da MARCELLA CAMPANELLI, Gli Agostiniani Scalzi, Napoli 2001, pp. 119-144

 

La Provincia Palermitana.

Nel 1649 la provincia palermitana contava 12 conventi per un totale di 216 residenti. Come accennato precedentemente, nel 1611 si erano uniti agli Scalzi gli Agostiniani della Congregazione di S. Maria del Soccorso, detta anche di S. Maria della Catena o della Sanità. In tal modo i conventi palermitani di S. Nicola da Tolentino e di S. Gregorio, di loro appartenenza, erano passati agli Scalzi con funzioni, l’uno di professorio e l’altro di noviziato (372). Nel 1611 e nel 1614 erano stati fondati i due conventi messinesi ed in seguito, a partire dal 1619 e per circa un decennio, la provincia conobbe il suo massimo momento di espansione. In quel periodo, infatti, sorsero sette nuove sedi. Dal 1630, invece, si verificò una vera e propria inversione di tendenza tanto che bisognò aspettare sedici anni prima di poter vedere nascere un altro convento, quello di S. Nicola da Tolentino a Partanna (373), l’ultimo eretto prima dell’inchiesta pontificia. Anche in Sicilia, così come era avvenuto nell’Italia centrale, erano stati gli Scalzi ad adoperarsi attivamente per poter aprire nuove sedi, tanto da risultare i diretti fondatori in cinque casi (374). Dopo aver “ereditato” i conventi palermitani, i religiosi diedero immediatamente prova della loro determinatezza nel perseguire con ostinazione il proposito di insediarsi a Messina. Possedere conventi in quella città, infatti, avrebbe significato poter offrire ai Padri in viaggio per Palermo un luogo per riposare. Padre Simeone di S. Croce avviò immediatamente delle trattative per prendere possesso della chiesa della SS.ma Annunziata (375) e per nulla scoraggiato dall’iniziale esito negativo conseguito, trovò nella Compagnia dei giustiziati, attiva presso la chiesa di S. Restituta (376), la migliore alleata per introdurre gli Scalzi in città. La Compagnia, grazie soprattutto a Girolamo di Leo, suo governatore, cedette ai Padri la sua piccola chiesa dedicata a S. Restituta. Di contro gli Scalzi si impegnarono a conservare il titolo originario della chiesa, a non cederla ad altro Ordine, a consentire ai confratelli la sepoltura all’interno di essa e a fornire annualmente cera e olio per la lampada (377). Anche per il secondo insediamento risultò vincente il connubio Scalzi-confraternita. “L’industria, prudenza, e buona edificatione” del P. Giuseppe della Madre di Dio unite al desiderio dei confratelli della SS.ma Annunziata di voler cedere la loro chiesa ai Padri e di passare sotto la direzione spirituale di questi ultimi (378), consentì pertanto di aprire in brevissimo tempo due conventi a Messina. L’entrata in città degli Scalzi non trovò ostacoli di alcun genere, anzi, la comunità intera insieme alle autorità civili e religiose partecipò alle solenni processioni che accompagnarono l’insediamento dei religiosi. La presenza poi, nei cortei, dell’arcivescovo Pietro Ruiz, del viceré duca d’Ossuna, dei giurati e di molti nobili finì con l’assumere per gli Scalzi il valore di una vera e propria approvazione e legittimazione da parte del potere cittadino, sia laico che ecclesiastico (379). Da quanto detto, è emerso in tutta la sua importanza il ruolo risolutivo assunto dalle confraternite per consentire l’entrata dei Padri in Messina. Tale fenomeno non rimarrà circoscritto a questa città, ma risulterà una costante nella vita stessa della provincia. Le confraternite con il loro intervento avevano già determinato nel passato l’insediamento degli Agostiniani nei due conventi palermitani che sarebbero passati in seguito agli Scalzi (380) e, allo stesso modo, avranno un ruolo di prim’ordine per l’esistenza stessa di altri conventi. Spesso saranno protagoniste, insieme ai Padri, di lusinghieri successi, a Messina come ad Itala dove nel 1623 fu ceduta agli Scalzi la chiesa di S. Venera dove gli appartenenti ad una confraternita erano soliti riunirsi per tre ore all’alba dei giorni festivi e svolgervi gli esercizi spirituali (381), ma non mancheranno anche casi in cui si schiereranno contro di loro, a sostegno di altri Ordini religiosi. Le vicissitudini attraversate dagli Scalzi prima di poter fondare il convento a Trapani sono illuminanti in tal senso. Qui furono ben due le confraternite che, dietro pressione di altri Regolari, revocarono l’assenso concesso inizialmente ai Padri a poter occupare le chiese di loro proprietà (382), finché una terza cedette la sua, intitolata alla Madonna dell’Itria, dettando delle precise condizioni a suo favore (383). Cosa spingeva il mondo confraternale a vivere con tanta passione e partecipazione le vicende degli Scalzi o, più in generale, dei nuovi insediamenti di religiosi in una determinata zona? E’ evidente che all’origine dell’interesse non possa esserci unicamente una motivazione di ordine religioso. Credo, pertanto, che la chiave di lettura del comportamento assunto possa essere duplice. Parti integranti del tessuto sociale insulare (384), è facile poter ipotizzare una chiara e precisa volontà di voler svolgere un ruolo di mediazione fra il mondo laico, di cui erano un’espressione, ed il mondo ecclesiastico rappresentato dagli Ordini religiosi, in genere i più attivi sul territorio e i più vicini al mondo dei fedeli (385). Si spiegherebbe, in tal modo, il sostegno dato ai nuovi Regolari. Di contro, però, spesso la strategia operata dalle confraternite era andata ad intersecarsi con quella di coloro che in varie occasioni si erano opposti agli Scalzi a causa di rivalità e interessi di parte. A Caltanisetta, ad esempio, i Carmelitani avevano convinto il governatore a negare agli Scalzi il permesso di fondare un convento in città e soltanto grazie all’intervento del duca di Montalto era stata ceduta ai Padri la chiesa di S. Maria delle Grazie. In effetti, i Carmelitani celavano dietro il loro ostracismo e una diatriba avviata con una confraternita la paura di perdere la gestione di quel luogo di culto, dove era conservata una statua della Vergine ritenuta miracolosa (386). Analoga motivazione aveva mosso i Regolari di Marsala, forti dell’appoggio del barone di Sinagra (387). Anche in questo caso era in gioco la gestione di una grotta dove era conservato un affresco della Vergine dispensatrice di grazie, ritrovato miracolosamente. Gli Scalzi avevano risposto chiedendo aiuto e protezione a nobili palermitani e, in particolare, al duca di Terranova (388). A Partanna, Conventuali, Carmelitani, Cappuccini e Gerolamini avevano fatto fronte comune contro gli Scalzi per evitare il loro insediamento, motivando il diniego con l’impossibilità, da parte degli abitanti del luogo, di poter sostenere un’altra comunità religiosa. Furono proprio questi ultimi, però, ad asserire il contrario e a consentire ai Padri di prendere possesso del luogo donato loro dal principe Mario Graffeo (389). Quale, alla luce di quanto detto, era, quindi, il legame che univa confraternite ed Ordini religiosi? Strumentalizzazione o collaborazione? Di certo, le vicende legate alla nascita dei conventi di Caltanisetta, di Trapani e di Marsala hanno