IL CONVENTO AGOSTINIANO DI S. MARGERITA IN MONTECATINI

 

da: “FONTI PER LA STORIA DELLA VALLE DELLA NIEVOLE”, (Atti della tavola rotonda tenutasi il 7 maggio 2000), Presentazione di documentazione inedita, a cura di Amleto Spicciani

 

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L’ARCHIVIO DEL MONASTERO MONTECATINESE

DI SANTA MARGHERITA: IL FONDO ANTICO

di ELISA CECCHI

L’antico monastero di Santa Margherita era ubicato a est di Montecatini (levante) esternamente alle mura che cingevano il paese e più propriamente di fronte ad una delle sette porte denominata “portone di Santa Margherita”. Tale struttura fu edificata dall’ordine religioso degli Eremiti di Sant’Agostino nel 1250 circa, che la occuparono fino al 1782 (data della soppressione dell’ordine), e successivamente fu venduta a privati. Dell’edificio sono visibili oggi le mura perimetrali della chiesa, la facciata e altri edifici annessi [fig. 1]. La chiesa è centrale e alla sua destra vi è l’edificio un tempo oratorio di Sant’Antonio abate(1) costruito nel 1500 circa sul terreno dell’ex cimitero del monastero (oggi la struttura è falegnameria e abitazioni private); alla sua sinistra vi erano gli edifici religiosi dedicati alla foresteria etc. e un chiostro (nel 1936 in questi edifici vi fu istituita la Casa di Riposo San Francesco). La facciata della chiesa è di impostazione romanica e caratterizzata da grossi conci regolari perfettamente spianati e disposti su filari paralleli, inoltre sono visibili le tracce dell’antico loggiato e il rosone. Lungo il perimetro degli edifici si nota chiaramente una porzione della torre campanaria, ed altri particolari architettonici sono visibili nel chiostro interno e in alcune stanze adiacenti alla chiesa. Degli antichi arredi della chiesa vi è un affresco rappresentate un Trionfo di santi attribuito alla scuola dell’Orcagna, parzialmente recuperato dalla Sovrintendenza e conservato oggi presso il museo parrocchiale di Montecatini. L’origine del Monastero va ricercata nei suoi documenti più antichi oggi conservati all’Archivio di Stato di Firenze, Fondo diplomatico alla voce “Agostiniani di Montecatini” (2), dove furono catalogati e inventariati nel 1779. Tale fondo attualmente ancora inendito è formato da 101 pergamene (dal 1194 al 1673). La maggior parte dei documenti è costituito da cartule venditiones, e il resto da testamenti, oblazioni (donazioni fatte alla chiesa), carte commutationis, traditionis, divisionis, copie autentiche ed altro. Inoltre va ricordato che una prima riorganizzazione ed inventario di tutti i documenti posseduti dal monastero fu fatta da padre Giulio Finocchi (3), nelle sue Memorie manoscritte del 1706, dove traccia un regesto delle pergamene e la trascrizione dei documenti più importanti per la storia dell’ordine agostiniano di Montecatini. La prima pergamena è del 1194, ma non riguarda il monastero in questione, è una vendita tra privati. Mentre il primo documento che ci interessa è del 1222 (3 aprile) ed è un atto di vendita, rogato a Montecatini, che ha come attori un certo Baldus e Bonafede del fu Brunetto, e frate Ianni “rectori et eremite recipienti pro se et vice nomine ecclesie Sancte Marie de Riaffrico”, per un pezzo di terra in località detta Colli per dieci soldi pisani. Dobbiamo subito precisare che su alcune pergamene vi è una visibile ‘alterazione’ della data: come in questo preciso caso i primi due numeri romani che compongono la data 1222 sono stati modificati in 822. Con l’utilizzo della lampada di Wood sono evidenti le tracce della cancellazione ed è possibile leggerne ancora la data originale. Sulle note tergali effettuate tra il XVI-XVII secolo si tiene fede alla data 1222 (forse a quell’epoca non erano ancora state alterate!), come fece lo stesso archivista del Diplomatico fiorentino (1779) che ne segnala l’evidente alterazione nel regesto. Mentre la falsa data 822 è riportata anche sul recto della pergamena assieme a numeri e sigle di archiviazione di epoca settecentesca, corrispondenti alle segnature riportate dal Finocchi sulle sue Memorie. Queste alterazioni sono presenti su tutte le pergamene che contengono la dicitura “eremiti di Riaffnico” e su poche altre dopo il XIII secolo. Ma torniamo sui dati forniti da questa prima pergamena. La zona del Riaffrico (esistente tutt’oggi) è a un miglio e mezzo circa da Montecatini. Come scrive il Repetti, Riaffrico, da Rivo Affrico, “è un nome comune a molti rivi probabilmente derivante dal loro andamento verso la direzione del vento Africo” (4). Per la caratteristica del nome “Affrico” alcuni storici locali (ed in particolare padre G. Finocchi) e storici dell’Ordine (come padre L. Torelli nei suoi Secoli agostiniani (5)) hanno voluto derivare direttamente da sant’Agostino il nome e la fondazione dell’eremo, avvalorando quindi l’ipotesi di antichità con le false date assegnate alle pergamene. Inoltre padre G. Finocchi trascrisse e inviò a padre Torelli il contenuto di una pergamena dalle dubbie origini. In tale documento vi sarebbe registrato il racconto di un certo F. Giovanni, e di come nell’anno 903 a causa di un grande incendio che distrusse tutto, i frati dovettero abbandonare il romitonio e la chiesa e alloggiare in un loro “ospitio” in Montecatini, dove per ospitalità della comunità fu donato loro del terreno e bosco; per riconoscenza, i frati, donarono alla comunità di Montecatini i terreni in Riaffrico. Sicuramente i frati avevano un loro “ospitio” in Montecatini, che usavano durante i soggiorni in paese per le ricorrenze più importanti. E probabilmente un fuoco distrusse il romitorio e la chiesa, così come sicura è la donazione dei terreni effettuata al Comune (come risulta da un livello del 1674 dato dal Comune a Iacopo Martinelli). Ma sia per il linguaggio usato (secondo la trascrizione riportata dal Finocchi), e per alcuni particolari quali l’uso della parola “Comune”, non possiamo certamente far risalire quel documento al 933! Purtroppo tra le 101 pergamene visibili oggi non vi è questa, anche se nell’inventario del 1779 si parla di “una carta spuria si dice del 903 soscritta da frate Giovanni e un frammento di un’altra carta inintelligibile, ambedue messe a parte”. Sarebbe interessante verificare se anche su tale pergamena è stata effettuata la stessa alterazione di data o se si tratta di una falsificazione posteriore. Nel corso dell’XI secolo e nella prima metà del XIII secolo in tutta la Toscana vi fu una fioritura eremitica con insediamenti di piccole comunità, a volte anche individuali, che si allargarono in un secondo momento. Attraverso le tracce segnate da altri studiosi su testimonianze più complete di vita eremitica, possiamo individuare a grandi linee un modello tipico:

