto Magno; divennero intrepidi difensori e assertori
della dignità e dell’autorità del Papa, contro le tesi di coloro che volevano [pag. 7] il Papa sottoposto all’Imperatore o
al Concilio Ecumenico. Questa difesa del Papa sarà una costante nella storia
degli Agostiniani. Inizia appunto con Egidio Romano nella difesa di Bonifacio
VIII, fino a Fra Mariano da Genazzano, celebre predicatore, il quale rintuzzerà
vivacemente gli attacchi del Savonarola contro Alessandro VI. Dotti e Santi.
Anche qui basterà ricordare alcuni nomi, tra i più venerati, di Santi e Sante
agostiniani. Ci dice il P. D. Gutierrez, nella sua recente Storia dell’Ordine:
“Nella moderna Biblioteca Sanctorum figurano quindici agostiniani, che morirono
prima del 1356 e il cui culto immemorabile è stato approvato dalla Chiesa. “I
cronisti agostiniani, nei loro elenchi, ci offrono più di cento confratelli
insigni per santità, vissuti tra il 1357 e il 1518, tra i quali due Santi
canonizzati e tredici Beati, il cui culto immemorabile è stato approvato dalla
Chiesa, e altri venti per i quali non si è ancora ottenuta tale approvazione”.
Vogliamo citare soltanto: S. Nicola da Tolentino, S. Giovanni da Sahgun, S.
Chiara da Montefalco, S. Rita da Cascia, Beato Giacomo da Viterbo, Beato Simone
da Cascia, Beato Guglielmo da Tolosa. In questa eletta schiera entra adesso
anche il nostro Beato.
Cronaca di un giorno di festa
Ecco. Son qui. Su questo altipiano, aperto, immenso, luminoso nel sole.
Una sorpresa per me, questo sbocciare di vette in ampie frastagliate corolle.
E, in mezzo, la gemma, azzurra, scintillante: il bel lago di Campotosto. Ho
risalito la valle del Vomano, dalla riviera adriatica. [Pag. 8] Pendici, valli, forre e gole, a volte
strette, cupe, con rari sprazzi d’azzurro. Ecco perché la meraviglia; a
quest’altezza una grande pianura, non brulla, verde, abitata, movimentata, in
questo periodo, da un discreto silenzioso turismo. Costeggio il lago, quasi per
intero: roulottes, campeggiatori, villeggianti. Mi colpisce questo turismo
quieto, pudico, timoroso di turbare la rustica serenità dell’ambiente. Ora
salgo a Mascioni, dove seicento anni fa nasceva il nostro pastorello, il Beato
Andrea da Montereale. Poche case, alcune dirute, altre in rifacimento, alcune
messe a nuovo per la villeggiatura. Vie strette, rampanti, colorate di sole, di
tenue ombre, pulite, adorne di verde e di fiori. Simpatico, questo agglomerato
di case, raccolte a spirale su questo poggio, come sulla tolda di una nave
protesa sul lago, pronta per una crociera nel sole. C’è ancora la sua, la casa
dove nacque, nel 1397; una parte è trasformata e adibita a cappella. L’esterno
e tutto il complesso, a sassi e pietre, trasmette ancora il tipico sapore
ambientale dell’epoca. Di sorpresa in sorpresa. Era, il mio, nell’intenzione,
un viaggio in incognito. Una gita. Una visuale paesaggistica in questi luoghi,
resi celebri dalla vita e dalla morte del Beato. Invece. Già al primo entrare a
Montereale, un manifesto, appeso ai muri delle strade, mi avverte che oggi è
festa quassù. Festa per lui, il Beato Andrea. Festa patronale, con processione,
concerto, banda. [Pag. 9] Questo
tripudio di festa mi dice che il pastorello vive ancora tra la sua gente. E,
come la generazione del suo tempo e le altre susseguitesi in questi cinquecento
anni, così la generazione di oggi continua ad onorarlo, ad amarlo, ad
esaltarlo. E quella statua, che incede per le vie cittadine, alta sulle spalle
dei portatori (c’è anche una donna che si sottopone alle stanghe), sembra
operare una trasposizione ottica: la sua presenza, viva, palpitante. E il
popolo l’avverte e l’esterna in canti, preghiere, invocazioni. “Il nostro
Beato!”. Figlio glorioso di questo popolo orgoglioso. Ma c’è del nuovo
quest’anno. Un apposito Comitato (abbastanza efficiente, come noto dai
risultati) ha curato una più degna e funzionale sistemazione della Cappella e
dell’Urna del Beato, che un esperto ha riportato al suo splendore
settecentesco. Mi attardo in preghiera e ammirazione. Ammirazione per il suo
corpo, rimasto intatto, pur reso mummificato dai lunghi secoli trascorsi.
Precisamente quest’anno, è stato sottoposto ad una accurata e competente
ricognizione. Ottimi risultati, che hanno messo in luce particolari finora non
conosciuti, quale quello che ci dice che il Beato soffriva di artrite; e
inoltre, una vistosa callosità sotto il ginocchio testimonia di una vita di
preghiera assidua, costante, sofferta. I devoti, poi, attraverso i vetri
dell’urna, possono notare altri particolari in perfetta conservazione, come le
mani e i piedi (hanno ancora la pelle), così i capelli, il volto, gli occhi. [Pag. 10] Ora sono in programma altri
importanti lavori. Fervore di fede e di opere. Ma, noto: in tutti, nei
Superiori dell’Ordine, nel Comitato, nelle Autorità cittadine e in ogni singolo
fedele di Mascioni e di Montereale, come di altri luoghi, vive un’aspirazione
ardente: poter cambiare presto l’invocazione di “Beato” in quella più gloriosa
di “Santo”. “Sant’Andrea da Montereale, prega per noi”.
Ecco. Vorrei si operasse anche per me, quest’oggi, una trasposizione
ottica. Ritrovarmi, cioè, in questi luoghi, seicento anni fa, quando il nostro
pastorello pascolava quassù il suo gregge. Scelgo un luogo solitario. Salgo su
i monti che sovrastano Mascioni. Chiudo gli occhi e le orecchie al pur lieve
movimento turistico, e li alzo su, verso il cielo, sopra la panoramica dei
monti, e anche giù al lago, che da questa altezza ritorna ancor più mistico,
solitario, assorto. Silenzio. Solitudine. Luminosità di cielo. Incanto di
vette. Scintillìo di acque. E un gregge che bruca l’erba tra un pendio e l’altro.
E lui è lì, tra le candide pecorelle, forse seduto su una di queste pietre, col
ciufolo di canna; suona e si diverte. Poi. Contempla e prega. Certamente. C’è
una presenza viva, qui, che lo avvolge tutto, lo investe, come il vento che
passa. E lo riscalda. La presenza di Lui, dell’Assoluto, di Dio. Ha un cuore
docile, ardente. [Pag. 11] Una mente
aperta, vivace. Lo sapremo dopo, scorrendo la sua vita. E spesso alza gli occhi
e guarda lontano, oltre quell’arco di cielo che lo illumina dall’alba al
tramonto. O, a sera, su in alto, verso quella volta immensa disseminata di
luci. Contempla e prega. Chissà? Forse un desiderio confuso, non ancora bene
individuato, a poco a poco gli smuove l’animo e la volontà. Fino a diventare
voce, richiamo, vocazione.