messo in evidenza come l’entrata in città di un nuovo Ordine religioso poneva inevitabilmente in discussione antiche alleanze e ne creava di nuove. In questo gioco delle parti le confraternite, protagoniste già da tempo in Sicilia di un’azione di “recupero” della “cerimonialità popolare” e di un “controllo” della devozionalità (390), finivano con il rivestire un ruolo mediatore di primo piano fra le forze in campo e gli interessi in gioco (391). Né bisogna dimenticare che, oltre a quelle già presenti al momento della fondazione dei conventi, altre di nuova istituzione verranno ospitate nelle chiese degli Scalzi (392). Al di là dei comportamenti assunti dai Regolari e dalle confraternite, è già apparso in controluce, da quanto detto, il ruolo di primaria importanza svolto da alcuni esponenti della nobiltà siciliana nei confronti dei Padri. In effetti non furono pochi i nobili che chiamarono direttamente gli Scalzi a fondare conventi nelle loro terre. Il principe di Partanna aveva messo a loro disposizione “tanta quantità di terreno quanto è sufficiente per poter fabricare la chiesa e il monastero et anco per poter far horto, giardino e silva” (393). Il marchese Antonio Morso li aveva voluti a Gibellina ed i buoni rapporti con i feudatari locali si erano consolidati nel tempo tanto che la costruzione del convento continuava grazie alle elemosine degli eredi del fondatore “devotissimi et nostri amorevoli” (394). A Cammarata era stato uno dei più ricchi nobili isolani, Francesco Branciforte, a chiamarli e a impegnarsi pubblicamente a fornire al convento una serie di sovvenzioni annue tali da garantire la sopravvivenza stessa dei religiosi (395). Analogamente, il duca di Montalto forniva ai Padri residenti a Caltanisetta la pietanza nel corso di tutto l’anno “non per obligo ma per suo beneplacito” (396). Il sostegno alla Congregazione era venuto, a dir la verità, da esponenti di varie categorie sociali. Nicolò Mananga, ad esempio, un facoltoso greco di origine albanese, aveva fatto dono ai Padri di una chiesa costruita a sue spese nel 1597 a Piana dei Greci, assicurando anche “ogni necessaria assistenza” (397). Ancora una volta, quindi, risulterà interessante verificare l’evoluzione dei rapporti intervenuta nel corso degli anni fra i Padri e la società locale. Prima ancora, però, vale la pena dare uno sguardo ai tempi di realizzazione delle sedi conventuali. In genere i conventi sorgevano tutti nel centro dell’abitato o nelle immediate vicinanze. Solo quello esistente a Marsala era situato in luogo aperto e distante dalla strada pubblica, tanto da avere la sua infermeria distaccata, posta vicino le mura della città per poter offrire una migliore assistenza ai malati (398). A Palermo erano previsti globali rimaneggiamenti dei due conventi esistenti in città. Pur se dotati di tutti i locali necessari per una regolare osservanza della vita monastica (399), il successo arriso alla Congregazione li rendeva ormai insufficienti a far fronte alle esigenze richieste da due sedi di professorio e noviziato. Nel 1649 risultavano ultimate 18 celle e alcune stanze del nuovo complesso di S. Nicola da Tolentino e si era avviata la costruzione di un nuovo chiostro; era, comunque, impossibile prevedere la data di chiusura dei lavori perché subordinata alle elemosine dei benefattori (400). Ancora incerta, invece, risultava addirittura la data di inizio per quelli riguardanti il convento di S. Gregorio, anche se era già a disposizione una “gran quantità di fabrica nova” (401). Anche a Messina i conventi necessitavano ancora di qualche rimaneggiamento. I Padri avevano da tempo abbandonato le piccole case adiacenti alla chiesa di S. Restituta comprate con il denaro avuto in dono dall’arcivescovo Ruiz, ma il convento non sarebbe stato ultimato prima della creazione della provincia messinese, nel 1659, e per quello della SS.ma Annunziata era previsto un dormitorio nuovo (402). Tranne che a Trapani, dove la stessa affermazione dei relatori di avere una fabbrica “solo accomodata per l’habitatione” (403), lascia intuire la precarietà della sistemazione, altrove la situazione non differiva molto da quella riscontrata nei conventi maggiori. Le sedi, ampie e spaziose, erano per lo più quasi tutte ultimate, presentando solo qualche zona da completare. Ad Itala si stavano perfezionando le ultime quattro celle (404), così come a Piana dei Greci; a Caltanisetta erano in costruzione altri due dormitorii e a Gibellina erano i Padri stessi a dichiarare che con una spesa contenuta avrebbero ultimato il secondo dormitorio (405). A Partanna i religiosi occupavano ancora un ospizio messo a loro disposizione dal principe Graffeo, ma con velocità inaudita, nel giro di tre anni, “fabricando al più presto che si può”, avevano quasi ultimato i lavori del complesso conventuale (406). A Cammarata, infine, si sperava di vendere un “casamento” lasciato da un devoto per ampliare il convento (407). In molti casi i Padri continuavano ad officiare nelle chiese che erano state cedute loro dalle confraternite. Ciò avveniva a Trapani, ad Itala (408), nella SS.ma Annunziata di Messina, in quella palermitana di S. Gregorio, pur se definita di “struttura mediocre” (409). Di contro, era stato necessario abbattere quella intitolata a Santa Restituta per costruirne una più ampia (410). I lavori erano cominciati nel 1614 con una solenne cerimonia alla presenza delle maggiori autorità cittadine (411). Nel 1649 la chiesa presentava sette altari e cinque degli otto confessionarii previsti (412). A Piana dei Greci e a Cammarata le chiese non erano ultimate, ma per quella di S. Agostino si confidava in un legato del duca Branciforte per ultimarla al più presto (413). A Caltanisetta il complesso conventuale nella sua globalità doveva essere ultimato e tutto era subordinato alla “volontà e divotione dei benefattori e loro elemosine” (414). Soltanto a Marsala la chiesa, interamente nuova, risultava completata; una delle sue sei cappelle era sorta intorno alla grotta dove era stata “miracolosamente ritrovata” un’immagine della Madonna dell’Itria che “nell’inventione di essa fece miracoli per molto tempo” (415). A Partanna, così come era accaduto per il convento, anche i lavori per la chiesa erano andati avanti con celerità, tanto che nel 1649 risultavano perfezionate quattro cappelle e l’altare maggiore (416). È d’uopo, a questo punto, un rapido accenno alla varietà delle intitolazioni delle chiese degli Scalzi della provincia palermitana. Accanto a culti antichi, come quello di S. Restituta, ad altri di origine greco-bizantina, come quelli della Madonna dell’Itria, non mancavano intitolazioni a santi agostiniani o, addirittura, non erano mancati casi in cui - come quello verificatosi a Piana dei Greci - accanto al culto nicolaitico, riconducibile al monachesimo basiliano, si era affiancato quello dell’omonimo santo agostiniano da Tolentino. Inoltre la religiosità popolare siciliana definita come “la religiosità del Venerdì Santo” (417), aveva trovato la sua espressione anche nella chiesa annessa al convento degli Scalzi di Itala, per la quale i