- in un tempo non precisamente identificato, diciamo agli inizi del XII secolo, emerge dal silenzio un eremo x e un frate y (“Iamni” nome spesso ricorrente);

- in un luogo male accessibile, infecondo, disagiato, lontano dalla città o dai centri e vicino ad un rivo;

- le caratteristiche della comunità eremitica corrispondono, per lo più, a concrete esigenze di riferimento religioso per le popolazioni rurali;

- si praticano castità e povertà e si assumono funzioni sacerdotali sopratutto per la predicazione;

- la veste è semplice (a significare la rinuncia alla vita mondana) e si professa la “vita vere apostolica”, “povero verso Cristo povero”;

- come altri canonici regolari, queste comunità, adottarono la regola di sant’Agostino.

Gli eremiti del XI secolo e dei successivi però non scelgono la solitudine assoluta, ma solo luoghi appartati, per consentire una vita ‘utile’ e apostolica. Per il loro impegno nella “cura d’anime” col tempo si creò un processo di clericalizzazione, e gli insediamenti eremitici tesero a trasformarsi in canoniche regolari. A questo punto torniamo sui dati disponibili forniti dalle prime pergamene inerenti i nostri eremiti: in Riaffrico e precisamente vicino ad un “rivo affrico” nel 1222 vi era una chiesa e un romitorio intitolati a Santa Maria e Santa Margherita vergine, con un rettore o priore, quindi già articolato in “canonica”. Non solo ma le vendite e le donazioni di queste prime pergamene avvalorano l’ipotesi della solida struttura canonicale e territoriale che si era costruita negli anni. Nel primo documento di donazione (1223) di una via in Palude in luogo detto Farfaraio “ad hutilitatem ipsius heremitorii ... in ipso loco habeant et teneant illi qui pro tempore in ipso heremitorio steterint et Deo servirent et ibi possent facere piscariam et edificare et facere si quod edificium facere voluerint, ad hutilitatem ipsorum” si nota la pofondità con cui il romitorio si era inserito nella collettività. Ma vediamo brevemente anche le altre pergamene:

- 1226. Vendita a frate Gianni per la chiesa e romitorio di Riaffrico di un pezzo di terra in Marliana, detto Classo, per 30 denari pisani.

