da MARCELLA CAMPANELLI, Gli Agostiniani
Scalzi, Napoli 2001, pp. 119-144
LA CONGREGAZIONE DI CENTORBI E
L’INCHIESTA INNOCENZIANA
Come già accennato all’inizio del lavoro, la Congregazione degli Scalzi
era nata dallo smembramento della già esistente Congregazione riformata di
Centorbi, detta degli Eremiti di Sicilia. Quest’ultima aveva tratto le sue
prime origini dall’iniziativa del sacerdote Filippo Dulcetti il quale nel 1517
si era ritirato a condurre vita eremitica sul monte Scarpelli riunendo attorno
a sé un gruppo di eremiti autonomi, ai quali si era unito successivamente il
Padre Andrea del Guasto (1). Costui sarebbe divenuto il vero artefice
della “agostianizzazione” della Congregazione e il fondatore ufficiale della
stessa che prese vita il 22 maggio 1583,
anno in cui gli eremiti vestirono l’abito a Catania e cominciarono
il noviziato a Centorbi, l’attuale Centuripe (2). Da quel momento cominciò lo
sviluppo della Congregazione che nel 1587
ottenne sia l’approvazione pontificia, sia il consenso ad assorbire
i due romitori della Congregazione di S. Adriano. Nel 1591 il Vicario generale
Agostino da Corneto concesse la facoltà di ricevere servatis servandis altri
religiosi dell’Ordine e nel corso del capitolo generale del 1592 furono
approvati i nuovi Capitoli. Fra i primi 12 adepti figuravano lo stesso del
Guasto e quell’Armando Diaz che nel 1593
la avrebbe smembrata dando origine alla Congregazione degli Scalzi (3).
Il Barbagallo ha affermato che al momento della scissione gli Eremiti di
Sicilia “erano allo zenit del loro sviluppo” (4). In effetti la Congregazione
contava già quattro conventi ed altri tredici sarebbero sorti fino al momento
della inchiesta innocenziana. Gli inizi del XVII secolo, infatti, furono
caratterizzati dal fervore che aveva contraddistinto i primi anni di vita della
Congregazione, registrando quasi annualmente la nascita di una nuova sede. Il
ritmo delle fondazioni rimase, comunque, sostenuto anche in seguito, fino al 1630, anno in cui si verificò
una vera e propria stasi, tanto che bisognerà aspettare diciasette anni prima
di veder sorgere contemporaneamente le sedi di Mascali e Paternò (5).
Nel 1649 la Congregazione si presentava insediata nell’area centro-orientale
dell’isola (ad eccezione della propaggine nella zona palermitana) e in piccole
località rurali interne. Un primo elemento che appare caratterizzare la scelta
dei luoghi in cui costruire i conventi è la distanza dai centri abitati. Il
primitivo spirito eremitico aveva continuato ad essere vivo e ad informare di
sé la vita dei religiosi, per cui il desiderio di isolamento e di raccoglimento
li aveva portati a privilegiare zone appartate e periferiche. Boschi, selve,
campagne avevano, infatti, rappresentato a lungo i luoghi ideali nella politica
degli insediamenti attuata dai Padri. La recessione economica e il dilagante
banditismo erano, però, sopraggiunti a minacciare non solo le strutture
conventuali, ma la stessa incolumità dei religiosi costretti, nel corso del
Seicento, ad abbandonare in massa le sedi originarie e ad avvicinarsi ai centri
abitati. Nel 1626 furono i Padri di Mineo che, a causa dei “molti disagi che
pativano”, dovettero lasciare il convento di S. Basilio, fondato nel 1579 e
posto a sette miglia di distanza dall’abitato, per prendere possesso della più
centrale chiesa di S. Ippolito (6). Nel 1633 Urbano VIII fu costretto ad emanare un breve con il quale
si ordinava l’abbandono di tutte le sedi ritenute pericolose. Tale
provvedimento ebbe effetti pressoché immediati e nel giro di pochi anni furono
definitivamente trasferiti i conventi di Militello, di San Filippo, di Piazza e
di Castiglione, per i quali la sopravvivenza stessa era ormai messa seriamente
in pericolo, sia per i continui saccheggi operati dai ladri, sia per
l’inaccessibilità del luogo che rendeva oltremodo difficile poter ampliare la
sede sia, infine, per la impossibilità stessa di poter fornire una adeguata
assistenza ai malati (7). Si verificò, in tal modo, una vera e
propria inversione di tendenza per cui i luoghi che solo fino a qualche decennio
prima erano stati considerati i migliori per condurre una vita monastica, negli
anni Trenta divennero quelli da evitare e ancora nel 1642 continuava la fuga
dalle campagne più lontane, così come registrato ad Enna (8). Al momento dell’inchiesta
pontificia ben pochi erano i conventi ultimati. Fra questi comparivano quello
di Centorbi, che ospitava un noviziato, e di Monreale, sede del Vicario
generale, provvisto dell’unica “stanza di studio” citata nelle relazioni (9).