Padri avevano conservato l’intitolazione a S. Venera (418), cui era dedicata anche una delle quattro cappelle laterali della chiesa, mentre le rimanenti erano state dedicate alla Madonna della Sanità, a S. Nicola da Tolentino e a S. Marco (419). Credo sia evidente il criterio di scelta delle intitolazioni adottato dagli Scalzi: se, da un lato, c’è la conferma dei culti più diffusi nella zona (la Madonna della Sanità era ritenuta dispensatrice di grazie, S. Marco veniva festeggiato con una solenne processione proveniente dalla Cattedrale) di contro, emerge il tentativo di imporre i modelli di santità proposti dalla propria Congregazione. A quasi mezzo secolo dal loro insediamento in Sicilia, gli Scalzi si trovavano, quindi, ad occupare sedi conventuali nel complesso efficienti, anche se non del tutto perfezionate. Ancora una volta sarà l’esame del patrimonio a far luce sul tenore di vita condotto all’interno di esse e sui rapporti intrattenuti con il mondo laico. Nel 1649 il reddito complessivo della provincia ammontava a 13.353 scudi. Anche in Sicilia, così come riscontrato altrove, quello mobiliare aveva la maggiore incidenza con un valore pari all’87,8% dell’intero patrimonio. Seguivano il reddito rurale con un’incidenza del 10,3% e quello immobiliare con appena l’1,7%. Per i due conventi di Messina e per quello di Partanna le entrate immobiliari rappresentavano in assoluto l’unica forma di introito. Altrove i valori erano, comunque, molto elevati attestandosi intorno al 90%. Soltanto a Marsala e ad Itala il reddito mobiliare subiva una leggera flessione rispetto allo standard riscontrato nel resto della provincia, registrando un’incidenza pari, rispettivamente, al 52,9% e al 58,1% (420). Un esame dettagliato delle entrate mobiliari fa balzare ancora una volta in primo piano il ruolo assunto dalle elemosine che incidevano su di esso per il 90,7%, seguite dagli introiti derivanti dalla riscossione dei canoni censuari con il 7,6%, dai legati con l’1,3%, mentre gli investimenti in titoli del debito pubblico fruttavano un irrisorio 0,2% (421). Per il convento messinese di S. Restituta e per quello di Marsala le elemosine rappresentavano in assoluto l’unica forma di introito e per quello di Cammarata l’unico cespite di natura mobiliare. In tutto il resto della provincia il loro valore rimaneva elevato tanto che quello più basso - registrato nel convento palermitano di S. Nicola da Tolentino - era comunque pari all’81,5% del reddito mobiliare. Anche in Sicilia i Padri vivevano prevalentemente del frutto delle questue, ma quasi ovunque i governi locali ed i feudatari non facevano mancare il loro appoggio. Ad Itala era l’università a contribuire per il vestiario dei Padri (422), così come facevano a Marsala, a Partanna, a Trapani (423) e a Messina le autorità locali. In questa città, inoltre, intervenivano ad integrare lo scarso quantitativo di pane ricavato nel corso delle cerche effettuate dai Padri residenti nel convento della SS.ma Annunziata dove, per affermazione degli stessi religiosi, si viveva “in tutto e per tutto di elemosina” (424). A Caltanisetta (425), a Cammarata e a Partanna erano i feudatari del luogo a garantire la pietanza di carne (426). Non erano mancati, però, aiuti provenienti da semplici e sconosciuti benefattori quali, ad esempio, Girolamo di Leo, Francesco Catania, Antonio Foti e Ottavio Anzabone che avevano consentito ai Padri di S. Restituta di acquistare un giardino e alcune case per ampliare il convento (427). Né può mancare un accenno al dottor Natale Damiano il quale non solo aveva contribuito con una donazione di 1.500 scudi alla costruzione del convento di Itala, ma aveva destinato ai Padri di S. Venera la terza parte del suo patrimonio per consentire loro di vivere senza dover ricorrere alle questue (428). Insolite, se riferite al panorana peninsulare, ma consuete in Sicilia, appaiono le elemosine di tonnina fornite da molte università e legate all’industria del tonno che visse la sua stagione più fiorente nel primo settantennio del Seicento (429). In particolare, a Trapani erano le stesse tonnare a fornire agli Scalzi annualmente “pesci, tonni et altre robbe di salame” per un valore di quindici scudi (430). Redditi censuali erano presenti in molti conventi degli Scalzi pur se con un’incidenza minima sia a livello provinciale (pari al 7,6% dell’intero reddito mobiliare), che locale, dove si passava dallo 0,5% registrato a Caltanisetta al 18,4%, del convento palermitano di S. Nicola da Tolentino. In genere si trattava di censi indistinti per i quali non ci è nota l’operazione che aveva dato origine alla percezione del censo di cui godevano gli Scalzi (431). Soltanto i Padri del convento di S. Venera parlano espressamente di censi bollari contratti con alcune persone del luogo (432), ma, in genere, si può ritenere che anche in Sicilia si trattasse, comunque, di prestiti ad interesse garantiti sui beni di alcuni privati per i quali gli Scalzi avevano funto da sostegno finanziario. Gli investimenti in titoli del debito pubblico non avevano lusingato i Padri siciliani, nonostante già da tempo fosse stata messa in atto dal governo spagnolo una politica finanziaria che aveva determinato anche in Sicilia una vasta espansione del debito pubblico dello Stato (433). Il processo di indebitamento di questo verso il capitale privato, soprattutto genovese, si era accresciuto in maniera impressionante e il governo di Madrid, impegnato nella guerra dei Trenta anni, a partire dal 1634 aveva cominciato a vendere tutti i cespiti finanziari di cui poteva disporre nell’isola. Una timida iniziativa era venuta dal convento di Partanna, ma altrove nessuno aveva pensato di inserirsi nel giro degli appalti statali. Prudenza, paura o, ancora, impossibilità? Probabilmente le tre motivazioni possono essere tutte reali. Se, da un lato, l’avventura finanziaria poteva lusingare per i possibili utili ad essa connessi, dall’altro era considerata un’impresa troppo rischiosa da parte di religiosi che disponevano, per lo più, soltanto dei proventi delle questue e non erano, di conseguenza, in grado di poter competere con operatori finanziari di ben altra levatura. Né è da escludere che le difficoltà sempre più crescenti incontrate da parte del governo spagnolo di poter saldare la massa dei debiti contratti, diveniva agli occhi degli Scalzi un deterrente che li induceva ad estraniarsi dalla vita finanziaria (434). Un comportamento analogo è stato riscontrato anche nei Teatini residenti nell’isola al momento dell’inchiesta innocenziana (435). Semplice casualità o espressione di una tendenza comune anche ad altri Ordini religiosi con sedi in Sicilia nel 1649? Per quanto concerne il reddito proveniente da beni rurali, esso costituiva appena il 10,3% dell’introito generale della provincia. In realtà, anche a livello dei singoli conventi l’incidenza sul reddito locale era scarsa, tanto che il 39,9% registrato ad Itala risultava l’eccezione di uno standard che si attestava fra un minimo dell’1,3 % registrato per il convento palermitano di S. Gregorio ed un massimo del 18,1% per il convento