- 1227. Vendita a frate Gianni per il romitorio e la chiesa Santa Maria di Riaffrico di un pezzo di terna in “Campo de Nivore”, in località detta Pogiali, da parte di Orlando del fu Jacopino di Maone, per libre 20 e soldi 10. L’atto è stato rogato “in domo dicti Orlandi in castro de Maone”.

- 1227. Vendita a frate Gianni per il romitonio e la chiesa di Santa Maria di Riaffrico di due pezzi di terra con alberi, uno confininante con le terre di Maone in località detta Vergario e l’altro con la chiesa e romitorio, per soldi 36.

- 1231. Vendita a frate Gianni, per il romitorio di Santa Maria e Santa Margherita di Riaffrico, di un pezzo di terra con alberi confinante con il romitorio e con le terre di Scopti del fu Buiolis e da un lato con una via pubblica. Rogato in Montecatini, in “Arrecchiati”, per libre 3 denari lucchesi e pisani.

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Con la Bolla Incumbit Nobis del 1243 di Innocenzo IV, iniziò l’azione unificatrice degli eremiti di Tuscia. Essi si riuniscono in diversi gruppi sotto il governo di un Superiore Generale e adottano la Regola di sant’Agostino; si istituisce l’Ordo Sancti Augustini de Tuscia e il Capitolo di fondazione dell’Ordine venne celebrato a Roma nel 1244. In un secondo momento, tale azione, si allargò alle altre zone e a gran parte dell’Europa, e nel 1256 fu effettuata la Magna Unio patrocinata da Alessandro IV che segnò la costituzione dell’Ordo Heremitarum Sancti Augustini. Le unioni danno personalità giuridica ai conventi come possessori di beni (i beni possono e devono essere incrementati). Vi sono due motivazioni principali che spingono questa esigenza di unificazione: da una parte la Sede Apostolica temeva una dispersione sul territorio di comunità religiose, che proprio per questa peculiarità, erano poco controllabili e rischiavano di cadere in eresia; dall’altra la richiesta stessa da parte degli eremiti di essere organizzati sotto una regola, poiché lamentavano il fatto di essere confusi spesso con altri ordini mendicanti quali i Francescani (per l’abito e la questua). Ogni eremo ebbe così la medesima motivazione: dove non vi era la possibilità di ingrandirsi vi fu il concorso da parte dei cittadini (incitati dalle indulgenze vescovili) o dalle comunità ad aiutare nell’edificazione di un luogo di culto che non temesse confronti con gli altri ordini quali i francescani e domenicani. I documenti del nostro monastero portano testimonianza di tali iniziative:

1257. A tale anno risale una copia del Breve di papa Alessandro IV diretto al generale, provinciale, priori e individui dell’Ordine Eremitano di sant’Agostino, col quale concede e conferma i privilegi e le indulgenze che erano stati accordati dalla Sede Apostolica prima che fossero uniti in un solo ordine. Questa è una copia fatta sul principio del XV secolo al tempo di Antonino arcivescovo di Firenze ed autenticata da tre notai.

1273. Lettera di frate Pietro dell’ordine dei Predicatori vescovo di Lucca (6),  con la quale esorta tutti i suoi diocesani a voler concorrere con limosine e sussidi caritativi alla fabbrica della chiesa ed oratorio che avevano incominciato i frati eremitani di sant’Agostino presso Montecatini, concedendo ancora l’indulgenza di 40 giorni a chi avesse aiutato l’opera.

1276. Lettera di Paganello vescovo di Lucca a frate Simone priore provinciale dell’Ordine eremitano di sant’Agostino al quale concede facoltà di porre la prima pietra della fabbrica della chiesa di Santa Margherita presso Montecatini, e di dare l’indulgenza di 40 giorni.

