L. NECCIA, Il convento agostiniano di N. Signora d’Itria in Illorai, da Analecta Augustiniana, LXI (1998), pp. 151-170

 

1.- Gli Agostiniani in Sardegna: cenni storici.

[Pag. 153] Nell’Archivio della Curia vescovile di Ozieri, alla pos. “Cause civili” n. 1765/142, si trova un manoscritto composto da 46 carte: si tratta degli atti relativi alla chiusura e alla dismissione del Convento di Nostra Signora d’Itria in Illorai, casa religiosa che apparteneva alla Provincia di Sardegna dell’Ordine dei Frati Eremitani di S. Agostino (Agostiniani). Siamo nel 1765, quando, dopo aver celebrato nel mese di aprile il Capitolo Provinciale, i frati decidono di lasciare quel convento, per l’impossibilità di condurvi una vita religiosa proficua e serena: i banditi, infatti, con la loro continua presenza li costrinsero ad abbandonare un luogo per loro significativo, a motivo del culto ivi promosso della Vergine d’Itria. Ma andiamo con ordine, cercando di farci un’idea, per forza di cose sommaria, della presenza degli agostiniani in Sardegna, allo scopo di inquadrare meglio le vicende occorse al “conventino” di Illorai. Era naturale che l’Ordine Agostiniano guardasse alla Sardegna con interesse, poiché nell’isola era stato custodito e venerato per oltre due secoli il corpo di S. Agostino, poi riscattato da Liutprando e portato a Pavia, dove riposa tuttora nella chiesa di S. Pietro in Cieldoro. Questo il vero motivo, quindi, che li spinse in Sardegna, tanto che il sigillo di quella che fu poi la provincia religiosa raffigurava in basso un sepolcro vuoto a ricordo della sepoltura di S. Agostino, su di esso una casula con due dalmatiche poste ai lati, simbolo dell’ufficio episcopale del Santo, in alto una stella, messa lì a significare il Dottore della Chiesa, luce di scienza teologica e di santità. Fiorirono anche leggende, che sempre accompagnano l’espressione di una fede intensa, leggende che volevano che il Santo d’Ippona, [pag. 154] di ritorno da Ostia e diretto in Africa, si fosse fermato a Cagliari e lì avesse fondato un monastero e operato miracoli: con ciò altro non si voleva, se non stabilire un legame ancora più forte tra la famiglia agostiniana e la Sardegna. La verità storica però, pur collegandosi idealmente a quanto detto, non può che partire dalla fondazione dell’Ordine degli Eremitani di S. Agostino ad opera del Papa Alessandro IV nel 1256. In Sardegna la presenza dei religiosi agostiniani si può far risalire almeno al 1421. Come autorevolmente ricorda il Martini nella sua Storia Ecclesiastica di Sardegna (1), un religioso spagnolo, Agostino Carbonell, fondò il convento di Cagliari e sempre un religioso spagnolo, Fr. Juan Exarch di Lerida, dal 1480 circa venne investito del compito di riformare i conventi dell’isola e di fondame altri. Tutte le fonti sono concordi nel riconoscere a questo religioso il merito di aver dato avvio alla costituzione della Provincia agostiniana di Sardegna, eretta ufficialmente nel 1512 con decreto del Priore Generale Egidio da Viterbo: “Il 14 luglio del 1512 Egidio da Viterbo istituì la ‘provincia osservante’ della Sardegna con i conventi di: Palma di Maiorca e Ciudadela (Minorca), fondati nel 1480; di Caudiel (Castellòn) del 1496; di Nostra Signora del Soccorso di Valenza del 1500; di Liria (Valenza) del 1509; di Jativa (Alicante) del 1515 e di Cagliari, acquistato all’Ordine nel 1491 e incorporato alla provincia catalano-aragonese dal generale Anselmo da Montefalco. Fondatore della provincia di Sardegna è ritenuto Fr. Giovanni Exarch, vecchio uomo d’armi e poi agostiniano, molto stimato da Egidio da Viterbo, che il 15 settembre del 1517 fece annotare nel suo registro: “Diamo facoltà a Fr. Giovanni Exarch di fondare due conventi, uno a Valenza e un altro a Sassari” -e in nota, citando dall’Archivio Generale Agostiniano, chiarisce ulteriormente il testo di Egidio da Viterbo riguardante la provincia sarda: “cuius caput sit conventus Succursus de Valentia et membra septem conventus”, in AGA, Ff. 1, 5v. (2). Su sette conventi che formano il primo nucleo di case della provincia uno solo, dunque, quello di Cagliari, è in Sardegna; si accenna è vero alla fondazione di quello di Sassari, ma l’atto istitutivo della nuova circoscrizione religiosa dell’Ordine la fa sembrare più spagnola che sarda, senz’altro perché la “Isla de Cerdeña” veniva considerata come parte integrante del Regno di Spagna. Con il tempo, tuttavia, la provincia si ridusse ai soli conventi sardi, che nel frattempo erano cresciuti di numero, tanto che attorno [pag. 155] al 1650 erano i seguenti:

1. Cagliari, con due case: il primo convento di S. Agostino e il più recente di S. Leonardo, divenuto poi sede del priore provinciale;

2. Samassi;

3. Tortolì;

4. Escolca (o Scorca);

5. Illorai;

6. Pozzomaggiore;

7. Sassari;

8. Alghero.

I frati furono in parte spagnoli, in parte sardi ma, già a partire dagli inizi del XVII secolo, i documenti rivelano (3) una preminenza di religiosi nativi dell’isola, gradualmente sempre più marcata fino alla completa autonomia rispetto alla Spagna. Non è questo il luogo per diffondersi ulteriormente sull’argomento, che certo meriterebbe un lavoro specifico; dirò solo che, con l’avvento dei Savoia, gli agostiniani e gli altri ordini religiosi si trovarono al centro di una politica che li costrinse a ridurne la presenza fino alla soppressione definitiva, decretata dalle Leggi Rattazzi del 29 maggio 1855. Gli agostiniani, ormai diminuiti di numero e rimasti con soli 5 conventi, non ebbero la forza né la possibilità di riprendersi, per cui in quell’anno ebbe fine il loro servizio religioso e pastorale nell’isola, dopo una permanenza di circa mezzo millennio.

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(1) P. MARTINI, Storia Ecclesiastica di Sardegna, Stamperia Reale, Cagliari 1841, vol. III, app. 2° (Notizie sul clero regolare), pp. 458-459.

(2) D. GUTIERREZ, Storia dell’Ordine di S. Agostino, Vol. I/2, Gli Agostiniani nel Medioevo (1357-1517), Roma, 1987, p. 117.

(3) Si vedano i manoscritti presenti in: Biblioteca Universitaria di Sassari, Soppresse Corporazioni Religiose, s. 5, mmss. 487; 815, 26; Archivio di Stato Sassari, Fondo Corporazioni Religiose soppresse, Alghero, Agostiniani, b. n. 1.

 

 