della Madonna dell’Itria di Marsala. In Sicilia però, a differenza di quanto riscontrato nelle altre province, quasi tutti i conventi possedevano appezzamenti di terra destinati a produrre per l’autoconsumo o per il mercato. Per lo più si trattava di orti o giardini posti nella clausura o immediatamente vicini al convento, classici esempi di viridaria, l’espressione più tipica del giardino mediterraneo. I Padri, infatti, avevano saputo trarne il massimo del rendimento convertendoli per lo più a frutteti e ad agrumeti e destinandoli, nel contempo, a luogo di ricreazione e di svago per se stessi. A Marsala, ad esempio, nel giardino contiguo al convento della Madonna dell’Itria non solo erano stati piantati ben 33 alberi di olive, 60 meli, pergolati, ortaggi, ma era attiva anche una coltura di api con 14 arnie. Lo stesso era accaduto a Piana dei Greci dove nel chiostro, accanto a frutteti e pergolati, c’erano 20 arnie (436). Particolarmente ameni dovevano risultare i giardini di proprietà dei Padri dimoranti a Caltanisetta e a Cammarata: l’uno “con suoi passeggi di cipressi d’una parte e l’altra”, con fontana e acqua zampillante e pieno di alberi da frutta e l’altro “con suoi passeggi, acqua corrente e pergoliti a torno” (437), mentre i Padri di Itala non esitavano a definire il proprio come “il più bello che ha e che domina la terra” (438). Non è stato possibile risalire mai al titolo di proprietà dei vari appezzamenti ed anche per quanto riguarda la loro gestione è lecito supporre una conduzione diretta con il supporto di qualche lavorante stagionale (439). Un caso a sé è rappresentato dai Padri residenti nel convento palermitano di S. Nicola che con i loro 100 ettari di terreno potevano essere considerati a pieno titolo dei veri e propri proprietari terrieri. Gli appezzamenti erano dislocati nelle contrade vicine e quelli situati a Petralia erano provvisti di un fondaco di cui, però, ci è ignota la funzione. Inutile cercare di risalire all’origine di queste proprietà in quanto l’unico riferimento è a un legato di una certa Maria Porcaro (440). Anche i Padri palermitani non avevano saputo rinunciare al loro giardino “tutto pieno d’alberi di merangole, limoni e frutti di varie sorti, con suoi pergoliti a torno, pischiera grande con sua acqua corrente in quantità, suo casamento con moltissime stanze”, situato a due miglia dalla città. Destinato a luogo ricreativo, gli Scalzi riuscivano comunque a ricavare 125 scudi dai prodotti della terra (441). Probabilmente anche in questo caso i religiosi avevano preferito ricorrere alla gestione diretta, dal momento che l’affitto era contemplato soltanto per i terreni più distanti dalla città e, di conseguenza, più difficilmente raggiungibili. Con ogni probabilità gli Scalzi avevano fatto ricorso alla cosiddetta “colonna a borgenzatico”, una forma di affitto diffusa in Sicilia in base alla quale il proprietario non solo consegnava all’affittuario una parte del terreno riposato, ma anche la totalità delle scorte, consentendogli di coltivarlo a suo vantaggio e ricevendone in cambio un canone annuo in denaro o in natura (442). Grano, uva e olive erano le colture prevalenti e tutto lascia supporre che i Padri avessero dato vita ad un sistema di produzione per il mercato locale. Di certo venivano vendute olive e frumento (443) e per quest’ultimo l’operazione era condotta da un devoto il quale, gratuitamente, “esigeva, ingabellava, riponeva, sistemava e vendeva” il prodotto (444). Difficile poter ravvisare in lui un gabelloto, ma l’estensione dei sistema della gabella anche ai seminativi, in atto già dal Cinquecento, autorizza a supporlo (445). Inoltre i Padri avevano dato vita ad una vera e propria azienda vinicola dove erano previste tutte le fasi di produzione del vino: dall’impalare le pergole, al vendemmiare, pigiare l’uva, “consare” le botti, “tramettare” il vino. Quattro garzoni erano i salariati fissi, mentre si faceva ricorso a cottimisti per svellere i tralci verdi inutili e spampinare (446). Indubbiamente non siamo di fronte ad un’emula delle grandi aziende gesuitiche siciliane che facevano ricorso a manodopera salariata (447) ma, di certo, anche gli Scalzi contribuirono a fornire un’occasione di impiego agli abitanti del luogo. A metà Seicento la cerealicoltura era ancora fiorente in Sicilia pur se, ormai, l’esportazione del grano stava subendo una forte flessione (448). Oltre al convento palermitano di cui si è fatta menzione, anche i conventi di Marsala, di Caltanisetta e di Gibellina fanno riferimento ad alcuni seminativi. La loro gestione è, senza dubbio, in economia e l’indicazione del ricorso a due anni di semina alternati ad uno di maggese nudo riflette l’arcaicità dei sistemi di rotazione della cerealicoltura (449). Seguivano la viticultura, che aveva conosciuto una enorme diffusione nella seconda metà del sedicesimo secolo (450), e l’olivicultura. Un’analisi delle colture privilegiate dai Padri isolani conferma questa graduatoria (451). Si ricordano, a mo’ di esempio, le sei piccole vigne e i quattro oliveti di proprietà dei Padri di Itala che producevano 38 barili di vino e 32 cafisi d’olio, la vigna situata all’interno del convento di Gibellina che forniva 120 barili di vino e quella del convento di S. Restituta in Messina. A pari merito si inserisce la coltivazione del gelso. Nella seconda metà del Cinquecento la sericoltura si era diffusa in varie zone dell’isola e a fine secolo persino in quelle più interne (452). Anche gli Scalzi non rimasero estranei a questo fenomeno e in varie zone traevano profitti da gelseti di loro proprietà. L’industria leader nel campo della seta era stata quella messinese ed anche nel corso del Seicento la zona orientale della Sicilia conservava con ogni probabilità il primato della produzione se, come accadeva ad Itala, non solo i Padri riuscivano a ricavare 100 cantara di fronde dai loro 4 gelseti, ma era la stessa università a fornire ai Padri elemosina di seta (453). Un ultimo accenno va al bestiame di proprietà degli Scalzi. In Sicilia l’allevamento di ovini era stato sempre privilegiato rispetto a quello dei bovini per la natura stessa dei pascoli e soprattutto perché non richiedeva grossi capitali iniziali (454). Nonostante ciò, però, già alla fine del Quattrocento i contrasti fra pastori e coltivatori erano divenuti più accesi di fronte all’avanzata dell’arativo, causata dalla forte domanda di grano (455). Nel 1649 soltanto i Padri di Cammarata possedevano un gregge di 170 pecore probabilmente affidato in soccida, così come le due vacche dei Padri di Marsala (456), mentre nelle altre sedi il bestiame era utilizzato unicamente per i servizi dei conventi e la coltivazione delle terre. Il reddito immobiliare costituiva la componente più bassa dell’intero patrimonio, con il suo 1,7%. Anche a livello locale l’incidenza era minima con la punta massima del 3,5% e del 3,4% registrata nei due conventi palermitani di S. Nicola e di S. Gregorio. Qui gli Scalzi erano proprietari, rispettivamente, di 19 e 9 immobili, concessi in affitto, con una rendita annua di 163 e di 30 scudi. Molto meno