1283. Altra lettera del suddetto vescovo Paganello diretta ai suoi diocesani esortandoli a voler prestare ogni possibile aiuto di elemosine ai frati Agostiniani eremitani di Montecatini per il loro sostentamento.

Dal 1308 in poi non si parla più della chiesa e romitorio di Riaffrico, ma di Santa Margherita di Montecatini. I nostri eremiti ormai stanziati a Montecatini, sono sotto la provincia pisana ed eleggono un loro priore generale secondo l’ordinamento assegnato da Innocenzo IV. A questo punto i documenti sono per lo più donazioni e lasciti testamentari in favore dei frati:

1308. Brunetto da Montecatini annulla un testamento fatto in precedenza, in presenza del priore del convento di Santa Margherita, per donare tutti i suoi beni alla chiesa e vestire l’abito religioso di eremita agostiniano.

1310. Donazione di due pezzi di terra in un secondo tempo revocata (1312) per un testamento con lascito alla figlia.

1326. Donazione di donna Benvenuta, vedova, di un pezzo di terra posta nella corte di Montecatini in luogo detto Querciole, e certi crediti in denaro.

1328. Da un testamento (in più fasi rivisto) di Billio alla moglie Marchesana, in ultimo si dispone che ella abbia un pezzo di terra e l’uso di una casa posta in Montecatini. Nel 1332 la stessa Marchesana dona tutti i suoi beni mobili ed immobili a Dio e alla chiesa di Santa Margherita di Montecatini, lasciandosi solo l’usufrutto dei suoi beni per vitto e vestiario, e viene investita dei doni dell’Ordine col libro e la stola.

Nel 1345 vi sono 2 pergamene con indulgenze concesse dal vescovo di Lucca frate Guglielmo a chi visiterà e concorrerà in elemosine e altri sussidi alla chiesa di Santa Margherita, per l’ampliamento della chiesa. Curioso e interessante è un lascito del 1341 di donna Franceschina del fu Giovanni di Montecatini, che tra le diverse cose dispone che un pezzo di terra in località detta San Martino (ai confini di Montecatini) vada al convento di Santa Margherita per il lume del tabernacolo eucaristico, e “un mantellum de Soriano colorem garofanati” per fare una pianeta.

1345. (4 gennaio). Lettera del vescovo di Lucca con la quale fa noto di aver ribenedetto la chiesa e il cimitero di Santa Margherita di Montecatini che era stato profanato a motivo di un ‘effusione’ di sangue.

1350. Soffredingo di Mologno canonico lucchese, vicario generale del vescovo Berengario di Lucca, concede facoltà ai frati di Santa Margherita di poter esigere due terzi di lire 50 dei debiti incerti lasciati da qualunque persona per converrtirli nel restauro della chiesa.

1403. (7 gennaio). Testamento di Francesca figlia del fu Giovanni Chelli detto Sozzo de’ Baroncelli, nel quale dispone la volontà di essere seppellita nella chiesa di Santa Margherita, inoltre istituisce eredi universali l’Opera di Santa Margherita e il convento dei Frati Agostiniani di Montecatini, a condizione che detta Opera e i suoi operai facciano costruire, murare e edificare un altare lapideo in una casa posta in Montecatini presso la torre Collorensium (descritta nei suoi confini) e dispone inoltre che detto altare venga edificato entro un anno dalla sua morte e che sia sottoposto alla cappella dell’Annunziata di Santa Margherita. Se l’edificazione non sarà fatta entro detto tempo, la testatrice, dispone che il suo lascito sia devoluto alla società di San Sebastiano di Montecatini, per l’edificazione del medesimo altare, ma con la scadenza di due anni. Se ciò non sarà fatto, si dispone che tale eredità vada a San Giovanni del Tempio di Firenze, con le medesime condizioni. Come testimonia il Finocchi, l’altare fu edificato dai padri Agostiniani e si mantenne per anni la celebrazione delle funzioni come da testamento. Questa relazione include soltanto lo spoglio delle pergamene il cui contenuto è direttamente inerente alla storia del convento, fino al 1403. Il resto del materiale da me analizzato è composto da atti fra privati che approfondirò in altro luogo: quello che resta da dire, per concludere, è sottolineare l’importanza dello studio e del confronto con i documenti antichi, i quali permettono di scoprire toponimi e antroponimi attraverso cui ricostruire i percorsi della storia seguendo le tracce di una comunità sia essa religiosa, sia essa civile.