Non ci troviamo mai al cospetto di grosse strutture conventuali né, tantomeno,
di costruzioni rilevanti sotto il profilo artistico. Gli Eremiti di Sicilia
amavano vivere in pochi locali, quelli strettamente necessari all’osservanza
della vita monastica, senza orpelli e ostentazioni di ricchezza. La maggior
parte dei complessi conventuali era ancora in fase di costruzione sia per
completare la fabbrica iniziale, sia per ampliarla e ristrutturarla (10)
e per molti di essi i Padri erano in grado di fornire il numero dei
locali di cui avrebbero disposto a lavoro ultimato. Sappiamo così che a
Regalbuto e a San Filippo i religiosi avrebbero potuto fruire di 12 camere,
mentre quelli di Caccamo addirittura di venticinque (11). Quanto detto non deve,
però, trarre in inganno circa le reali condizioni di vita in cui si dibattevano
molti altri conventi fra cui alcuni di quelli che avevano dovuto affrontare il
trasferimento in un’altra sede. I Padri di Piazza, ad esempio, possedevano 11
stanze ma, in effetti, si trattava di case comprate con il denaro avuto in
elemosina dagli abitanti del luogo e il cui accorpamento ricordava ben poco la
struttura di un convento (12). Gli Eremiti di Militello avevano dovuto
confrontarsi prima con le continue incursioni dei banditi che avevano
parzialmente distrutto la loro abitazione e poi con la loro stessa estrema
povertà che li costringeva a portare avanti la costruzione con “calcina” e
terra senza poter preventivare il momento della conclusione (13).
Particolarmente grave era la condizione in cui versavano i Padri di San Michele
i quali erano costretti a sperimentare quotidianamente il disagio del vivere in
“stanze destrutte e terranei senza clausura, aperti, rosi dentro e fori.., con
molto pericolo della loro vita” e dell’officiare in una chiesa “quasi destrutta
e fracassata, sotto canale, con molto pericolo di hora in hora di cascare”. Di
tale situazione il maggiore responsabile era il duca Giovanni Gravina il quale
non solo non aveva regolarmente versato gli annuali 72 scudi così come garantito dal padre
Geronimo, ma non aveva neppure adempiuto alla promessa di costruire in sette
anni il convento, del quale non si era “havuto principio ne fine” (14).
In molte chiese erano in corso lavori di ampliamento, ma soltanto i Padri di S.
Ippolito, a Mineo, erano costretti ad officiare in una “per rimedio”,
nell’attesa che si completasse la nuova. Le relazioni non forniscono mai
elementi di carattere iconografico in grado di poter illuminare non solo sulla
validità artistica delle opere, ma anche sulle preferenze cultuali dominanti nelle
zone in cui sorgevano i conventi (15). L’esame delle intitolazioni delle
chiese, però, pone immediatamente di fronte ad un variegato panorama di modelli
devozionali fra i quali primeggia - così come riscontrato nel Mezzogiorno
continentale - la figura di Maria, presente nel 32% dei casi e indicata con varie denominazioni quali, ad
esempio, quelle di carattere geo-topografico (S. Maria della Rocca), quelle che
mettono in risalto la sua qualità miracolosa (della Salute, della Grazia) o,
ancora, altre che evidenziano una localizzazione particolarmente famosa come S.
Maria dell’Artisina e di Gulfi. Per il resto, accanto a santi dalla netta
caratterizzazione taumaturgica, come S. Michele e S. Antonio, persistevano
intitolazioni che riconducevano sia all’ambito del monachesimo italo-greco
(come accadeva a Mineo e a Geraci con S. Ippolito e S. Bartolomeo) che del
martirologio più antico (16). La vocazione romita, poi, continuava ad
avere grande presa sulla collettività (17) e ne sono una testimonianza le intitolazioni
a S. Rosalia (18)
e a S. Calogero. Eppure, una annotazione del relatore di Caccamo funge da
spia sulla influenza che anche una piccola Congregazione come quella di
Centorbi poteva avere sulle scelte cultuali dei fedeli. L’intitolazione a S.