fruttavano ai Padri di Marsala le 13 casette possedute, da cui riuscivano a trarre poco più di 4 scudi (457). Indubbiamente la crescita demografica di Palermo aveva fatto lievitare i costi delle case ed i canoni di locazione. Un’ulteriore conseguenza della massiccia immigrazione dalla campagna era stato il fenomeno del pauperismo che era esploso in tutta la sua gravità agli inizi del Seicento. Gli Scalzi non rimasero insensibili di fronte a tale problema, tanto da destinare un loro fondaco ad alloggio per i viandanti (458). Al di là della importanza rivestita dalle elemosine anche per la costituzione del patrimonio degli Scalzi siciliani, credo sia interessante soffermarsi su un dato emerso dall’analisi finora condotta e che sembra caratterizzare i conventi isolani, vale a dire la costante presenza della proprietà rurale. È pur vero che, tranne che nel caso dei Padri residenti a Palermo, non si può parlare di grossi proprietari terrieri ma, di contro, non si può neppure dimenticare che fra il 1634 ed il 1639 il patrimonio fondiario della Chiesa in Sicilia era notevolmente aumentato grazie a lasciti e donazioni, a scapito di quello privato (459). Per quanto concerne le spese sostenute dagli Scalzi siciliani si ripropongono le stesse considerazioni fatte per le altre zone della Penisola. Vitto, vestiario e sacrestia rappresentavano in assoluto l’onere maggiore, pari al 78,3% del totale delle uscite, cui partecipavano, rispettivamente, per il 60%, l’11,6% e il 6,8% (460). Dall’analisi dei dati forniti dalle relazioni si è desunto che, in genere, il sostentamento alimentare di ciascun religioso comportava in media una spesa di circa 40 scudi, con un’incidenza, sul totale della uscite di ciascun convento, compresa fra un massimo del 78,2% a Piana dei Greci ed un minimo del 50,4% registrato nel convento messinese di Santa Restituta. Meno onerose risultavano le spese per il vestiario anche in virtù delle elemosine di tessuto elargite dai fedeli. Spese per gli arredi liturgici e per quanto necessario alla sacrestia erano presenti in tutti i conventi pur se con un incidenza scarsa sia a livello provinciale che locale, tanto che la punta massima era dell’11,6%, raggiunta dal convento palermitano di S. Nicola. Soltanto i Padri palermitani e di Caltanisetta affermavano di impiegare denaro per festività religiose (461), ma questo non autorizza a credere che ciò non avvenisse anche altrove. Il rimanente 21,3% delle spese sostenute a livello provinciale era variamente suddiviso fra quelle necessarie per partecipare ai Capitoli generali, per mantenere un’infermeria, per acquistare suppellettili per il convento, per provvedere ai garzoni che lavoravano al servizio dei Padri. Completamenti assenti erano quelle inerenti all’acquisto di libri, di cui non c’è traccia neppure nelle sedi di noviziato e professorio. In più di un caso gli Scalzi erano tenuti a versare annualmente canoni censuari sia a privati che ad enti religiosi. In cerca di sostegni finanziari, a Messina gli Scalzi della SS.ma Annunziata si erano rivolti, fra l’altro, alla compagnia della Madonna del Piorello, mentre per quelli di Trapani gli enti erogatori erano stati l’ospedale cittadino e quello di Salemi. Ben diversa era invece la situazione in cui si erano trovati coinvolti i Padri di Palermo, costretti a corrispondere a monasteri e ad ospedali censi non contratti da essi stessi, ma gravanti sui terreni donati loro dalla Porcaro e dal Giambruno (462). Ma, al di là di tutto ciò, emerge ancora una volta il ruolo di primaria importanza che la struttura ecclesiastica rivestiva nei vari contesti economici locali, attraverso l’attività creditizia svolta da organismi da essa controllati come i conventi, gli ospedali, le Corporazioni, le chiese. Se, infatti, nei rapporti finanziari intercorrenti fra conventi è possibile ipotizzare una operazione di “mutuo soccorso”, il discorso assume tutt’altra valutazione quando i contraenti erano un laico ed un ecclesiastico, legati da un rapporto di dipendenza il primo dall’altro. A metà del XVII secolo, quindi, gli Scalzi siciliani apparivano perfettamente integrati nei vari ambiti locali. Globalmente la Congregazione contava nell’isola 216 suoi rappresentanti, per lo più siciliani o provenienti, comunque, dalla zona meridionale della Penisola (463). La maggiore densità demografica era raggiunta nel convento palermitano di S. Nicola. Qui, infatti, risiedeva il 25,9% dell’intera popolazione monastica della provincia composta per il 42,5 da sacerdoti. Particolarmente elevata era la presenza dei “laici” che, in più di un caso, eguagliava, se non addirittura superava, quella sacerdotale. Il fenomeno risultava rilevante specialmente nel convento di S. Gregorio (47,3% di laici contro il 26,3% di sacerdoti), in quello di Trapani (40,9% contro il 36,3%) ed in quello di Marsala (35,7% contro il 28,5%). D’altra parte la presenza “laica” nella sua globalità provinciale rappresentava il 40,7% contro il 12% dei chierici e professi e l’1,3 % dei novizi (464). Per quanto riguarda la provenienza geografica di coloro che risiedevano nei conventi siciliani è inevitabile riscontrare un vero e proprio “isolamento”. Soltanto il 4,6% dei religiosi, infatti, proveniva dal continente. Per il resto, il 40,3% era indigeno e il 54,16% proveniva da zone limitrofe al convento, fino a raggiungere la punta massima in tal senso (100%) nel convento di Enna (465). Purtroppo non è stato possibile seguire la fluttuazione demografica nella provincia siciliana nel corso del secolo, se non a grandi linee. Non è però casuale che proprio nei due ultimi conventi citati si era verificato un forte calo numerico rispetto all’organico prefissato (rispettivamente di 7 e di 16 unità) ma, probabilmente, ci si avviava ora ad una nuova fase di crescita. Un incremento demografico è invece documentato per il convento di S. Restituta dove le potenziali 30 unità auspicate già nel 1649, diventeranno 60 effettive presenze nel 1700 (466). A Partanna, infine, dove al momento dell’inchiesta vivevano soltanto in 3 poiché erano ancora in corso i lavori di costruzione del convento, imperava un acceso ottimismo dovuto alla consapevolezza di risiedere in una terra capace “di mantenere il numero di quindici frati per essere abbondante di pane, vino, legumi, cera et altre cose necessarie” (467). Al contrario, ad Itala si constatava che in 9 si era in troppi e che per vivere bene non si sarebbero dovute superare le 8 unità (468). In effetti, il bilancio del convento di S. Venera si chiudeva con un passivo di 79 scudi e in passivo era il bilancio di tutta la provincia. Particolarmente grave risultava la situazione nel convento messinese di S. Restituta con un deficit superiore ai 1.000 scudi. Eppure, non solo non erano mancati sostegni ed aiuti ai Padri da parte dei fedeli e delle autorità locali, ma gli stessi Scalzi avevano dimostrato di saper trarre il massimo rendimento dalle terre di loro proprietà, sia producendo per l’autoconsumo, sia per il mercato (469). In effetti, tutto ciò non era comunque bastato a preservarli dalla generale recessione economica.