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(1) L’oratorio fu creato nel 1500 circa per recare conforto ai condannati a morte e ai bisognosi in punto di morte.

(2) Nel 1779 a seguito della soppressione granducale fu creato a Firenze un archivio chiamato “Diplomatico” per raccogliere i documenti dei conventi soppressi, oggi fa parte dei fondi dell’Archivio di Stato di Firenze.

(3) Giulio di Cosimo di Tommaso Finocchi (nato il 5 agosto 1639 e morto il 3marzo 1716) fu baccelliere di Santa Margherita di Montecatini dell’ordine degli Agostiniani e raccolse le memorie della sua terra in un manoscritto di 900 pagine circa nel 1706, con particolare riferimento agli avvenimenti e descrizioni del suo monastero. Il manoscritto è stato recentemente restaurato ed è conservato presso la parrocchia di San Pietro in Montecatini.

(4) E. REPETTI, Dizionario corografico della Toscana, 1855, vol. IV, p. 8.

(5) L. Torelli è lo storico dell’ordine Agostiniano, del secolo XVIII.

(6) Ricordiamo che Montecatini fino aI 1519 era sotto la diocesi di Lucca.

 

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L’ARCHIVIO DEL MONASTERO MONTECATINESE DI SANTA MARGHERITA:

DAL MEDIOEVO ALLA SOPPRESSIONE LEOPOLDINA

di SONIA CIVAI

Dopo la soppressione leopoldina i beni del convento di Santa Margherita confluirono una parte in San Lorenzo di Pistoia, una parte in Santa Maria in Selva: come risulta da un “Campione di Convento della Selva” del 1785 presso l’Archivio di Stato di Pisa che riporta questa formula: “campione nuovo del Convento di Santa Maria alla Selva con l’aggiunta del campione del soppresso convento Santa Margherita di Montecatini, pervenuta la metà del patrimonio di esso a questo convento e l’altra metà al convento di San Lorenzo di Pistoia” (dicembre 1782); e le pergamene pervennero al fondo Diplomatico dell’archivio Granducale. I materiali conservati negli archivi dei conventi potevano subire dispersioni di tipo fisiologico, dovuto cioè a fattori interni: negligenza, trascuratezza (anche se le mancanze nell’aggiornare l’inventario dei beni mobili e immobili viene punita severamente) o per cause naturali (allagamenti, incendi...) o sono altresì dovute ad interventi esterni, quali le soppressioni che sono state la causa della frantumazione e perdita di decine e decine di manoscritti, specie se di materiale cartaceo. Così il manoscritto (1) di padre Giulio Finocchi -di cui si è parlato nella relazione precedente- finisce a San Lorenzo e qui il Livi (2)  lo consulta nel 1874. Nei primi del Novecento figura nell’archivio della pieve di San Pietro di Montecatini, come testimoniano gli scritti autografi del fondo Nardini (3), sia perché il pievano don Paponi scrive dei commenti di propria mano in calce al documento Finocchi (4). L’autore del documento in questione, è padre Giulio di Cosimo di Tommaso Finocchi, baccelliere, nato a Montecatini il 5 agosto del 1639 e quivi morto il 3 marzo 1716. Si sa che oltre ad essere cronista e storico del convento, nonché della terra di Montecatini, nei primi anni del XVIII secolo lo stesso Finocchi è provinciale dell’Ordine, come risulta da un documento rinvenuto nell’Archivio di Stato di Pisa, libro “Debitori e Creditori” del 1703-1741. Il manoscritto si apre con una dedica ai “Consoli e Rappresentanti di parte guelfa della sublime antica e veterana terra di Montecatino capo della valle di Fievole”, al lettore e ai confratelli, e ribadisce subito che uno dei motivi fondamentali per cui si accinge a scrivere le memorie di Montecatini è il grande valore che lui attribuisce alla storia, laddove la creatura umana “anelante al sapere per sodisfare a sì gran fame che la sviscera si pasce della storia come suo cibo corrispondente”, quindi l’essere umano è la sua storia. Ma c’è anche qualcosa di più nella dedica del Finocchi: una visione etica e filosofica, consequenziale allo studio della storia, la storia come exemplum, come osservazione dei “fatti eroici et accidenti notabili” del “genio umano” dai quali si impara “se buoni ad imitarli, se cattivi a saperli fuggire”. In questo senso, appare chiara, l’insistenza dell’autore, atta a rassicurare il lettore, sulla veridicità delle cose da lui stesso scritte che sono come egli afferma “non di mio capriccio inventate, ma ben sì dalle scritture et in diversi libbri manoscritti di questo convento et altri diversi autori stampati ho ritrovato e da me in quest’opera fedelmente citati. Sì come per rinnovare la memoria de’ nostri antenati”. Finocchi si pone quindi, con le dovute cautele e i vari distinguo, nel grande e fecondo alveo della storiografia locale, più o meno erudita, alla Galeotti, alla Salvi, alla Puccinelli (5); fra l’altro Padre Finocchi è un attento lettore sia del Salvi che del Puccinelli e contesta loro l’indebita “iscrizione” dei Bagni al territorio di Pescia o Pistoia; e ribadisce che essi (i bagni) “sono nella Communità di Monte Catino e situati al piede del monte di detta terra dalla parte di occidente”. A suffragio di ciò porta ad esempio