Finché un bel giorno...
Finché
un bel giorno... Ecco passare su quei monti un religioso agostiniano. Dal
vicino convento di Montereale, con la sua cavalcatura, si recava a Montorio,
giù in basso verso l’Adriatico. Un incontro che decide una vita. Un incontro,
quasi un idillio. Ma che si risolve in una chiamata e in una risposta. Come
quello avvenuto sul lago di Tiberiade. “E lasciate le reti, lo seguirono”. “E
lasciate le pecore, lo seguì”. Non subito, però. Attese il ritorno del frate.
Certamente ne avrà parlato ai genitori, ne avrà avuto il consenso. Anche il
frate ne avrà parlato ai superiori. E così, in un successivo incontro, eccoli
di nuovo lì, proprio lì, tra il gregge, per la partenza definitiva. A proposito
di questa partenza ci viene tramandato un particolare di tipico sapore
virgiliano, illustrato in affresco nella chiesa di Montereale. [Pag. 12-13] Forse il tempo stringe. Forse era
già tutto deciso con i genitori. Non c’è bisogno che Andrea torni a casa per
l’ultimo saluto. Ma le pecorelle sì, devono tornare all’ovile. Prima però un
ultimo saluto, un’ultima festa insieme. E lì di nuovo seduto sulle pietre, dà
fiato al ciufolo, mentre le pecorelle gli danzano intorno. Infine, una voce al
cane, un fischio alle candide ballerine, e queste, docili, s’incamminano, sole
solette, verso casa. Lui, dopo averle seguite con occhio commosso fino
all’ultima curva, s’incammina dietro al frate, verso quell’orizzonte che
scolora al tramonto in leggere sfumature dorate. In attesa che un’alba nuova
sorga ad illuminare per sempre la sua gloriosa giornata terrena.
La sua
giornata: 1397-1479
La sua giornata terrena è racchiusa tra
queste date. Due date, due secoli: il ‘300 e il ‘400. Se a Mascioni e a
Montereale la vita scorre tranquilla, nella pace bucolica dei monti o nella quiete
orante del chiostro, nel mondo e nella Chiesa ben altra è la vita che si svolge
e l’aria che si respira. […][Pag.
14] Non
sappiamo se il nostro pastorello, nei suoi primi anni di formazione a
Montereale, abbia avvertito echi di tali avvenimenti. Forse quel tanto per
indurlo a una più intensa preghiera e all’impegno per una preparazione seria,
che lo abilitasse domani a svolgere con profitto la sua missione apostolica, in
difesa della Chiesa e a salvezza delle anime. Come d’altronde già da anni svolgevano
i suoi confratelli maggiori.
Sulla via
della santità
Ecco. Sarebbe ancora necessaria una
trasposizione ottica, che ci permetta di inoltrarci nel convento di Montereale,
[Pag. 15] a vivere quegli anni insieme
al nostro pastorello e a condividere l’ascesi, le aspirazioni, il laborioso e
generoso cammino sulla via della perfezione, verso il raggiungimento di
quell’ideale da sempre accarezzato nel cuore. Raccoglimento. Studio. Preghiera.
Era già innamorato della solitudine, vissuta e respirata su i monti di
Mascioni. Era già avviato e quasi sospinto per natura alla ricerca e al
contatto col mistero sublime dell’Assoluto. Ora. Lo studio metodico, una
preghiera regolata e compresa, man mano, col passare dei giorni, gli aprirono
orizzonti radiosi, da renderlo felice, anche nell’aspetto esteriore, nel
possesso di questa eterna e luminosa realtà. “O bellezza sempre antica e sempre nuova
-aveva già cantato il suo grande Padre e Maestro- tardi ti ho conosciuto, tardi
ti ho amato!”. “Solo in Te l’inquieto nostro cuore trova riposo”. Il nostro
pastorello non ebbe bisogno di travagli giovanili, nè di angosciose attese. Il
suo fu un continuo dischiudersi, un aprirsi a quella Luce incandescente di
Amore, che da sempre lo sollecitava nel cuore. Certamente avrà avuto le sue
crisi, i suoi annuvolamenti. Per questo si impegnò maggiormente, come vedremo,
nella preghiera, nella penitenza. Ma, ormai, aveva già visto il Sole, ne aveva
gustato il calore. Era certo della sua continua presenza, anche se a volte
poteva sembrare assente. Peccato. Non abbiamo un suo scritto, un “Diario
Spirituale”, che ci riveli l’intimo movimento mistico della sua anima. Dobbiamo
ricavarlo dalle risultanze della sua vita o dalle testimonianze, quelle
pervenuteci, di confratelli e di fedeli, che ne furono testimoni e partecipi. [Pag. 16] Sappiamo che prima di
morire, in un “inventario-testamento”, come usavano allora i religiosi, aveva
lasciato i suoi scritti e i suoi libri in dote a un certo Santi Alessio di
Montereale, ma che nè lui nè i confratelli conoscevano, perché non ancora nato,
ma che trent’anni dopo sarebbe diventato agostiniano, grande predicatore,
insigne per dottrina. Così asserì il Beato. Una testimonianza del suo dono
profetico. Una certezza che scritti personali ne aveva. E purtroppo un’amarezza
per noi, per non essere riusciti a rintracciarli in qualche archivio o
biblioteca. Il che fa supporre che siano andati definitivamente perduti. “Gli
scritti del così detto Beato Andrea da Montereale, ricercati da me come
Bibliotecario della biblioteca Angelica di Roma, dove si supponeva si
conservassero, dopo una diligente perquisizione non si poterono rinvenire; e
nemmeno è a me noto che si ritrovino in varie librerie dell’Ordine da me
investigate con desiderio di scoprire se questi, ed altri Manoscritti dei
nostri antichi, si ritrovassero. (P. Maestro Agostino Antonio Giorgi)”.
La vita religiosa, in quegli anni, era
vissuta nell’osservanza scrupolosa delle regole e in uno spirito di emulazione
e di generosità. La giornata del religioso è descritta nelle norme dettate,
oltre che dalla Regola del S. P. Agostino, dalle Costituzioni dell’Ordine,
emanate dai Superiori Generali fin dai primi anni della Grande Unione.
La preghiera
[Pag. 17] Trascriviamo dalla Storia
dell’Ordine del P. D. Gutierrez. “La divisione dell’Ufficio divino in diurno e
notturno allora corrispondeva al significato di tali aggettivi. Durante la
notte, in un’ora che variava a seconda delle stagioni dell’anno e le
consuetudini di ciascun paese, in chiesa o in coro si recitavano i Mattutini:
prima quello dell’Ufficio della Vergine e poi di seguito quello proprio del
giorno. Poco prima dell’alba si recitavano le Lodi, seguite da Prima, Terza, e
la Messa conventuale; Sesta e Nona a volte si recitavano dopo la Messa e in
altri casi nell’ora corrispondente (ore 12 e ore 15). I Vespri si recitavano sempre sul far della sera; e di
notte Compieta. All’Ufficio divino del giorno, e a quello della Vergine, del
quale si dovevano recitare le ore diurne, gli agostiniani aggiungevano la
recita quasi quotidiana della Veglia mariana, detta “Benedicta Tu”, composta di
tre salmi e tre letture in onore di Nostra Signora della Grazia. Quasi ogni
settimana recitavano l’Ufficio dei Defunti, cantando un Notturno e la Messa,
con la processione e le preci nel cimitero della comunità (i morti venivano
seppelliti in chiesa o nelle adiacenze). Alla buona celebrazione del culto
servivano le scuole di canto, prescritte in ogni comunità: canto recitativo o
salmodico e canto gregoriano. Non mancano neppure notizie degli organani e
degli organisti. Le prime Costituzioni non trattano espressamente dell’orazione
mentale. Ma è chiaro che la suppongono e la raccomandano in quei punti dove
esortano i religiosi all’orazione fuori del coro, alternandola con lo studio,
continuandola nel silenzio della notte”.