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(372) Cfr. A.G.A.S., P. EPIFANIO DI S. GERONIMO, Croniche..., cit., ff. 165-166 e G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., pp. 44-45.

(373) Cfr. Tabella XXII.

(374) Cfr. Tabella XXIII.

(375) Gli si oppose un notaio, proprietario di una casa attigua alla chiesa, il quale poco tempo dopo fu ucciso in un agguato rimasto impunito. Cfr. GB. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., cit., pp. 53,81 e A.G.A.S., P. EPIFANIO DI S. GERONIMO, Croniche..., cit., f. 169.

(376) Qui i confratelli erano soliti seppellire i morti giustiziati, dopo aver provveduto a rimuovere le salme dal patibolo e a vestirle con i sacchi. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 13, f. nn. La prima confraternita messinese che si occupò dell’assistenza ai condannati a morte fu quella degli Azzurri, sorta nel 1542. Cfr. A. SINDONI, Le confraternite in Sicilia in età moderna, in V. PAGLIA (a cura di), La sociabilità religiosa nel Mezzogiorno: le confraternite laicali, numero monografico di “Ricerche di storia sociale e religiosa”, 1990, p. 325. L’assistenza ai carcerati costituì per la Chiesa e per il laicato associato alle confraternite un vero e proprio impegno per salvare le anime dei condannati. Per l’opera svolta a tal fine dalle confraternite romane si ricordano gli studi di V. PAGLIA, La pietà dei carcerati”: confraternita e società dei carcerati a Roma nei secoli XVI-XVII, Roma 1980; IDEM, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Roma 1982; IDEM, Le confraternite e i problemi della morte a Roma nel Sei-Settecento, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 1984, pp. 197-220. Per il soccorso morale e spirituale portato ai condannati a morte dai “confortatori” in Italia dal ‘400 in poi e per le istruzioni relative al loro operato, cfr. A. PROSPERI, Il sangue e l’anima. Ricerche sulle Compagnie di giustizia in Italia, in “Quaderni storici”, 51, 1982, pp. 959-999. Per l’opera di “conforteria religiosa” esercitata a Napoli dalle compagnie di giustizia nell’età moderna, cfr., fra gli altri, G. PANICO, Il carnefice e la piazza. Crudeltà di Stato e violenza popolare a Napoli in età moderna, Napoli 1985, pp. 91 sgg.; G. ROMEO, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 1993 e G. NOTARI, La Compagnia dei Bianchi della Giustizia: l’assistenza ai condannati a morte nella Napoli moderna, in C. RUSSO (a cura di), Chiesa, assistenza e società nel Mezzogiorno moderno, Galatina, 1994, pp. 281-371.

(377) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 13, f. nn. Nel 1649 le due ultime clausole erano ormai decadute. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 11.

(378) Cfr. A.G.A.S., P. EPIFANIO DI S. GERONIMO, Croniche..., cit., f. 173 e A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 13, f. nn.

(379) La processione per l’insediamento in S. Restituta si svolse il 31 agosto 1611. Quella dell’8 settembre 1614 in occasione dell’entrata nella chiesa dell’Annunziata fu “molto compita ... accompagnata dalli principali signori di Messina e con diversi strumenti musicali” e passando davanti al porto, per ordine del principe Filiberto “le galere e gl’altri vascelli tutti, posti in ordinanza pomposamente con i stendardi e bandiere distese fecero scaricata reale de’ loro cannoni, e parimente la soldatesca, ivi squadronata, dell’arme loro da fuoco, per ordine del viceré presente”. Cfr. A.G.A.S., P. EPIFANIO DI S. GERONIMO, Croniche..., cit., ff. 170-172 e G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., p. 81.

(380) I notai palermitani avevano concesso agli Agostiniani la vecchia chiesa di S. Maria del popolo con l’abitazione annessa, di loro proprietà. I Padri ne avevano in seguito cambiato l’intitolazione in quella di S. Nicola da Tolentino. Cfr. ivi, p. 631. Nel 1609 Pietro Ferraro, Luigi Nicosia e Simeone Lovalo, rettori della confraternita dei musici di Palermo, avevano ceduto agli Agostiniani la chiesa di S. Gregorio di loro proprietà, situata vicino la porta di Carini. Cfr. ivi, p. 52.

(381) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 14, ff. nn.

(382) Già nel 1613 una confraternita aveva promesso ai Padri la sua chiesa di S. Maria della Luce; nel 1620 poi, i consoli della confraternita dei “ferrai, cortellari e chiavattieri” avevano concesso la loro chiesa. In entrambi i casi, però, avevano rescisso il contratto. Cfr. G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., pp. 193-194.

(383) Al di là delle più che lecite richieste di assistenza spirituale, i confratelli pretesero che tutti i legati senza una ben definita destinazione spettassero alla confraternita e inoltre gravarono i Padri del pagamento di un censo annuo all’ospedale di Salemi. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 18.

(384) Non bisogna dimenticare che a metà Seicento in Sicilia operavano circa 1.300 confraternite. Cfr. S. CUCINOTTA, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra Cinque e Seicento, Messina 1986, pp. 246-247.

(385) Basti qui ricordare, a mo’ di esempio, le richieste avanzate dalla confraternita messinese della SS. Annunziata per comprendere l’importanza riconosciuta agli Ordini nel loro ruolo di indottrinatori e guide dei fedeli. Gli Scalzi, infatti, avrebbero dovuto celebrare gli uffici divini e le messe quotidiane, confessare, assistere gli infermi e predicare. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 15.

(386) La chiesa di S. Maria delle Grazie era sorta intorno alla grotta dove un certo Angelo Vasapozzi aveva deposto nel 1617 una statua della Vergine dipinta dal Monrealese e che egli stesso era riuscito a ricomporre “miracolosamente” dai frantumi causati da una caduta. Divenuto un importante luogo di culto, i confratelli di Nostra Signora del Carmelo vi avevano trasferito la statua della Vergine conservata nella chiesa di S. Maria Annunziata, di proprietà dei Carmelitani. Da quel momento la piccola chiesa aveva cominciato ad ingrandirsi sempre di più e ad alimentare velleità di gestione da parte dei Carmelitani. Subentrati gli Scalzi, ai Carmelitani fu concesso unicamente di riappropriarsi della statua che era stata sottratta dalla confraternita. Cfr. G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., pp. 218-219.

(387) In seguito, però, il barone diventerà uno dei maggiori sostenitori degli Scalzi tanto da chiedere di essere sepolto nella loro chiesa e vestito con l’abito dei Padri. Cfr. ivi, p. 261. Per quanto concerne l’evoluzione delle modalità delle esequie e della scelta dei luoghi di sepoltura da parte della nobiltà meridionale nel corso dell’età moderna, cfr. M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, 1988, pp. 107 sgg.

(388) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 21 e G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., p. 261.

(389) Cfr. ivi, p. 368.

(390) Cfr. G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Viceregno al Regno, in Storia della Sicilia, VI, Napoli, 1978, pp. 65-66.

(391) Per quanto concerne la produzione più recente sul fenomeno confraternale nella sua globalità peninsulare si ricordano, fra gli altri ed oltre agli studi già citati: Le confraternite in Italia tra Medioevo e Rinascimento, numero monografico di “Ricerche di storia sociale e religiosa”, 1980; L. BERTOLDI LENOCI, Le confraternite pugliesi ..., cit., voll. 2, Bari 1988-1989 e l’interessante panorama offerto sulla situazione italiana da C.F. BLACK, Italian confraternities in the sixteenth century, Cambridge, 1989.