gli Statuti delle due città che non contemplano né proibizioni né leggi riguardanti i bagni. Il manoscritto è tutto venato da un fortissimo amor di patria e da un ancora più profondo senso di appartenenza territoriale, la formula elegiaca dell’incipit rivela chiaramente il sentimento dell’autore che parla della bellezza dei luoghi evocando le zone e le città limitrofe, le montagne, i corsi d’acqua, descrivendo con una qual sorta di entusiasmo poetico le colture, gli alberi, l’aria salubre tanto da paragonare la Valdinievole -non osa ma lo fa- al paradiso terrestre. Vi è una specie di progressione centripeta nella narrazione che mira a portare al centro, appunto, di questo Eden, la città di Montecatini. Ma è la città nella sua trasfigurazione storica quella a cui guarda il Finocchi, è la Montecatini del Castello, con la possente cinta muraria in cui si aprono sette porte, la città simbolo di libertà e giustizia costruita “per l’affetto”, che gli antenati portavano alla patria, i quali per renderla ancora più forte e stabile, vi fabbricarono due fortezze. Non solo la storia e la bellezza dei luoghi, fanno ricca questa terra, ma essa “si rende molto cospicua ancora nello spirituale” poiché vi si contano alla data in cui l’autore scrive, e cioè il 1706, trentatré luoghi pii “attuali ed esistenti”, fra i quali primeggia la pieve. E nota a tutti la vicenda del trasferimento nel corso del XII secolo della pieve di San Pietro a Neure nella chiesa del castello di Montecatini dedicata a San Michele, ma che assunse il titolo di San Pietro. La vecchia pieve si intitolò a San Marco. Dice il nostro cronista che sono ormai centinaia di anni che i pievani pro tempore abitano nella canonica di Montecatini e le entrate sono assai ricche, ma i pievani sono obbligati a mantenere la fabbrica della chiesa della Pieve a Nievole, cioè le muraglie, tetti, pavimenti, sagrestia e casa del curato. Così come tutti i paramenti sacerdotali, i paliotti etc. I curati di San Marco sono soggetti all’arbitrio dei pievani, che possono nominarli o rimuoverli a loro piacimento, e i suddetti curati sono tenuti nel giorno in cui si celebra la festività di San Marco, ad offrire un pranzo ai pievani di Montecatini e di Monsummano e a tutto il loro clero, che in quel giorno arrivano “pricissionalmente” per celebrare solennemente e cantare la messa. Molte pagine del documento sono dedicate alla descrizione della cappella di Santa Barbara all’interno della chiesa di San Pietro, si parla del prezioso reliquiario, dell’apparato liturgico, della festa: sono pagine di grande interesse per una storia della devozione popolare. C’è un elenco accuratissimo degli oggetti contenuti nella pieve, dei patrimoni e degli arredi delle cappelle e degli altari fatti edificare dalle famiglie notabili del paese, fra le quali la sua. Che padre Finocchi appartenesse ad una famiglia di una certa importanza nella vita del paese, non ci sono dubbi: un suo avo, Francesco di Lodovico Finocchi, è tra i firmatari dell’ “istrumento pubblico” rogato il 16 dicembre 1583, con il quale i sindaci del Comune di Montecatini, donano al Granduca Francesco I i “Bagni” in nome del medesimo Comune. Segue un’interminabile catalogazione di testamenti, una ricca sezione di storia in cui si smentisce la leggenda di Catilina come fondatore, asserendo che Montecatini è molto più antica ed è coeva alla Fiesole etrusca. Per la sua cronaca storica, a causa dei vuoti causati dall’assenza di fonti locali, il frate si avvale spesso di contributi e citazioni tratte da Giovanni Villani e da Placido Puccinelli. Si arriva quindi al lunghissimo elenco delle cartapecore, di cui presenta un regesto e afferma essere quello patrimonio e storia del convento di “Santa Margherita vergine e martire situato fuori dalla terra di montecatino di Val di Nievole dalla parte di levante; nel qual luogo avevano i soprannominati padri un’ospitio, prima che quivi venissero ad abitare. Perché ne’ tempi andati stantiavano nella detta communità, lontano da Montecatino, un miglio e mezzo circa, luogo detto Africo … in un romitorio intitolato Santa Maria e Santa Margherita d’Affrico”. Ed eccoci al momento in cui gli eremiti lasciano solitudo, paupertas, heremeus e diventano ordo novus. Padre Finocchi parla diffusamente del ruolo che ha il suo Ordine nella vita religiosa e civile della “commune di Montecatino”, parla della struttura del convento, della chiesa, dell’orto; annota con minuzia, cosa quanto mai interessante, i volumi ospitati nella biblioteca. Concludendo: se è vero che l’ “erudizione” marginale e paesana di Giulio Finocchi lo esclude da una république des lettres, certamente è però qualcosa di più del “buon fraticello”, come lo definisce il Torrigiani nel suo volume sui personaggi illustri della Valdinievole. È, al contrario, un personaggio estremamente interessante, la cui figura e opera verranno da noi approfondite in un contesto più ampio. Ci basti qui celebrare lui come testimone di storia e la sua opera come serbatoio della memoria.