Calogero della chiesa annessa al convento, infatti, stava pian piano
scomparendo, soppiantata da quella a S. Agostino “mercé alla devotione
dell’abito” (19).
In definitiva, quindi, le relazioni innocenziane aiutano a poter affermare che
ancora in pieno Seicento nelle località più interne e isolate della Sicilia le
permanenze di culti antichi fossero pienamente sedimentate e appena scalfite
dall’influenza degli Ordini e Congregazioni di nuova fioritura. Anche i Padri
della Congregazione di Centorbi avevano goduto sin dai primi anni della loro
esistenza del sostegno proveniente da esponenti di vari ceti sociali. E’ pur
vero che le relazioni forniscono soltanto pochi nominativi di fondatori per
cui, aldilà della presenza di Andrea del Guasto, infaticabile sostenitore degli
Eremiti, da lui voluti a Regalbuto, Centorbi e Militello, e di altri religiosi
presenti a Geraci, a Castelbuono e a San Filippo, per certo sappiamo soltanto
che fu la comunità locale a volerli a Vizzini (20). E’ sufficiente, però,
scorrere i nomi di coloro che a vario titolo avevano dato il loro contributo ai
vari insediamenti per capire come il consenso fosse stato unanime. Nella terra
di San Filippo era stato il vescovo di Catania, Giovanni Torres, a donare il
luogo in cui edificare il convento di Santa Maria della Consolazione (21),
così come il vescovo di Siracusa, Giuseppe Saladino, lo aveva concesso a
Vizzini (22).
Il fego dell’Artisina era stato messo a disposizione dei Padri di Enna dal
barone locale, Ferdinando Grimaldi e il marchese di Geraci “vista la bona
edificatione di detti religiosi” aveva concesso loro, un anno dopo l’entrata in
Castelbuono, otto salme di terra (23). Il duca Geronimo Gravina, infine, aveva
assegnato una rendita annua ai Padri di San Michele anche se, come accennato
precedentemente, il suo successore non era riuscito a tener fede all’impegno. Come
sempre, è l’analisi del patrimonio a consentire un maggiore approfondimento
dell’articolazione dei rapporti intrattenuti dai religiosi con il mondo
esterno. Il reddito complessivo dei 17 conventi ammontava a 5.255 scudi. Quello mobiliare
incideva per il 61,3%, contro
il 37,2% di quello rurale
e l’1,3% di quello immobiliare (24). A livello locale, però, non sempre il
primato delle entrate spettava al settore mobiliare. Fatta eccezione per il
convento di San Michele per il quale rappresentava l’unica forma di introito,
altrove l’incidenza era molto fluttuante. Si passava, infatti, dal 96,8% registrato
a Paternò fino al 19,5% di
Centuripe, attraverso tutta una gamma di valori quali, ad esempio, il 74,5% ad Enna, il 62,5% a Castiglione, il 51,2% a Mineo, il 41,7% a Caccamo, il
25,1% a Regalbuto, che dà la misura dell’eterogeneità delle situazioni locali. Le
elemosine costituivano anche per gli Eremiti di Sicilia la voce dominante nella
costituzione del patrimonio mobiliare, pari all’86,6% dello stesso. Per i
conventi di Mineo, Enna e Regalbuto erano, in assoluto, l’unica forma di
introito mobiliare e altrove il valore si manteneva sempre su livelli
abbastanza alti compresi fra il 98,6% a Piazza e il 72,2% a Castiglione (fatta
eccezione per i conventi di San Michele dove costituivano solo il 40,7% del
reddito mobiliare e a Vizzini con il 66,9%) (25). Nessuna notizia, in
particolare, emerge a riguardo della identità dei benefattori. Anche per questi
religiosi sia le elemosine in natura che quelle in denaro erano, per lo più,
frutto di questue (26), così come affermato dai Padri di Piazza
i quali asserivano che il monastero “campa di elemosina” (27). Spesso, però, erano le
stesse università ad intervenire con elargizioni di prodotti di vario genere,
così come avveniva ad Enna, a Regalbuto, a Castelbuono, a Castiglione, a San
Filippo. I legati rappresentavano l’8,1% delle entrate mobiliari. Presenti in
otto conventi, soltanto per quello di San Michele arrivavano a costituire il 59,2% del reddito mobiliare.