(392) Ciò avverrà, ad esempio, a Piana dei Greci. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 29v.

(393) Cfr. A.S.V., ivi, f. 35.

(394) Cfr. A.S.V., ivi, f. 26.

(395) Il duca si era impegnato a fornire annualmente ai Padri la pietanza di carne, una botte di vino, un cantato d’olio, un cantato di cacio e cinquanta libbre di cera. Cfr. A.S.V., ivi, f. 43v.

(396) Cfr. A.S.V., ivi, f. 29v.

(397) Cfr. G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., pp. 114-115.

(398) Il locale, preso in affitto, comportava una spesa di scudi 8, pagabili entro il 1651. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 21v., 23v.

(399) Degna di nota è la presenza in alcuni conventi della “comunità” una stanza dove conservare “le robbe del convento, vestimenti di frati e vestimenti delli novitii quando erano secolari”. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 7v., 8v., 25, 39, 43.

(400) I relatori affermavano con rassegnazione che “in quanti anni si possa finire, Deus scit”. Cfr. A.S.V., ivi, f. 4.

(401) Anche in questo caso tutto veniva subordinato al volere divino. Infatti, “quando a Dio piacerà di mandare l’elemosina, si farà e si compirà”. Cfr. A.S.V., ivi, f. 7v., 8v. Nel 1700 non sarà ancora ultimato. Cfr. G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cii., p. 53.

(402) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 13, ff. nn. e A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 15v.

(403) Cfr. A.S.V., ivi, f. 18.

(404) Alla costruzione del convento, resa particolarmente “onerosa” dalla natura scoscesa del sito, avevano contribuito attivamente gli abitanti del luogo portando sabbia dal fiume e impastando la calce. Nel 1658 sarebbe risultato ultimato e provvisto di tutti i locali necessari alla vita monastica. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 14, ff. nn.

(405) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 33, 29v., 39, 25.

(406) Cfr. A.S.V., ivi, f. 35.

(407) Cfr. A.S.V., ivi, f. 44v.

(408) La chiesa continuò ad essere sotto la giurisdizione dell’archimandrita diocesano. Cfr. A.S.V., ivi, f. 33.

(409) Cfr. A.S.V., ivi, f. 7.

(410) Nella zona orientale della città ne fu costruita una intitolata a S. Giovanni Battista e ceduta alla confraternita dei giustiziati per svolgere la sua attività. Cfr. G.B. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., p. 54.

(411) L’arcivescovo aveva benedetto la prima pietra e il viceré aveva gettato nelle fondamenta una gemma. In seguito il senato fece aprire davanti alla chiesa una piazza molto vasta con una fontana al centro. Cfr. ibidem.

(412) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 11.

(413) Francesco Branciforte aveva lasciato a tale scopo 320 scudi. Cfr. A.S.V., ivi, f. 44v.

(414) Cfr. A.S.V., ivi, f. 40.

(415) Cfr. A.S.V., ivi, f. 21.

(416) Cfr. A.S.V., ivi, f. 35v. Nel 1658 verrà dato inizio ad una nuova chiesa. Cfr. GB. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., p. 369.

(417) A livello fenomenologico la religiosità siciliana si sofferma più sul mistero del Cristo morto che non sul Cristo risorto. Cfr. A. SINDONI, Il tramonto dell’antico regime in un’area centrale della Sicilia, Roma, 1977, pp. 72-75, 211-217.

(418) A Lecce, al contrario, già a fine Cinquecento la devozione di S. Venera risulta in netto declino. Cfr. M.A. VISCEGLIA, Territorio feudo..., cit., pp. 282-283.

(419) L’altare maggiore era dedicato a S. Agostino. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 14, f. nn.

(420)  Cfr. Tabella XXIV.

(421)  Cfr. Tabella XXV.

(422)  Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 33v.

(423) A Partanna l’università forniva anche due barili di tonnina ogni anno. Da tre anni il senato cittadino trapanese versava, però, soltanto la metà del contributo previsto per il vestiario e per l’olio. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 36, 19, 22.

(424) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 13v., 16.

(425) Il 30 ottobre 1630 i Padri di Caltanisetta inviarono a Roma una seconda relazione, dal momento che ritenevano andata smarrita quella scritta nel febbraio, presentata alla Congregazione sullo Stato dei Regolari separatamente dalle altre. Nella seconda stesura dichiararono di ricevere elemosine in cibo anche dai giurati della città in occasione delle festività natalizie, pasquali e durante l’Avvento e la Quaresima. È inoltre da rilevare che l’importo totale delle elemosine ascendeva a 323 scudi, contro gli 843 denunciati a febbraio. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, ff. nn.

(426) In particolare, il principe di Partanna aveva garantito la fornitura di carne anche se nel tempo fosse aumentato il numero dei residenti. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 43v., 36.

(427) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 13, ff, nn.

(428) Il suo desiderio non fu mai realizzato perché un sicario lo uccise prima che venissero ratificate le sue volontà. Cfr. A.S.R., ivi, fasc. 14, f. nn.

(429) Cfr. O. CANCILA, L’economia della Sicilia. Aspetti storici, Milano, 1992, pp. 45 sgg.

(430) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 19v.

(431) Sappiamo soltanto che i Padri del convento palermitano di S. Gregorio erano subentrati all’omonima confraternita nella riscossione di alcuni censi. Di questi, uno in particolare veniva riscosso ciclicamente per un triennio, risultando devoluto, in quello successivo, ad un maritaggio. Cfr. A.S.V., ivi, f. 8.

(432) Cfr. A.S.V., ivi, f. 33v.

(433) Cfr. G. GIARRIZZO, op. cit., p. 111.

(434) Per quanto concerne la politica finanziaria attuata in Sicilia dal governo spagnolo, le varie forme di indebitamento dello stato e il ruolo avuto dai mercanti-banchieri in qualità di maggiori operatori del settore, cfr. R. GIUFFRIDA, La politica finanziaria spagnola in Sicilia da Filippo II a Filippo IV, in “Rivista Storica Italiana”, 1976, pp. 310-341.

(435) Cfr. M. CAMPANELLI (a cura di), I Teatini, cit., pp. 60-61.

(436) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 22v, 30. Nei primi decenni del Cinquecento tutte le campagne intorno a Marsala erano ricche di viridaria che alimentavano una fiorente apicultura. Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palermo, 1983, p. 88.

(437) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 39v., 43v.

(438) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 14, f. nn.

(439) Soltanto i Padri residenti a Piana dei Greci e quelli del convento palermitano di S. Gregorio fanno riferimento ad un contratto d’affitto per un giardino e un orto di loro proprietà situato nella contrada Parco. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 30, 8.

(440) Cfr. A.S.V., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, f. nn.