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(1) Diamo qui di seguito una breve descrizione di come appariva il manoscritto prima del recente restauro: misura cm 21,03 x 33, lo spessore dorsale è di 10 cm, è composto di circa 900 pp. più alcuni fogli sparsi, materiale cartaceo in buone condizioni, a parte una trentina di pagine corrose e frammentate, quindi illeggibili. Coperta in pergamena.

(2) Leone Livi, storico locale del XIX secolo, scrisse Memorie e notizie istoriche delle terre di Montecatini in Valdinievole, Pescia 1811.

(3) Schede raccolte nella biblioteca comunale di Pescia.

(4) “In generale i documenti ecclesiastici su cui il Governo Granducale poté mettere le mani ebbero questa sorte: le pergamene passarono all’archivio diplomatico di Firenze, mentre il resto dei documenti incamerati seguì la sorte dei beni”. A. SPICCIANI, Gli archivi ecclesiastici della Valdinievole, in “Atti del Convegno su archivi della Valdinievole”, Buggiano 1986.

(5) Eruditi locali. Francesco Galeotti, del secolo XVII, scrisse le Memorie di Pescia nel 1652, il cui manoscritto è conservato presso la biblioteca capitolare di Pescia. Di Michelangelo Salvi abbiamo Istoria di Pistoia nel 1656. Don Placido Puccinelli, del secolo XVII, scrisse le Memorie dell’insigne e nobile terra di Pescia.

 

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APPENDICE

G. FINOCCHI, Memorie, (1706), ff. 24-27. (Manoscritto conservato presso la parrocchia di San Pietro apostolo di Montecatini).

 