Vita di
austerità e penitenza
[Pag. 18] “Il Priore del convento
doveva esporre al postulante e aspirante alla vita religiosa il genere di vita
che stava per abbracciare, spiegandogli l’austerità dell’Ordine, la rinuncia
alla propria volontà, la povertà del cibo, la rozzezza delle vesti, le veglie
notturne, le fatiche diurne, la mortificazione del corpo, l’umiliazione della
povertà, il rossore della mendicità, la debilitazione del digiuno, il tedio del
chiostro e altre cose simili a queste. L’Ordine agostiniano non è mai figurato
tra i più noti per le sue austerità e penitenze. Nelle leggi citate non si
parla di cilizi nè di discipline, nè di dormire per terra o su tavole; eppure
non sono mancati religiosi (tra questi il nostro Beato) che hanno castigato il
loro corpo in tutte queste maniere, come quel fr. Giacomo Piccolomini, di cui
il Cardinale Egidio da Viterbo dice che dormiva per terra, non assaggiava il
vino e portava il cilizio, benché appartenesse a una delle più nobili famiglie
di Siena. I religiosi -dicono le Costituzioni del tempo- non mangino carne il
lunedì e il mercoledì (oltre il venerdì); nei venerdì osservino il digiuno, in
modo che alla sera si dia loro solo una bevanda e un po’ di pane; dalla festa
di Tutti i Santi si faccia un solo pasto al giorno, fino alla Natività di
Nostro Signore. Tolleriamo che dalla festa dei Santi fino all’Avvento
nell’unico pasto si possa prendere carne, uova e latticini; ma dall’Avvento
alla Natività si osservi il digiuno rigoroso. Naturalmente non era meno
rigoroso tale digiuno nel tempo di Quaresima, nè mancavano le così dette
Vigilie e i Digiuni solenni nei mesi di gennaio e febbraio e da aprile a
ottobre “.
[Pag. 19] “Dopo il tempo di Noviziato,
nel quale ogni novizio doveva rimanere per un anno e un giorno, il candidato
alla vita religiosa pronunciava i suoi voti -povertà, castità, obbedienza- e
cominciava la sua preparazione scientifica, che, per regola generale, si
estendeva dal compimento dei quindici anni fino ai ventiquattro di età. Se non
era già una persona istruita, doveva assistere alle lezioni di grammatica fino
a che non sapesse leggere e si rendesse conto di quello che leggeva, cioè fino
a capire il latino. Apprese le regole grammaticali di Donato e Prisciano, per
lo meno in compendio, il giovane passava alla scuola di logica, dove si
studiavano alcune opere di Aristotele, di Porfirio e altri scritti di Boezio.
Nelle scuole di logica, che duravano almeno tre anni, cominciava già la preparazione
filosofica con lo studio anche della Metafisica. Ma la formazione filosofica
non terminava in questa seconda tappa di studi, continuava negli anni dedicati
allo studio della Teologia. I due testi principali in quest’ultima disciplina
erano la Bibbia e i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. I
principali centri di formazione erano gli “Studi” generali, ossia Collegi
dell’Ordine, perché dovevano accogliere alunni di tutte le Provincie (ai tempi
del Beato le Provincie religiose dell’Ordine erano ventiquattro). Il primo di
tali Studi, in ordine di tempo e di importanza, fu quello di Parigi, il più
favorito dai Superiori dell’Ordine, il più internazionale per professori e
alunni, e quello che servì di modello, con in suoi Statuti, a quelli che ad
esso si avvicinarono di più per fama e internazionalità. Furono primi in questo
gli Studi di Bologna e di Padova. Segue lo Studio della Curia che si trovava a
Roma o nella residenza pontificia; [Pag. 20] allo stesso si possono quasi paragonare quelli di Firenze, di
Cambridge, di Oxford; meno internazionali quelli di Napoli, Siena, Milano,
Vienna, Praga, Magonza, Colonia, Bruges, Strasburgo, Lione, Montpellier e
Tolosa. Tre erano le tappe del corso di studi ecclesiastici e tre erano i tipi
di corsi: uno per il sacerdozio, che ordinariamente durava nove o dieci anni, e
che terminava con l’esame dei religiosi che dovevano dedicarsi al sacro
ministero come predicatori e confessori; l’altro per il Lettorato, che tra i
Religiosi Regolari veniva considerato un grado accademico e che durava poco più
del primo corso, abilitava l’alunno, che era rimasto per cinque anni nello
Studio generale e superava l’esame finale, all’insegnamento della Filosofia e
Teologia ai propri confratelli; il terzo corso, che non durava meno di quindici
anni e che era frequentato solo dai religiosi che volessero ottenere tutti i
gradi accademici, abilitava ad esercitare l’ufficio di Professori Reggenti in
uno Studio generale, incorporato ad una Università”.
Il pastorello
in cattedra
Abbiamo lasciato il nostro amabile pastorello
nel convento di Montereale, a trascorrere quegli anni di formazione nella
preghiera e nello studio, secondo le norme che abbiamo riportato. Ci dicono i
biografi che il suo curriculum fu brillante, e nella preghiera e nello studio.
Ora è Sacerdote, e si presenta alla storia col nome che rimarrà venerato per
sempre: P. Andrea da Montereale. Dopo Montereale, sull’età dei trent’anni, lo
troviamo negli Studi di Rimini, di Padova, di Ferrara, a perfezionarsi negli
studi, per conseguire, diremmo oggi, la laurea in Teologia e [Pag. 21] Diritto Canonico, o, secondo
quanto abbiamo riportato, il titolo prestigioso di Maestro in Sacra Teologia.
La sua prima cattedra è a Siena, nello Studio dell’Ordine, promosso Rettore e
Professore. Dalle testimonianze qui sotto riportate possiamo dedurre con quale
impegno e dottrina egli abbia svolto la missione di docente. “Il B. Andrea da
Montereale rifulse per molti segni e miracoli ai nostri tempi. Fu dottissimo
nella Filosofia e nella Teologia, come nel Diritto Canonico. Diede grande
esempio di santità nelle opere di misericordia verso il prossimo, nel
sopportare ingiurie con somma pazienza” (P. Ambrogio da Cori). “Il Beato Andrea
da Montereale, persona molto dotta, grande predicatore; molto paziente e
caritativo. Fiorì nell’anno 1479. Ha fatto molti miracoli” (Beato Alfonso
d’Orozco). “In quest’anno (1479) si fa memoria del Beato Padre Andrea da
Montereale; del quale si narrano molte cose meravigliose e miracoli; fu molto
dotto nel Diritto Canonico, grande teologo, sommo filosofo, grande predicatore,
amato da tutti: perché continuamente portava pace e serenità tra i popoli
inquieti e divisi. Fu esempio di grande santità e devozione” (P. Girolamo
Roman). “P. Andrea da Montereale, della Provincia dell’Umbria, teologo e
abbastanza erudito nel Diritto pontificio, condusse una vita insigne per
prodigi e miracoli” (Giuseppe Panfilo). “A Montpellier, in Francia, innanzi a
un’accolta sceltissima di Padri dell’Ordine, convenuti da tutto il mondo, tenne
dispute intricatissime intorno a questioni di Filosofia e di Teologia, da farne
stupire l’assemblea; e giudicato degno, per acclamazione, del titolo di
Maestro, all’età di trentacinque anni. Dopo di che gli venne dato l’incarico di
insegnare nei nostri principali Collegi” (Riccitelli).