(441) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 3. Nella relazione conservata presso l’Archivio di Stato di Roma i Padri fanno riferimento ad un secondo giardino ad uso dei religiosi situato nella contrada Altarello di Badia e coltivato ad arance e limoni. Donato dal dottor Pietro Giambruno era gravato da svariati censi dovuti al convento di S. Zita, alla chiesa di S. Vito lo Capo e all’ospedale di Palermo iure proprietatis, e da una ipoteca sui beni del donatore da versare al Monte di Pietà. Per la sua conduzione si faceva ricorso ad un garzone e ad uno zappatore salariati, oltre al “continuo travaglio di un frate”. E’ da notare che fra le spese di gestione era inserita quella dell’acqua “straordinaria” nei casi in cui la quantità impiegata solitamente per irrigare il giardino si fosse rivelata insufficiente. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, f. nn. È chiaro il riferimento alla piaga della siccità, documentata con dovizia di particolari soprattutto per il sedicesimo secolo. Cfr. C. TRASSELLI, La siccità in Sicilia nel XVI secolo, in “Rivista di storia dell’agricoltura”, 1970, pp. 27-41.

(442) Cfr. G. GIORGETTI, Contadini e proprietari..., cit., p. 73.

(443) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 3.

(444) Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, f. nn.

(445) Per quanto concerne il ruolo assunto dal gabelloto nell’economia siciliana nel corso dell’età moderna, cfr. O. CANCILA, Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna, Roma-Bari, 1980, pp. 22 sgg. e IDEM, Baroni e popolo..., cit., p. 170.

(446) Il vigneto in questione si trovava in una contrada di Palermo ed era stato donato dal Giambruno. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose machili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, f. nn.

(447) Cfr. O. CANCILA, Impresa redditi mercato..., cit., p. 190.

(448) Il fenomeno non era imputabile ad una diminuzione della produzione, ma ad un maggior consumo interno ed alla forte concorrenza di altri grani di costo inferiore. Il calo demografico europeo registrato nella seconda metà del Seicento giunse a peggiorare la situazione. Cfr. IDEM, L’economia della Sicilia..., cit., p. 29. Nella seconda metà del secolo successivo il grano tornerà ad essere il prodotto siciliano più esportato. Cfr. IDEM, Impresa redditi..., cit., pp. 264, 285.

(449) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 25v. Sulla arretratezza delle tecniche di rotazione nella Sicilia moderna, cfr. C. CALDO, Territorio strutture urbane e rurali, in Storia della Sicilia, cit., VII, 1978, pp. 14-15.

(450) Nei primi decenni del Cinquecento la zona fra Palermo e Monreale si riempì di oliveti e vigneti che guadagnarono terreno a spese della canna da zucchero. Nel corso del secolo si intensificò l’espansione della viticultura che finì col risolversi nelle campagne di Palermo in una “ecatombe di ulivi”. Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo..., cit., pp. 77,80. Le ragioni della conversione colturale sono da rintracciare nell’incremento demografico della città che aveva provocato una maggiore domanda di generi di prima necessità tra cui il vino, l’energetico più usato dalle classi subalterne. Cfr. IDEM, Impresa redditi..., cit., p. 141.

(451) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 33v., 25v., 11v.

(452) L’espansione della gelsicultura si era avviata nel corso del Cinquecento, con conseguente aumento della produzione e della esportazione di seta grezza. Nella seconda metà del secolo erano stati impiantati opifici e manifatture a Trapani e a Palermo e a fine secolo la seta veniva prodotta anche in zone notoriamente dedite alla pastorizia. Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo..., cit., pp. 85-86. Nel corso del Seicento la seta era il prodotto più esportato dalla Sicilia. Cfr. IDEM, Impresa redditi..., cit., p. 276.

(453) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 33v.-34. Credo che le prediche svolte nella chiesa di S. Venera nel giorno della festività di S. Marco, per indurre i fedeli alla preghiera e ad una sana condotta di vita nella speranza di ottenere una “buona raccolta della seta” siano indicative della rilevante importanza che la gelsicoltura rivestiva per l’economia del luogo. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 132, fasc. 14, f. nn.

(454) Mentre l’allevamento degli ovini veniva praticato a livello familiare da pastori che mettevano in comune i propri animali, al contrario, quello degli ovini era gestito da capitalisti che facevano ricorso a salariati esterni. Per un esempio di funzionamento di un’azienda pastorale alla fine del Seicento, cfr. O. CANCILA, Impresa redditi..., cit., pp. 215 sgg.

(455) Cfr. IDEM, Baroni e popolo..., cit., pp. 31-32.

(456) Il ricavato dalla vendita delle pecore serviva a far proseguire i lavori di costruzione del convento. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 44, 22v.

(457) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 3, 8, 22.

(458) Cfr. A.S.V., ivi, f. 2v. Il pauperismo finiva con l’alimentare vagabondaggio e prostituzione. Tarda ed insufficiente era stata la risposta fornita dalle autorità locali per combattere queste piaghe. Il primo “rifugio” per i poveri, infatti, aprì a Palemo soltanto nel 1605. Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo..., cit., p. 208. Fra la più recente e ricca produzione relativa al fenomeno del pauperismo, al suo nascere e diffondersi e alle soluzioni adottate per combatterlo, sia in Italia che in Europa, si ricordano, fra gli altri, oltre al già citato volume a cura di G. POLITI, M. ROSA, F. DELLA PERUTA, Timore e carità...,; M. ROSA, Chiesa, idee sui poveri e assistenza in Italia fra ‘500 e ‘700, in “Società e Storia”, 1980, pp. 775-806; E. SORI (a cura di), Città e controllo sociale in Italia tra XVIII e XIX secolo, Milano, 1982; F. BARONCELLI-G. ASSERETO, Sulla povertà. Idee, leggi, progetti nell’Europa moderna, Genova 1983; B. GEREMEK, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna (1350-1600), Roma, 1985; IDEM, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1986; C. LYS-H. SOLY, Povertà e capitalismo nell’Europa pre-industriale, Bologna 1986; S.J. WOOLF, Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna, Roma-Bari, 1988; B. GEREMEK, La stirpe di Caino, Milano 1988; G. BOTTI, L. GUIDI, L. VALENZI (a cura di), Povertà e beneficenza tra Rivoluzione e Restaurazione, Napoli, 1990.

(459) I Gesuiti risultarono nel novero dei religiosi più ricchi. Cfr. O. CANCILA, L’economia della Sicilia..., cit., pp. 88 sgg.

(460) Cfr. Tabella XXVI.

(461) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 4, 8v., 40v.

(462) Si trattava di rapporti finanziari contratti inizialmente dagli stessi legatari che avevano garantito il pagamento annuale dei censi sulle terre poi donate agli Scalzi. Un censo era dovuto al monastero di Polizzi per quelle situate a Petralia e lasciate dalla Porcaro. Cfr. A.S.R., Corporazioni religiose maschili soppresse. Agostiniani Scalzi in Gesù e Maria, B 186, fasc. 239, f. nn. Per i censi gravanti sulla donazione del Giambruno si rimanda alla nota 441.

(463) Un maltese risiedeva nel convento di S. Gregorio ed un sacerdote genovese nell’altro convento palermitano, mentre a Trapani era ospitato un borgognone. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, ff. 1v., 7v., 9.

(464) Cfr. Tabella XXVII.

(465) Cfr. Tabella XXVIII.

(466) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 11v. e GB. PANCERI DI S. CLAUDIA, op. cit., p. 54.

(467) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Provincia palermitana, f. 38v.

(468) Cfr. A.S.V., ivi, f. 33v.

(469) I Padri di Marsala e quelli di Trapani accennano anche alla vendita di “alcune cose” e “robbe”, senza specificare meglio la qualità dei prodotti. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 22v., 19v.