L’opera dell’altare di Santa Barbera vergine e martire protettrice et avvocata di questa nostra terra di Monte Catino, situato in detta chiesa (1) ai piedi della scalinata dell’altare maggiore in cornu evangelii, dove vi è l’altare e cappella di detta Santa adornata di bellissime residenze tutte di noce, soffitta innorata, lampade d’ottone e di argento in molta copia, sì come di candelieri, croce, calici, turribule con navicella e pace (2) d’argento et apparati di broccatello usati e nuovi, che questi furono fatti fare l’anno 1702. Dietro a dett’altare vi è un santuario nel quale vi sono reliquie poste in bellissimi reliquiari di diversi santi et in particolare nel mezzo e di dietro alla tavola dell’altare dove si celebra la santa Messa, vi è un pretiosissimo reliquiario fatto a torre d’argento finissimamente lavorato e dentro di questo vi è collocata l’insigne reliquia della testa di Santa Barbera vergine e martire nostra protettrice, tenuta con gran decoro e riverenza, mentre al tabernacolo o armadino nel quale è collocata vi sono tre chiavi, delle quali una ne tiene la communità o rappresentanti della medesima, che la tengono rinserrata dentro la cassa del commune, l’altra la tengono i signori pievani pro tempore e la terza la tiene il cappellano della communità e senza di questi non si puol cavare dal detto tabernacolo. È solito che la santa reliquia di Santa Barbera due volte l’anno si porti a processione per questa nostra terra di Monte Catino e che sia esposta nella detta pieve, cioè il giorno quattro di dicembre festa solenne di detta terra e sua communità et in tal giorno collocata su l’altare maggiore per dare adito di potersi celebrare le Messe basse e cantata all’altare di sua cappella et il secondo giorno di Pasqua viene collocata all’altare proprio di detta santa et in tali giorni che si fa una solenne processione, viene invitato tutto il clero secolare e regolare di questa terra e ne ricevono l’elemosina nel modo che danno li signori pievani per san Pietro, anzi la sera della vigilia di detta santa, quale tutti siamo tenuti ad osservarla sub precepto, per la consuetudine inveterata di centinaia d’anni, si canta solennemente il mattutino nella cappella già detta e vi concorrono tutti della terra, e con gran devozione. […] La cappella di Santa Barbera è della communità di Monte Catino dalla quale è stata edificata come dall’arme o impresa esistente in detta cappella o altare apertamente si riconosce e alla medesima communità li fu assegnata un’annua entrata per mantenimento della stessa, da pagarsi annualmente la mattina del giorno quattro di dicembre, festa solenne di detta Santa. […] Molto più era l’offerta suddetta che veniva fatta nei tempi andati perché il secondo giorno della santa Pasqua, come sopra, le venerabili compagnie di San Giovanni Battista, Sant’Antonio abate, e di San Sebastiano, ciascheduna di loro facevano le loro rappresentazioni, quali dal volgo o popolo venivano chiamate con il nome di “sante”, per la qual cosa concorreva in questa nostra terra molta quantità di popolo dalle vicine castella e tutte le suddette confraternite andavano pricissionalmente, ciascheduna con la rappresentione di quei santi o sante che più a loro fusse piaciuto. Finite e terminate le processioni, quasi tutto il popolo si raunava alla piazza e vicino alla casa dei signori Finocchi, in capo della piazza suddetta si fermano, quello che rappresentava san Bastiano con altri due che rappresentavano quelli che li tirano le frecce, ovvero dardi, quando fu martirizzato, chiamati dal popolo farisei, questi, quando andavano pricissionalmente, avevano un arco di ferro per ciascheduno et un arcasso nel quale mettevano le suddette freccie o dardi e pigliandone una per ciascheduno e camminando, ovvero andando in processione, facevano l’atto di scaricare quei dardi, ma essendo ben fermi e stabiliti nell’arco suddetto, non potevano uscire e non potevano far danno alcuno. Tutti tre i suddetti si spogliavano dell’abito rappresentativo e spogliati che erano con gran velocità correvano, partendosi di dove sopra, cioè dalla casa dei signori Finocchi suddetti e quello che prima giungeva, o perveniva alla chiesa dei padri del Carmine, vinceva il palio. […] Il concorso del popolo rendeva più numerosa l’offerta e più pingue l’opera dell’altare o Cappella di Santa Barbera. Furono smesse le dette rappresentazioni circa l’anno 1692 per opera del molto reverendo signor don Anton Francesco Bertini da Pescia in quel tempo pievano di questa nostra pieve di San Pietro, dal che nacquero molti susurri e mormorationi tra gli abitatori di questa nostra terra mediante, non solo per la devotione che rendevano, ma ancora per causa dell’utile che ritraevano per la vendita di vino, pane, perché in tal giorno vi era grandissimo concorso per causa del quale era maggiormente venerata la santa reliquia.

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(1) La chiesa di cui si parla, è quella di San Pietro apostolo.

(2) Oggeuo liturgico che i fedeli baciavano per lo scambio della pace.