Il Superiore
[Pag. 22-23] Dalla cattedra al governo. A
volte l’una e l’altro insieme. Esperto e dottissimo in Filosofia, Teologia e
Diritto canonico. Ora si presenta esperto anche di problemi amministrativi e di
responsabilità, se nella Cronistoria dei Regesti dell’Ordine lo troviamo più
volte incaricato di varie mansioni in proposito. Sfogliando i Regesti (sì,
erano dei registri dove venivano annotati le gesta, cioè le delibere principali
del governo dell’Ordine), il primo ufficio che ricopre il P. Andrea è quello di
Vicario del P. Generale nel convento di Norcia, ivi mandato dal P. Guglielmo da
Salemi con piena autorità “di disporre e provvedere in merito al capo e ai
membri della comunità. Inoltre con facoltà di accogliere nella famiglia del
convento altri tre religiosi di altra Provincia”. Nel capitolo celebrato ad
Amatrice il giorno di Pentecoste del 1453, viene eletto all’unanimità Superiore
Provinciale della Provincia religiosa della Valle di Spoleto. Nel 1455 viene
confermato Vicario Generale del convento di Norcia. L’anno avanti, nel 1454
viene inviato come Visitatore nel convento di Anghiari, per risolvere, a quanto
pare, una vertenza amministrativa, sollevata da certi benefattori e stipendiati
del convento. Finché nel 1459 troviamo notizia della sua rinunzia al priorato e
alla reggenza dello Studio di Siena.
Sotto processo
Sì.
Proprio così. Sotto processo. A questo punto la cronistoria dei Regesti cambia “registro”, [pag. 24] e invece di continuare a
trasmetterci altre nomine e promozioni del P. Andrea, trascrive purtroppo
delibere di sospensioni ed inchieste a suo riguardo. Vediamo. “Anno 1461, 18
febbraio, Viterbo - Abbiamo scritto a Norcia per sollevare dall’incarico di
Priore di quel convento fr. Girolamo da Cittaducale, ingiungendo al medesimo,
sotto pena di scomunica, di presentarsi entro quindici giorni, al suo
Provinciale per essere collocato altrove. E comandiamo, in virtù di santa
obbedienza, al P. Maestro Andrea da Montereale di non rimanere oltre in quel convento.
Tutto questo abbiamo disposto per evitare scandali e per iniziare la riforma di
detto convento, come ci è stato richiesto; disposti tuttavia a sentire gli
stessi accusati e a dare loro piena soddisfazione”. “24 aprile dello stesso
anno -Montefiascone- Abbiamo nominato il P. Provinciale, M. Gregorio da Spoleto
e Fr. Giacomo da Bevagna Visitatori nella causa intentata dai religiosi del
convento di Norcia contro il P. Maestro Andrea da Montereale, come nella
vertenza di una donazione fatta al domestico del P. Maestro Nicola di Narni e a
sua madre”. “25 giugno dello stesso anno -Firenze- abbiamo nominato il P.
Maestro P. Ercolano da Perugia nostro Vicario nella Provincia della Valle di
Spoleto. E come Visitatori nella causa del P. Maestro Andrea da Montereale il
detto P. Ercolano e il P. Maestro Gregorio da Terni, perché entro due mesi
svolgano l’inchiesta; sollevando dall’incarico i precedenti Visitatori, P. M.
Gregorio da Spoleto e Fr. Giacomo da Bevagna”. “2 ottobre dello stesso anno
-Scarperia- Abbiamo confermato gli Atti del Capitolo di Querceto e l’elezione
canonica a Provinciale della Valle di Spoleto il Ven. P. Maestro P. Ercolano da
Perugia. [Pag. 25] Inoltre confermiamo i
visitatori nella causa del convento di Norcia e del P. Maestro Andrea da Montereale,
con piena autorità di diffidare e punire, come richiede la colpa degli erranti
(P. Guglielmo da Firenze Superiore Generale)”.
Cosa era
successo
Cosa era successo? Mah! I Regesti non
registrano la soluzione del caso, nè riportano alcuna sentenza in proposito.
Anzi, nel 1468, riprenderanno a trasmetterci altre notizie buone sul nostro
Beato, altri incarichi di fiducia e di governo. Una calunnia? Invidia?
Malignità? Non sappiamo. Da come sono andate a finire le cose sembrerebbe
proprio doversi trattare di quelle tre bestiacce. Innanzitutto, crediamo, sono
da escludere mancanze di ordine morale, almeno per quanto attiene al nostro
Beato. Abbiamo visto che ad essere inquisito e rimosso non è solo il P. Andrea,
ma lo stesso Priore del convento. Inoltre si parla di una vertenza in merito a
una donazione. Pertanto ci sembra di poter leggere tra le righe del Regesto che
l’accusa rivolta dai religiosi verso i due Padri doveva essere di ordine
amministrativo. Se così fosse, ci sarebbe facile capire e spiegare. I Santi
sono fatti così. Quando si tratta di compiere opere di misericordia a beneficio
del prossimo, non guardano a leggi e norme legali. E di conseguenza danno
motivo agli invidiosi, paludati di legalismo, di accusarli presso le autorità
competenti. Non dimentichiamo che il P. Andrea era stato Visitatore [Pag. 26-27] e Vicario Generale nello
stesso convento. Incarichi questi che danno luogo in seguito a invidie e
malignità nei men disposti ad essere inquisiti e corretti. E’ la prassi di ogni
convivenza, religiosa e civile. E la comunità di Norcia ci appare una famiglia
alquanto rissosa, se più di una volta la vediamo sottoposta alla cura dei
Visitatori Generali. Per non essere considerati come quei biografi, che
canonizzano il loro eletti fin dal seno materno, siamo disposti ad ammettere
colpevolezza nel nostro Beato. Col risultato di rendergli maggior onore e
stima. Avrà peccato il P. Andrea. Ma chi è che non pecca in questo mondo?
L’importante è quel che segue. E quel che segue nella vita del Beato, nell’immediato,
nel passato e nel futuro, vale assai di più di qualsiasi colpa che avrà potuto
commettere. Agli onori degli altari non salgono solo gli innocenti, ma più
numerosi ancora i peccatori.
Quasi un “fioretto”
A sostegno della nostra tesi vogliamo citare
a testimonianza, come si usa nei processi, un fatto accaduto al Beato nella sua
attività benefica. “Mi riferisce il P. Cotta di aver consultato un manoscritto
del convento di Montereale, nel quale era annotato che il nostro Beato aveva
preso a soccorrere una povera vedova, carica di figlie vistose e pericolanti.