2. Le carte manoscritte dell’Archivio della Curia vescovile di Ozieri.

Fatta questa premessa, è opportuno vedere cosa contengono le 46 carte manoscritte, con una breve presentazione dei documenti in esse contenuti. Innanzitutto è da notare che lo stato di conservazione delle carte non è proprio dei migliori: in qualche parte non sono del tutto leggibili o perfettamente comprensibili, a motivo del deterioramento del materiale cartaceo; ciò tuttavia non impedisce l’intelligenza del testo e il senso del loro contenuto è sufficientemente ricostruibile. Alcune carte, poi, presentano una parte erosa nel centro, ma non così ampia da non consentire almeno la comprensione del senso globale dello scritto. La lingua impiegata è ancora il castigliano, anche se dal 1760 era stato introdotto ufficialmente l’uso dell’italiano: si tratta peraltro di un castigliano non proprio ortodosso, ad uso insomma di persone che facevano ricorso a questa lingua ormai quasi esclusivamente per le comunicazioni ufficiali. I documenti sono stati raccolti dalla curia vescovile di Alghero e ordinati dal R.do Dott. Proto Tola, segretario dell’allora vescovo Mons. Giuseppe Maria Incisa Beccaria, ordinario di quella diocesi dal 1764 al 1772, [pag. 156] anno in cui passò all’arcidiocesi di Sassari. Ricordiamo che il vescovo di Alghero al tempo aveva sotto di sé anche le tre antiche diocesi di Ottana, Castro e Bisarcio: era infatti “Obispo de Alguer, y uniones”; questo chiarisce perché fosse rimessa in suo potere la chiusura del convento di Illorai. Le carte esaminate sono, per lo più, documenti originali, mentre solo alcune sono copie conformi. Ma passiamo ad illustrarli brevemente, secondo l’ordine di disposizione:

 

a) Carta n. 1: è il frontespizio della raccolta e ne sintetizza il contenuto. Si tratta dei procedimenti seguiti da parte della curia vescovile “sobre la acceptassion del Conventino de Agustinos de la Villa de Illoray, de su Iglesia, y bienes... dimitidos mediante Inventario por el Reverendo Padre fray Antonio Ignacio Cubeddu Prior del citado convento, y deputado de su Muy Reverendo Padre Provincial el Muy Reverendo Padre Maestro fray Nicolas Lippi, pro ut intus.” Alghero 1765.

 

b) Carta n. 2: lettera del vescovo di Alghero al parroco di Illorai, con la quale vengono attribuiti i beni dell’ex convento agostiniano alla parrocchia del paese, 1768 aprile 9.

 

c) Carta n. 2v: risposta del parroco di Illorai, Salvatore Marras, alla lettera di cui sopra, 1768 maggio 7.

 

d) Carte nn. 4-4v: lettera della curia di Alghero al Rettore di Bono, Rev. Giovanni Meloni, vicario foraneo del Goceano, designato quale delegato speciale del vescovo, perché si informi circa la dismissione del convento e la vendita che i frati vanno facendo dei beni del medesimo, 1765 ottobre 1.

 

e) Carte nn. 4v-5: relazione del Rettore di Bono sulla visita fatta al convento, 1765 ottobre 9.

 

f) Carte nn. 6-6v-7-7v: lettera di protesta dei maggiorenti di Illorai al delegato del vescovo, in cui lamentano il fatto che i frati agostiniani stanno vendendo beni di fondazione del convento e della chiesa, allegano un elenco delle cose vendute. Senza data, ma sicuramente contemporanea alla visita del delegato vescovile.

 

g) Carte nn. 7v-8-8v-9-9v-10-10v-11-11v: in esse viene riportata l’interrogazione dei testimoni fatta dal Rettore di Bono, attorno a quel che sanno della vendita di parte dei beni del convento, 1765 ottobre 9 e 10.

 

h) Carte nn. 12-12v-13: lettera del provinciale degli agostiniani Fr. Nicola Lippi al vescovo di Alghero, nella quale, difendendo l’operato dei frati, si rimette alla volontà dell’ordinario, 1765 ottobre 31.

[pag. 157]

i) Carte nn. 14-14v: lettera del priore provinciale al vescovo di Alghero, per assicurare la sua piena disponibilità nell’accettare le volontà della curia, 1765 novenbre 8.

 

1) Carta 15: lettera del priore provinciale al superiore del convento di librai, 1765 novembre 8.