Si trattava, ancora una volta, dei diffusi legati pro anima. Il duca Gravina ed altri
abitanti della zona avevavo affidato alla celebrazione di messe da parte dei
Padri la remissione dei propri peccati. In particolare, la confraternita
costituita presso la cappella della Madonna dell’Itria, situata nella chiesa
del convento, - unico esempio di associazionismo laico a contatto con i
religiosi - versava una quota annuale per la celebrazione di due messe
settimanali (28).
Anche per il convento di Monreale i legati costituivano una componenete
importante del patrimonio e ciò è maggiormente comprensibile se si ricorda che
tale convento era la sede del Vicario generale (29). Il reddito da censi costituiva
il 5,1% delle entrate mobiliari della Congregazione. In genere è fatto
riferimento esplicito a lasciti che avevano dato diritto alla percezione del
censo di cui godevano i Padri ma non erano mancati casi di veri e propri
prestiti ad interesse, garantiti sui beni di alcuni privati che, con ogni
probabilità, dovevano essere i diretti censuari. I religiosi pertanto si
trovavano, di fatto, ad aver instaurato un rapporto finanziario con la
popolazione della zona e per i Padri di Caccamo, Castiglione, Vizzini la
riscossione di censi offriva una cifra pari a circa il 20% delle loro entrate
mobiiari. Non è casuale, poi, che tale tipo di legame con il territorio
riguardasse conventi comunque situati lungo strade pubbliche e, di conseguenza,
più a diretto contatto con il mondo esterno. Impossibile, infine, cercare di
trovare qualche forma di investimento in titoli del debito pubblico da parte
dei religiosi. Lontani dai grossi centri urbani, proiettati verso un’economia
di stampo più arcaico, l’avventura finanziaria poco si confaceva ai Padri della
Congregazione di Centorbi per i quali, al contrario, la proprietà rurale
rappresentava - dopo le elemosine - uno dei capisaldi della loro economia. Dai
possedimenti terrieri, infatti, ricavavano 1.939 scudi, pari al 37,2% delle loro entrate
generali. Non c’era convento, infatti, (tranne quello di San Michele) che non
possedesse appezzamenti di terra dai quali era possibile trarre anche il 75,5% ed il 74,8% dell’intero
introito (come nel caso di Centuripe e di Regalbuto). Si trattava quasi sempre
di orti e giardini adiacenti al convento, coltivati a frutteti, i cui prodotti
erano destinati all’autoconsumo o, in qualche caso, ai fedeli. Le colture
maggiormente diffuse erano quelle già riscontrate nelle terre degli Scalzi, confermando
il primato della vite (30). Presenti anche alcuni nocelleti (a
Castiglione e a Piazza) e un gelseto a Castelbuono, zona in cui la sericoltura
si era già ampiamente diffusa a fine Cinquecento (31). A Caccamo i Padri erano
proprietari di un frantoio che rendeva appena 8 scudi all’anno, mentre a Geraci
i relatori accennano a “certe olive” (32). Non bisogna dimenticare, a tale
proposito, le vicende subite nella zona dall’olivicultura. Agli inizi del
Cinquecento Giovanni II Ventimiglia aveva permesso a chiunque di innestare gli
oleastri che crescevano nel suo marchesato, dando origine ad una proprietà
promiscua e consentendo, di contro, la nascita di immensi uliveti i quali,
però, verso la fine del secolo erano numericamente diminuiti a causa della riconversione
colturale a favore del vigneto (33). Difficile risalire al titolo di
proprietà in base al quale i Padri erano divenuti proprietari delle terre, ma è
sicuro che la loro gestione fosse diretta. Manca infatti, nelle relazioni,
qualsiasi accenno a lavoranti salariati, mentre è frequente il richiamo alla
fatica personale dei frati e all’aiuto portato dal bestiame del convento, anche
nel caso di terreni abbastanza estesi. A tale proposito, bisogna ricordare
l’importanza che il patrimonio zootecnico aveva nell’economia dei conventi
della Congregazione e per alcuni in particolare. A Paternò, ad esempio, il
reddito rurale era composto interamente da redditi su bestiame e a Vizzini il
gregge di 200 pecore non solo rendeva 20 scudi ogni anno, ma stava ad indicare
il ruolo che la pastorizia continuava ad esercitare nell’economia di una
famiglia religiosa come quella di Centorbi, dove anche il bestiame veniva
allevato a gestione diretta. Il reddito immobiliare, infine, costituiva l’1,3% di quello complessivo. Pochi
erano i conventi che godevano di tale cespite il quale raggiungeva la sua
massima incidenza nel convento di Centuripe dove da ben 12 unità immobiliari,
fra case e botteghe, i Padri riuscivano a percepire il 4,8% del loro introito.