Ma, fosse invidia, fosse malignità, per questo era stato messo in sospetto
presso il Priore della casa, il quale un giorno, sorpresolo con un involto
mentre si recava da tale famiglia, volle vedere che cosa portasse. [Pag. 28] Aperto l’involto si trovò
che il contenuto si era cangiato in rose. Iddio aveva giustificato la carità
del suo servo e aveva messo a nudo la malignità degli invidiosi e dei
detrattori”. Fatti del genere possiamo trovarli numerosi nella vita dei Santi.
Noi agostiniani li troviamo canonizzati nei Processi di canonizzazione di S.
Nicola da Tolentino, riferiti da testimoni oculari. “Qui a Norcia, contro il
nostro Beato nell’anno 1461 e 1462 venne agitata quasi una tempesta da parte
dei cittadini e dei confratelli. Così in questo mondo il Signore usa mescolare
alle gioie grandi amarezze, e quelli che vogliono vivere con pietà in Cristo
Gesù, devono subire varie persecuzioni. Ma Colui che permise al mare di
sollevare le sue onde procellose, comandò poi ai venti e al mare. E fu bonaccia
(P. Herrera)”.
Torna il
sereno
Una parentesi alquanto oscura nella vita del
nostro caro pastorello. Gli vogliamo bene. E lo assolviamo da ogni colpa, se ce
ne fosse bisogno. Anzi a noi dà motivo di maggior affetto e stima, per quel che
abbiamo detto. E per quel che andremo dicendo. L’accaduto è una testimonianza
in più della sua santità. Una certezza che Dio lo aveva scelto, amato e
prediletto. “Poiché eri accetto a Dio, era necessario che la tentazione ti
provasse” (Dal Libro di Tobia). “Dio lo ha provato, come si prova l’oro nel
crogiuolo, e lo ha trovato degno di sé. Per una breve pena riceverà grandi
benefici” (Sapienza). [Pag.
29] “Siate
felici se venite sottoposti ad ogni genere di persecuzione” (S. Pietro). E le
citazioni bibliche potrebbero seguitare. Ma noi seguitiamo la lettura dei
Regesti, dopo questa parentesi. “Anno 1468, 31 Gennaio -Roma- Abbiamo nominato
il P. Maestro Andrea da Montereale e il P. Maestro Antonio di Cittaducale
nostri Vicari, con l’incarico di Visitatori del convento di Amatrice, per
derimere alcune lamentele riguardanti i beni che furono del P. Maestro Giovanni
di Amatrice, dando loro facoltà di vendere tutti i mobili e i beni che non
siano di comune utilità per il convento, e il ricavato investirlo in beni
immobili”. “Anno 1471, 15 maggio -Roma- Abbiamo consegnato lettere al Vicario
di codesta Provincia (Valle di Spoleto) per il Capitolo Provinciale, ponendo
(nella lista dei candidati) in primo luogo il P. Maestro Andrea da Montereale,
in secondo luogo Fr. Sante da Gonissa, in terzo luogo Fr. Francesco da
Perugia”. “25 giugno, stesso anno -Roma- Confermiamo in Provinciale di codesta
Provincia di Valle di Spoleto il P. Maestro Andrea da Montereale, eletto
canonicamente, dando a lui tutte e singole le facoltà consuete”. “Anno 1472, 3
giugno -Roma- Abbiamo concesso al P. Maestro Andrea da Montereale, Provinciale
di codesta Provincia, l’autorità di aumentare la colletta, onde poter sostenere
le spese necessarie alla Provincia e coprire quelle sostenute per il
rinnovamento di Calixtine”. “Anno 1474, 2 novembre –Roma- Abbiamo demandato
facoltà al P. Maestro Andrea da Montereale di riformare il capo e le membra del
convento di Amatrice, S. Nicola, dando piena autorità di confermare o di
espellere i religiosi [pag.
30] di
detto convento, secondo i loro meriti o demeriti”. “Anno 1475, 21 novembre
-Roma- Abbiamo nominato nostro Vicario nel convento di Cerreto il P. Maestro
Andrea da Montereale, per ricuperare i beni appartenuti a Fr. Melchiorre”.
(P.Giacomo dall’Aquila Superiore Generale). Il P. Maestro Andrea da Montereale,
dopo la burrasca, torna nella stima e nella fiducia dei Superiori Maggiori,
promosso ad altri incarichi di responsabilità, che lo tengono sulla breccia
fino agli ultimi anni della sua vita. Ma più ancora, non viene minimamente
scalfita la stima e la fama di santità che da tempo andava riscuotendo presso i
fedeli, che beneficiavano delle sue opere di carità e delle sue doti di
confessore e di predicatore.
L’Apostolo
Sì.
Confessore e predicatore. Non solo quindi dottore di Teologia e Filosofia, non
solo cattedratico. Ma forse, per noi senz’altro, l’aspetto più santificante
della sua multiforme attività è proprio questo: l’apostolato a beneficio del
prossimo, nell’esplicazione più genuina della missione sacerdotale. Confessare.
Predicare. A cui si aggiunge, come abbiamo visto, l’opera di carità, di aiuto
verso i più bisognosi. Il tutto condito di quella bontà naturale e
soprannaturale che lo distingueva, e riscaldato da quella fiamma di amore che
si alimenta sul Cuore di Cristo. “Sò che amò Iddio con tutto il cuore, con
tutta l’anima, con tutta la mente; favellava sempre di lui, riempivasi di
allegrezza nel vederlo amato dai fedeli, e ne promuoveva sempre [pag. 31] con gran zelo, e nelle
esortazioni e nelle prediche, il di lui onore, e l’osservanza dei divini
comandamenti. (Un testimone)”. “Sò che amò, con amore sviscerato, il suo
prossimo, insegnando agli ignoranti, facendo missioni per le ville e le
castella, udendo, senza risparmiare fatica, anche vecchio, le confessioni,
visitando gli infermi e carcerati, consolando e consigliando i fedeli che
concorrevano a lui per conforto e per consiglio, e soccorrendoli in tutte le
altre opere di misericordia spirituali e temporali. Acceso di questo amore, in
tempo del suo Governo (da superiore) regolò sempre i suoi sudditi con mirabile
affabilità e dolcezza. Questa è pubblica voce e fama (Un testimone)”. “Il suo
confessionale era sempre affollato, e spessissimo si vedea uscire delle persone,
tergendosi le lacrime del pentimento. La sua carità fu eroica ed i suoi
pensieri ed affetti non conoscevano altra strada fuorché quella del cielo.
Predicatore mellifluo e celeberrimo, ad udire il quale le intere città si
precipitavano con frutto copioso delle anime (Filippo Elossio)”. “Uomo
interessantissimo, Servo di Dio fedelissimo, Predicatore instancabile della
Parola Divina, Confessore e difensore della Fede (Papa Innocenzo X)”. Parole
solenni da rito di Canonizzazione. Pronunciate da un Papa. Senonché di qualche
secolo fa. Da quale Papa potremo riascoltarle, ripetute sotto la luminosa
gloria del Bernini?
Il pastorello
alla corte del re
Riportiamo anche questo avvenimento nella
vita del Beato, [pag.
32] così
come ci viene tramandato dai suoi biografi. Il pastorello alla corte del re. E
precisamente alla corte del Re di Francia. Potrebbe sembrare l’inizio di una
bella favola, alla “Cenerentola”. Gli agostiniani, già nei primi anni della
loro Grande Unione, come già detto, avevano uno Studio o Collegio a Parigi, che
permetteva loro di frequentare come alunni e come Professori l’antica e
prestigiosa Università. Ricordiamo ancora una volta Egidio Romano e Giacomo da
Viterbo, insigni alunni e poi illustri dottori della medesima. Anche il P.
Andrea fu mandato a Parigi. Non come professore, ma come predicatore.
Testimonianze ci dicono che, oltre l’Italia, la Francia fu spesso mèta delle
sue peregrinazioni apostoliche, e ne magnificano l’eloquenza, la “mellifluità”,
i frutti. Ora dovete sapere che era costume a quei tempi, presso le corti
reali, avere un sacerdote, colto e bravo, facente funzione di consigliere
ecclesiastico, predicatore ufficiale e anche confessore. Dunque. Volle il caso
che la Regina di Francia s’invaghisse presto di questo umile e bravo religioso,
dotto, affabile, mellifluo, che in breve tempo aveva conquistato e commosso il
non facile uditorio parigino. Così lo mandò a chiamare e lo fece venire a corte
quale suo confessore particolare, e col mandato di espletare anche le altre
funzioni.
Corteggiamenti
a corte
Di proposito abbiamo detto che la regina “s’invaghì” del P. Andrea. Difatti, quel sentimento spirituale che l’aveva attratta [pag. 33] alla stima e alla venerazione del santo religioso, si trasformò col tempo in un affetto sensibile, alquanto morboso, da spingerla a sollecitazioni e proposte non proprio regali. Cosa volete fare. Non è da meravigliarsi. Capita, nelle vicende di questi santi uomini di Dio. Ne abbiamo esempio classico nella Bibbia. Ricordate Giuseppe ebreo, venduto dai fratelli, schiavo in Egitto, il quale un certo giorno sfugge alle lusinghe della sua padrona, la moglie del ministro Putifarre, finisce in carcere, per poi uscirne libero, anzi addirittura da Viceré del Faraone. Il nostro pastorello, è da crederlo, non ne subì danno. La sua virtù era ben solida e collaudata, nonché ben difesa. E anche la sua permanenza a corte non subì mutamenti. Non fuggi dal palazzo, come fece Giuseppe Ebreo, ma continuò nel suo lavoro apostolico; e anche le relazioni con la regina ripresero il loro tono altamente e unicamente spirituale. La discrezione, la prudenza, la santità del P. Andrea evitarono uno scandalo a corte. Un’altra gemma nella sua corona di meriti verso la gloria.
Il Santo
Abbiamo percorso, veramente di corsa, le varie tappe della vita del nostro pastorello: sacerdote, professore, superiore, predicatore. Ed ecco ce lo troviamo acclamato Santo a voce di popolo, in vita e in morte. Voce di popolo ratificata ufficialmente dalla Chiesa, che l’ha dichiarato Beato. Ci domandiamo perché. Non abbiamo incontrato forse tra i suoi confratelli uomini illustri per scienza e dottrina? [Pag. 34-35] E la vita di comunità, quale l’abbiamo riportata dalle regole del tempo, non era condivisa e vissuta a pari merito dagli altri religiosi, dei quali però non resta memoria? Come mai il P. Andrea riscosse a Montereale prima, e poi ovunque svolse il suo ministero, quella stima, quella venerazione, come le varie testimonianze ci hanno tramandato? Il segreto dei santi. C’è qualcosa che emana dalla loro persona, dai loro atti. Certamente emanazione di Divino, frutto di una vita interiore intensa, di un intenso e partecipato amore a Dio, amato sopra ogni cosa e più di ogni altra cosa. Al quale poi è conseguente un altrettanto intenso e operante amore al prossimo. Anzi è proprio questo che rende testimonianza palese all’altro. “Se non ami il prossimo che vedi, come puoi dire di amare Dio che non vedi?” (S. Giovanni). E i fedeli in questo hanno buon fiuto, come d’altronde la storia dei santi tutti sta a dimostrare. Dono certo dello Spirito Santo, la santità. Merito però della corrispondenza, docile, generosa, sofferta, di queste anime elette.
Le componenti
della santità
Non sono certo i miracoli. E nemmeno la
penitenza in sé, nè la preghiera come tale. Conosciamo ciò che dice il Signore
per mezzo del profeta Isaia riguardo al digiuno e a una preghiera puramente
formali. “E’ questo forse il digiuno che io bramo? Non è forse questo il
digiuno che voglio: dividere il pane con gli affamati, introdurre in casa i
miseri senza tetto, vestire chi è nudo? [pag. 36] Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli
olocausti di montoni e del grasso di giovenchi. Smettete di presentare offerte
inutili. Anche se moltiplicate le preghiere io non ascolto. Cessate di fare il
male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso,
rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. E S. Paolo:
“Anche se dessi il mio corpo alle fiamme e praticassi le più austere penitenze,
ma non ho la carità, cioé l’amor di Dio, niente mi giova; sono un cembalo
sonante. La carità è paziente benigna. Tutto copre, tutto crede, tutto spera,
tutto sopporta”. Conosciamo qual’è il procedimento che usa la Chiesa nei così
detti processi di canonizzazione. Alla base di ogni santità è l’amor di Dio e
l’amor del prossimo. Dal quale poi scaturisce l’esercizio eroico di ogni virtù
cristiana: la fede, la speranza, l’umiltà, la pazienza, la fortezza nelle
prove, ecc. Adesso sì la preghiera ha il suo valore, il suo merito, la sua
funzione. Così la penitenza, come il sacrificio di Cristo sulla Croce, diviene
elemento santificante e salvafico. Poste queste premesse essenziali, ecco il
miracolo, concesso da Dio a volte, quale attestato divino di amore verso queste
anime ripiene di amore.
Le componenti
nella vita del Beato
Le componenti della santità, naturalmente.
Dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo credo siano sufficienti le poche [pag. 37] ma belle testimonianze che
abbiamo riportato. D’altronde ne è testimone tutta la sua esistenza terrena;
tutte le varie attività svolte (professore, superiore, predicatore) avevano
questo alimento e questo scopo: l’amor di Dio e il bene dei fratelli. Ora ci
resta da riportare testimonianze relative alla sua vita di preghiera e di
penitenza. Nei santi, sappiamo, la preghiera è il coagulante di tutta la
giornata, di tutte e singole le ventiquattro ore. Essi hanno capito
l’espressione di Gesù: “È necessario pregare sempre, in continuazione, senza
stancarsi”. La preghiera che è una continua “elevazione della mente a Dio”, un
continuo respiro di divino, un desiderio, un’aspirazione verso il possesso di
quella vita che ci attende. Ma il nostro Beato, nei momenti liberi, oltre le
preghiere di comunità, si concedeva pause di raccoglimento intenso, in cui la
sua anima entrava in quell’intimo colloquio di amore, che a volte raggiungeva
il misticismo dell’estasi. La prima e più attendibile testimonianza di questa
vita di preghiera, ricordate? è proprio sul suo corpo. Quella callosità sotto
il ginocchio è lì a dirci le ore trascorse genuflesso dinanzi all’altare, di
notte e di giorno, o nella sua camera, lesinando al sonno le pur naturali
esigenze. Ecco, proviamo a vederlo, questo pastorello divenuto P. Andrea,
assorto in preghiera. Forse potremo ricavarne stimolo, oltre che ammirazione e
devozione. “Il di lui vivere, fu un continuo pregar (Un testimone)”. “Il sole
lo fasciava (di luce) prono a terra fino al suo tramonto e tale lo ritrovava al
suo sorgere al mattino” (Torelli). “I suoi pensieri e i suoi affetti non
conoscevano altra strada, fuorché quella del cielo” (Un testimone).