Indubbiamente i canoni di affitto variavano in base alle località in cui erano
situati gli immobili, per cui non deve meravigliare se un’osteria sita a
Monreale rendeva più del doppio di sette case, una bottega e un granaio locati
a Chiaramonte. L’esame delle spese sostenute dai Padri evidenzia maggiormente
il loro stile di vita improntato alla semplicità ed alla essenzialità. Il vitto
costituiva, naturalmente, la voce più importante incidendo per il 68,5% sulle uscite generali,
seguito dalla spesa per il vestiario (pari all’11,6%) e per la sacrestia (pari
al 4,8%) (34).
Al di là di quelle che sono state definite le uscite fisse, bisogna ricordare
che quasi tutti i conventi sostenevano spese per medici e medicinali. Se a
questo fenomeno si associa la presenza di molte infermerie distaccate nei
centri dei paesi, è lecito supporre che i religiosi fornissero assistenza non
solo ai confratelli ma anche ai fedeli (35). Nel 1649 la Congregazione di Centorbi
contava nei suoi 17 conventi 131 residenti. I sacerdoti rappresentavano il 42,3% dell’organico, seguiti
dal 40,3 dei laici, dal 4,6% dei servitori ed appena dall’1,9% dei novizi (36).
Soltanto in cinque casi venivano raggiunte o superate le 12 presenze; altrove
il contingente numerico era scarso sino a toccare appena tre unità nel convento
di Mascali. Se, nei casi in cui i relatori hanno fornito la prefissione numerica
indicata dal Vicario generale, si è sempre assistito ad un incremento
dell’organico, è pur vero che, al momento della inchiesta, alcuni conventi si
trovavano ad ospitare un numero di persone inferiore a quello abituale, come
accadeva a Mascali e a Vizzini (37). Negli organici conventuali risultava
schiacciante la presenza di isolani, pari al 70,86% dell’intera popolazione
monastica. Ovunque in sede locale superavano il 50% fatta eccezione a San
Filippo e a Vizzini dove, di contro, era l’elemento indigeno a prevalere
costituendo rispettivamente il 71,4% e il 60% dei residenti. A livello insulare
soltanto il 25,8% era originario del luogo in cui sorgeva il convento ed appena
l’1,3 % proveniva da altre regioni (precisamente due religiosi calabresi
presenti nel convento di Monreale) (38). Da quanto esposto, è emerso il quadro di
una Congregazione che, pur se legata per lo più ad un tipo di economia di mera
sussistenza, aliena da speculazioni finanziarie nel settore del debito
pubblico, subordinata alle elemosine e, soprattutto, ai prodotti delle proprie
terre coltivate a gestione diretta, riusciva a chiudere il proprio bilancio con
un disavanzo di appena 73 scudi. Se ciò può meravigliare, è pur vero che non bisogna
dimenticare che i religiosi affrontavano spese di sostentamento pro capite molto
esigue poiché “detta religione” era stata fondata “sub titulo paupertatis” (39). I Padri Revisori
nominati dalla Sacra Congregazione sullo stato dei Regolari (40),
infatti, intervennero portando variazioni all’organico di ciascun convento
proprio sulla base di una diversa valutazione di quanto necessario per
mantenere una persona (41). Per i conventi di Caccamo, Castelbuono,
Piazza ed Enna l’organico rimase invariato e se per Chiaramonte e Paternò fu
deciso un aumento, rispettivamente di due e di tre unità, altrove furono
effettuate riduzioni. Nel caso di Castiglione e di San Michele, poi, i Revisori
non riuscirono neppure a formulare un preciso parere. Evidentemente la
situazione economica in cui versavano i due conventi era estremamente grave da
non lasciare adito ad una speranza di ripresa. In effetti nel 1632 arrivò puntuale
il decreto di soppressione non solo per i due conventi citati, ma anche per
quelli di San Filippo, Mineo, Enna e Piazza (42). Quest’ultimo fu
reintegrato dopo un decennio, forte dell’appoggio dei giurati e del capitano
del luogo, dei Superiori di altri Ordini e soprattutto del vescovo di Catania,
il cardinale Astalli, il quale garantì che i Padri di Centorbi erano “desiderati
ugualmente da tutti” e che potevano vivere in dodici (43).