Le penitenze
[Pag. 38] Diciamo “le penitenze”.
Cioè quelle forme di austerità non richieste, abbiamo visto, nè dalle regole nè
dai processi di canonizzazione. Eppure molti santi, come il nostro, allo
spirito di penitenza e di mortificazione, elemento essenziale in ogni santità,
hanno aggiunto anche queste. S. Paolo: castigo il mio corpo e lo riduco in
servitù - Io porto le stigmate del mio Signore sul mio corpo. S. Francesco:
anch’egli chiede le stigmate, oltre la povertà e il resto. S. Rita: chiede la
spina in fronte; anch’essa oltre tutto il resto. E provate voi a scorrere tutta
la Biblioteca dei Santi. Noi trascriviamo le varie testimonianze che riguardano
il nostro Beato. “Portava sopra le nude carni un cilicio molto pungente, fatto
di crini di cavallo aspri e acuti, ed intessuti non a modo di fascia, ma a modo
di mezza camicia senza maniche (una specie di corazza), che copriva al Beato
non solo i fianchi ma parte del collo, tutto il petto, le spalle e la schiena,
e si studiava di coprirlo bene, per farlo palese soltanto a Dio; ed acciocché
questo cicilio si accostasse maggiormente alla vita e più lo martoriasse, lo
cingeva con un cerchio di ferro, quale notte e giorno teneva sopra le reni.
Inoltre si percuoteva il petto con una pietra, vegliando la maggior parte della
notte in orazione. A imitazione di S. Girolamo. Per questo forse si usa
scoprire il suo corpo nella festa di questo santo, il 30 settembre, fin da
antichissimo tempo. Il suo brevissimo riposo lo prendeva vestito dell’abito e
cinto di cilicio, sopra un pagliariccio rozzo, duro, e per cuscino un sasso. [Pag. 39] Il P. Cotta confessa di
aver visto con i suoi occhi, negli archivi di Montereale, questi strumenti, e
specialmente il cilicio, e di esserne rimasto spaventato al solo vederlo; e
volle accostarselo al viso per sperimentare l’impressione; e ne rimase talmente
impressionato da meravigliarsi come avesse fatto il Beato a portarlo per tutta
la vita. Ancora il P. Cotta racconta di aver visto lo strumento della
disciplina, con cui si flaggellava le spalle, e dice che non era nè di molte
corde nè di catene, affinché non facesse volume o risuonasse nell’usarlo; ma di
sole quattro tenui cordicelle, armate di punte di acciaio, le quali punte erano
ancora intrise di sangue fino alla metà” (P. Tomassini). Fin dall’anno del
Noviziato prese a digiunare per tre giorni la settimana, a pane e acqua. Così
per tutta la vita.
Le altre virtù
“La sua vita fu una perpetua umiltà”
(Torelli). “Padre Santo -rispose a Papa Callisto III che lo voleva nominare
Prelato- più mi diletta la lettura del Trattato sopra il Vangelo di S. Giovanni
del mio Santo Fondatore, che qualunque mitra o grado d’onore” (Torelli). “Per
suscitare il dispregio del popolo, ricorreva talune volte ad usare bizzarria
nel modo di vestire. Spesso meditava le umiliazioni a cui si era sottoposto il
Divin Maestro, ma molto lo feriva la considerazione che egli era morto fra due
ladroni. Non poteva portare in pace che altri lo lodassero per il suo sapere e
per le sue virtù. Gli elogi del mondo erano per lui altrettanti dolori, amando
di vivere nascosto e da tutti ignorato. Sceglieva di per sè gli uffici più
umili, e il suo maggior godimento era di penetrare negli ospedali, ove portava
il conforto [pag. 40] della divina parola agli
infermi e accudiva alle più elementari e umili necessità dei medesimi. So che
osservò con tutta perfezione il voto di obbedienza, lasciando ben volentieri le
sue estasi per eseguire i comandi dei superiori, e lasciandosi caricare di
affari rilevanti e sottoponendosi a qualunque fatica e pericolo per ubbidire.
Anche dopo la morte, nel tumulo, onorava con qualche moto del corpo le visite
che gli facevano i Superiori Provinciali. Le sue aspre penitenze, i suoi
digiuni, le sue continue privazioni, la sua vita ritirata erano i mezzi potenti
e le cautele con cui egli circondava e difendeva il bel fiore della castità.
Ecco. Cerchiamo di riflettere. Queste ultime pagine non farebbero meraviglia se
fossero lì a narrarci la vita di un anacoreta, di un monaco, dedito
esclusivamente all’esercizio della penitenza e della preghiera. Ma noi siamo
andati narrando la vita di un apostolo, indaffarato tra cattedre, pulpiti,
confessionali, beghe amministrative. E adesso veniamo a sapere che portava
addosso tutto quell’armamentario, e si concedeva anche il lusso di non
mangiare, di non dormire. Penseremmo. Come ha fatto a tirare avanti. E senza
lamentele. Anzi. “Mellifluo” nel predicare, amabile nel conversare, gioioso
ilare in ogni rapporto con gli altri. “Tutto io posso in Colui che mi dà
forza”. Certamente. [Pag.
41] Doveva
essere ben acceso quel fuoco interiore, che già dai monti di Mascioni lo
illuminava, lo riscaldava, lo sospingeva.
Alla corte del
Re dei re
E finalmente lo introduce alla corte del Re
dei re. Per immergersi e spaziare nell’infinito eterno Amore. Siamo arrivati.
Una vita non breve. Anzi. Sopra gli ottanta. E sempre in discreta salute.
L’unica malattia di cui si parla è quella che precede la sua morte. Una
settimana appena. Quasi un settenario di preparazione. E adesso veniamo a
sapere che soffriva d’artrite. Ma. Chi se ne era mai accorto? E quella
callosità sotto il ginocchio avrà pur dato fastidio, nel camminare, nel
muoversi. Nessuno si accorge di niente. Nessuna testimonianza al riguardo. Ci
son voluti cinquecento anni per saperlo. Cosa volete farci? Così son fatti i
Santi.
L’ultimo
desiderio
Ma.