Non altrettanto fortunati furono gli altri conventi soppressi rimasti per
sempre vittime della propria povertà (44).
___________________________________
(1) Cfr. B. RANO, Agostiniani, in Dizionario..., cit., col. 319. Per notizie
biografiche sul del Guasto, cfr. FULGENZIO DA CACCAMO, Sommario delle
cronologiche notizie della vita ... del P. Andrea del Guasto, Palermo, 1677.
(2) Con la lettera apostolica Lubricum vitae genus del
17.11.1568, Pio V ordinava ai religiosi extra-regolari di entrare in qualche
Ordine approvato e Padre Andrea del Guasto scelse quello agostiniano. Nel 1579
il Padre generale Taddeo da Perugia confermava i decreti per l’unione e nel
1585 gli eremiti divenivano a pieno titolo religiosi agostiniani. Cfr. I.
BARBAGALLO, Gli Agostiniani Scalzi..., cit., col. 405.
(3) Cfr. ivi,
col. 406. La Congregazione di Centorbi continuerà, comunque, una sua
vita all’interno dell’Ordine. Risulta, infatti, presente nei Capitoli generali
fino al momento della soppressione napoleonica e dal 1822 fino al 1829. Cfr.
“Analecta Augustiniana”, XIII (1929-30), pp. 151-153, 167-169, 389-390.
(4) Cfr. I. BARBAGALLO, Gli Agostiniani Scalzi..., cit., col. 405.
(5) Cfr. Tabella XXXIV.
(6) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Congregazione di
Centorbi, f. 48.
(7) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 36, 39, 64, 17.
(8) Il convento era sorto nel 1604 nel fego dell’Artisina,
donato dal barone Ferdinando Grimaldi e situato nella campagna, distante otto
miglia dal paese. Cfr. A.S.V., ivi,
f. 67.
(9) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 1, 4.
(10) A Chiaramonte, ad esempio, i Padri avevano voluto
ampliare l’originario corridoio per aprire nuove celle. Cfr. A.S.V., ivi, f. 15.
(11) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 70, 39v., 8v.
(12) Analoga situazione era vissuta dai Padri di Mascali
che occupavano tre stanze prese in affitto. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 64v., 73.
(13) Cfr. A.S.V., ivi, f. 36.
(14) Il duca Giovanni Gravina, in qualità di procuratore
del padre, il fu Geronimo, avrebbe dovuto versare ogni anno 72 scudi ai Padri i
quali, però, avevano finito con il ricevere soltanto grano e vestiario per
l’equivalente di 36 scudi e 9 giulii. In tal modo il duca si era reso moroso
per una somma di 720 scudi. Cfr. A.S.V., ivi, f. 53.
(15) Gli unici accenni alla decorazione sono quelli
relativi agli stucchi delle chiese di Paternò e di Monreale e al rivestimento
dorato della cappella maggiore di quest’ultima. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 25, 4.
(16) Il Sallmann ha evidenziato come “i napoletani e i
siciliani del XVII secolo restarono ampiamente fedeli ai santi antichi, a
quella coorte inesauribile di martiri della chiesa primitiva.., che abbellirono
la memoria collettiva di ogni città”. Cfr. J.-M. SALLMANN, Il santo patrono...
cit., p. 195.
(17) Il fenomeno dell’abbandono dei monasteri posti in
luoghi solitari e il conseguente trasferimento dei frati in edifici cittadini,
avvenuto nei primi decenni del XVII secolo, avevano accresciuto “il prestigio
dei romiti”. Cfr. G. GIARRIZZO, op. cit., p. 113.
(18) Sulle origini del culto di S. Rosalia a Palermo e del
suo patronato, cfr. V. PETRARCA, Di Santa Rosalia Vergine Palermitana, Palermo, 1988.
(19) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Congregazione di
Centorbi, f. 8.