Anche loro hanno un debole. Un risveglio, un richiamo d’infanzia, in attesa
dell’ultimo approdo. A ben pensarci, il ricongiungersi di due poli, che fu uno
all’arrivo e torna ad essere uno al ritorno. “Se non ritornerete bambini, non
entrerete nel Regno di Dio”. Anche il nostro Beato avverte nostalgia di quegli
anni lontani, [pag. 42] e chiede di tornare ai suoi
monti, per ritrovarsi bambino, spoglio di quella casacca di varie attività che
lo aveva tenuto avvolto per lunghi periodi. Non ci risulta che sia andato a
Mascioni. Montereale, però, è lì a due passi. Lo stesso cielo, lo stesso
respiro, lo stesso profumo di silenzio, di verde. E anche lo stesso belare di
greggi. Quando partì dai suoi monti fu una danza campestre. “Al suo ritorno a
Montereale, ci attesta una antichissima tradizione, le campane, senza tocco
umano, si diedero allegramente a tintinnare, dandogli il benvenuto, ed
avvisando la popolazione che il santo, quale volgarmente veniva chiamato,
riprendeva possesso della sua terra nativa. E tutti accorrevano, non solo per
vederlo, ma per sentire la sua santa parola, godere della sua presenza, e
ritemprare la loro fede agli esempi di pietà e di zelo. Benché molto vecchio,
seguitò ad istruire e a passare lunghe ore in confessionale” (P. Tomassini).
Il Transito
Non ci è difficile immaginare come avvenne.
“Servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore”. Trascriviamo qualche
particolare. “Il giorno diciasette aprile, penultimo della sua vita, secondo
quanto prescrivevano le Costituzioni dell’Ordine, fece l’inventario dei suoi
beni”. A quei tempi non vigeva, tra gli Agostiniani, un concetto rigido della
povertà, e i religiosi, specie i Maestri in Sacra Teologia, disponevano del
possesso di libri, di varie somme di denaro per i viaggi, lo stipendio alla
servitù e per altre opere inerenti alla loro attività. [Pag. 43] Però prima di morire dovevano
compilare questo inventario, dichiarando quello che avevano, e disporsi al
distacco da ogni cosa. L’inventario del nostro Beato è un po’ lungo e assai
minuto. Non che possedesse niente. Anzi, a quanto sembra, è tutto un elenco di
ducati e di libri prestati a varie persone, e che ancora deve avere. Tra i
libri figurano i Decretali e il quarto Libro delle Sentenze di S. Tommaso. “Nel
ricevere il Santo Viatico fu notata la sua profonda pietà e devozione; e fu
udito esclamare con tutta l’enfasi del cuore: “E che potevate far di più, o
Signore! Partivi dal vostro adorabile Tabernacolo per pascere delle vostre
carni e del vostro Sangue chi non ha fatto mai niente per Voi. Io non sono
altro che fango e peccati”. Appena avvenuta la morte è tradizione costante che
si udirono cantare, entro la camera, i cori degli Angeli; e le quattro campane
della torre, senza essere toccate da nessuno, suonarono a festa per
ventiquattro ore. Era il diciotto aprile 1479, domenica in Albis. L’intero
paese e i villaggi circostanti si svuotarono per accorrere a vedere il Santo, e
raccomandarsi a lui per i propri bisogni. L’accorrere fu così straordinario che
si dovettero mettere le guardie attorno al feretro, perché i fedeli facevano a
gara per prendere qualche pezzo delle sue vesti o altro oggetto come reliquia.
Di questo fatto fa menzione il P. Cotta nella vita del Beato, e dice di averlo
appreso in una memoria manoscritta, letta da lui, e che si conservava nel
convento di Montereale” (P. Tomassini).
[Pag. 44] Non quella di Francia. Di
ben altra Regina vorremmo parlare, alla corte di ben altro Re. Purtroppo,
sfoglia, sfoglia, non troviamo alcun accenno in proposito. E la devozione alla
Madonna del Beato? Ci domandiamo. Non è pensabile sia entrato alla corte del Re
dei Re senza il suo invito. Lo sappiamo. È una delle componenti essenziali
della santità. “Senza croce in cielo non si entra. Senza Maria in cielo non si
entra”. E se il pastorello è entrato, e in maniera così eccellente, non c’è da
dubitare: l’invito della Regina c’era. Eccome! È logico. Che bisogno abbiamo di testimonianze. Non ricordate
come era impostato l’orario di preghiera dei religiosi? Ogni notte e ogni
giorno l’ufficio completo in onore della Madonna, oltre quello del giorno. In
più l’antifona cantata “Benedicta tu”, composta di tre salmi e tre letture,
quasi ogni giorno, e, da pensare, in tutte le feste della Madonna. E quella
callosità sotto il ginocchio non è fiorita solo dinanzi al tabernacolo, ma
certamente anche dinanzi alla Sua Immagine. “Madonna delle Grazie”. “Madre di
Consolazione”. I due titoli con i quali da sempre gli agostiniani venerano la
Madonna. [Pag. 45] E precisamente dodici anni
prima della morte del Beato, il 25 aprile 1467, a Genazzano, ecco l’altro bel
titolo: “Madre del Buon Consiglio”.
I miracoli
Abbiamo detto. I miracoli non rendono Santi.
Non sono componenti essenziali alla Santità. I miracoli dichiarano Santi. Cioé,
meglio, è il Signore che mediante i miracoli pone suggello alla santità. Non
necessariamente e solamente dopo morte. Spesso in vita. Basti citare i miracoli
di S. Antonio da Padova, di S. Nicola da Tolentino e altri, operati quand’erano
ancora viventi. Ora la chiesa vaglia ed esamina accuratamente e
scientificamente ogni miracolo, perché risulti veramente tale. Ed è prassi nei
processi di canonizzazione avere un miracolo autentico per dichiarare Beato o
Beata, e due miracoli per procramarli Santi. Del nostro Beato i biografi
riportano numerosi miracoli, molti dei quali avvenuti nei primi trenta giorni
dalla sua morte, quando il suo corpo rimase esposto in chiesa alla venerazione
dei fedeli. Annotati diligentemente uno per uno alla presenza di Notati e
sottoscritti da testimoni, in carta pergamena furono mandati alla Santità di
Nostro Signore Papa Sisto IV, per le procedure richieste. Senonché tutto rimase
in sospeso per l’avvenuta morte del Papa. La fama di Santità del P. Andrea
continua, aumenta; il suo culto si estende oltre i confini di Montereale.
Troviamo le sue immagini venerate a Bologna, Venezia, Perugia. Ma, per
invocarlo col titolo di Beato [Pag. 46] dobbiamo attendere il 1764, dopo un processo regolare svoltosi nella
diocesi di Rieti. Trascriviamo da tale processo una dichiarazione, nella quale
si attesta: “Il servo di Dio, dall’ora del suo felice passaggio al cielo, tanto
dal volgo come dai Nobili ed Ecclesiastici e dai laici; tanto in Italia, come
in Francia, è stato ritenuto uomo religiosissimo, integerrimo, umile, casto,
giusto, semplice, servo fedelissimo a Dio, infiammato di carità. Predicatore
instancabile della divina parola, difensore della Fede cattolica, venerato con
devozione, e come tale invocato da ogni sorta di fedeli, in privato e in
pubblico; e chiamato in aiuto nei loro travagli, pericoli, ingiurie, infermità
e bisogni”. I miracoli sono detti innumerevoli e di ogni sorta. Quando potremo
invocarlo Santo? È in esame un ultimo miracolo operato dal Beato, in questi
anni. Attendiamo in preghiera. Ricorriamo a lui con fiducia, sempre. Il caro
pastorello continua a volerci bene. Siamo pur sempre suo gregge e suo popolo.