(20) Cfr. Tabella XXXV.
(21) Nel 1635 su richiesta del Padre Guglielmo Paracino il
convento fu trasferito in paese nella contrada Fontana nuova, poiché era
difficile poter ampliare la sede originaria. Cfr. A.S.V., Relationes, 6, Congregazione di
Centorbi, f. 39.
(22) Il vescovo si riservò soltanto lo jus visitandi. Cfr. A.S.V., ivi, f. 21.
(23) Nel 1615 il marchese donò un’altra salma con il patto
che, qualora i Padri avessero lasciato o venduto il convento, la terra sarebbe
tornata di sua proprietà. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 43, 67.
(24) Cfr. Tabella XXXVI.
(25) Cfr. Tabella XXXVII.
(26) Un accenno a parte meritano i Padri di San Michele i
quali, nel massimo della povertà e dell’indigenza di cui si è accennato
precedentemente, erano costretti a questuare servendosi di una mula “vecchia e
zoppa”. Cfr. A.S.V., Relationes,
6, Congregazione di Centorbi, f. 54.
(27) Cfr. A.S.V., ivi, f. 64v.
(28) Cfr. A.S.V., ivi, f. 54.
(29) I Padri percepivano annualmente più di 100 scudi in
legati, ma avevano ormai perso la speranza di riscuoterne altri di cui si erano
smarriti gli atti originari e per i quali, di conseguenza, i debitori non
volevano più pagare il dovuto. Cfr. A.S.V., ivi, f. 5v.
(30) Non c’è traccia di tale coltura soltanto nelle terre
di proprietà dei Padri di Mascali e di Mineo.
(31) Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo..., cit., p. 86. La diffusione
della sericoltura è confermata dalla elemosina di seta che i Padri ricevevano
dagli abitanti del luogo. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Congregazione di Centorbi,
f. 44.
(32) Cfr. A.S.V., ivi, ff. 9v., 32.
(33) Cfr. O. CANCILA, Baroni e popolo..., cit., pp. 83-84.
(34) Cfr. Tabella XXXVIII.
(35) I Padri di Monreale, di Vizzini, di Castelbuono
possedevano a tale scopo alcuni stabili nel centro del paese. In quest’ultimo
caso si trattava di un vero e proprio corpo a sé stante, costituito da quattro
stanze, un orticello e recintato da mura, così come accadeva a Regalbuto dove
il complesso era costituito da una camera, una sala e una cucina al piano
superiore e da quattro stanze al piano inferiore. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Congregazione di Centorbi, ff. 5, 21, 43v., 70v.
(36)
Cfr. Tabella XXXIX.
(37) Ad Enna i Padri affermavano di essere in cinque a
causa di “alcuni impedimenti”, mentre a Vizzini si dichiarava esplicitamente
che nel passato erano riusciti a vivere nel convento di S. Domenica anche in
quattordici. Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Relationes, 6, Congregazione di Centorbi, ff. 67, 21.
(38) Cfr. Tabella XL.
(39)
Era quanto affermato dai Padri di San
Filippo che riuscivano a sostentarsi con 13 scudi a testa. Cfr. A.S.V., ivi, f. 41.
(40) Il compito dei Revisori era quello di esaminare le
relazioni dei conventi per verificarne l’esattezza, accertare le possibilità
economiche e finanziarie delle varie case ed assegnare a ciascuna un organico
adeguato. Cfr. E. BOAGA, op. cit.,
p. 55.
(41) Soltanto per il convento di Piazza rimasero invariati
sia l’organico che la spesa pro-capite. Cfr. Tabella XLI.
(42) Cfr. A.S.V., S.C.S.R., Varia, 5, f. 7 e per quanto
riguarda i decreti di soppressione dei conventi delle altre Congregazioni
Agostiniane Osservanti cfr. A.G.A., Cc 25,
ff. 73-74v.
(43)
Cfr. A.S.V., Miscellanea, arm. VIII, 44, ff.
305-323.
(44) Nel 1663 l’arcivescovo di Palermo inoltrò alla
Congregazione sullo stato dei Regolari la richiesta di poter riottenere la
chiesa annessa all’ex convento di Enna, giurisdizionalmente dipendente dalla
mensa arcivescovile. Era sua intenzione, infatti, provvederla di un sacerdote
per fornire assistenza spirituale ai contadini della zona. Cfr. A.S.V., ivi, ff. 317-318.