 

m) Carte nn. 16-16v-17-17v-18-18v-19-19v: relazione del P. Nicola Murro, per conto del provinciale, diretta alla curia di Alghero, ove si riportano le ragioni della chiusura del convento, oltre ad una breve sintesi sulla sua fondazione, l’inventario dei beni di chiesa e sacrestia, dei documenti, dei beni immobili, dei beni profani e degli utensili del convento. Senza data.

 

n) Carte nn. 20-20v: lettera del vescovo di Alghero al Rettore di Bono, perché in qualità di delegato proceda a prendere in consegna il convento e la chiesa a nome e per conto della diocesi, 1765 novembre 27.

 

o) Carte nn. 21-21v-22-22v: lettere da Bono in cui si dispone la presenza del Reggente ufficiale del Goceano, Pablo Meddigue, alle operazioni di chiusura del convento, 1765 novembre 3 e 4.

 

p) Carte da 23 a 46 (alcune bianche): atti finali della cessione dei beni del convento alla diocesi , che li affida poi in amministrazione alla parrocchia di Illorai, dal novembre 1765 al gennaio 1766.

 

Qualche notizia sembra doverosa anche sul superiore provinciale degli agostiniani, P. Nicola Lippi, e sul P. Nicola Murro, suo collaboratore in questa vicenda e, come ricordato, autore della relazione contenente tutti i dati più importanti relativi alla casa di Illorai. Il primo, oltre ad essere stato priore del convento di Cagliari (4), fu anche apprezzato professore di teologia nell’Università della stessa città, mentre il P. Murro, anch’egli stimato teologo, ricoprì spesso incarichi di responsabilità nella provincia: consigliere provinciale, priore di Sassari, all’inizio dei 1765 Reggente della Provincia. Di lui il Sisco dice che fu sassarese, “lucidissima stella” e “lustro della Patria” (5). Due persone degne di rispetto quindi [pag. 158] e all’altezza della situazione: come vedremo, il comportamento della provincia agostiniana nelle vicende del convento di Illorai fu ineccepibile.

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(4) G. SORGIA, Gli Agostiniani in Sardegna in epoca moderna, in “Studi Sardi”, vol. XXIX (1990-91), Ed. Gallizzi Sassari, 1991, pp. 523-524.

(5) A. SISCO, Notizie che il P. Antonio Sisco sassarese ricavò da antichi documenti, Biblioteca Universitaria di Sassari, ms. 52, sec. XVIII, Carte 113, c. 8r.

 

3. Fondazione del convento di Illorai

Illorai è un piccolo centro del Goceano, territorio a sud della provincia di Sassari, non lontano da Nuoro. Negli Atti capitolari inviati dagli Agostiniani a Roma nel 1765, l’estensore così ce lo descrive: “Illoray oppidulum est inter asperrima et fragrosa montium constitutum” (6), una piccola “Villa”, sperduta tra una giogaia di monti ripidi e pressoché impraticabili. Qui giunsero gli agostiniani nel 1624: “En 8 de septiembre de 1624 fue recebida la fundacion del Convento de Nuestra Señora de Itria de Iloray” (7), così inizia la relazione del P. Murro. La nuova fondazione fu resa possibile dalla generosità di alcune persone, i conti di Bonorva, poi baroni di Uri ed Ittiri, che donarono il terreno dove già esisteva la chiesa dedicata alla Vergine d’Itria, con una costruzione attigua da ultimare ed ampliare, sempre a spese dei benefattori. “Fueron los fundadores los Señores coniuges Francisco Nurquis Zedrelles, y Francisco, y Andniana Corona, y Nurquis: estos prometieron dar à los Religiosos la Iglesia de Nuestra Señora de Itria puesta, y situada en el lugar llamado Botto, y quatro aposentos que havia fabricados contiguos a dicha Iglesia, ofreciendo fabricar à sus gastos otros dos aposentos” (8). In più i fondatori promisero ai religiosi altre forme di aiuto, come terreni, lasciti di Messe e denaro, allo scopo di assicurare una dotazione economica adeguata per il sostentamento dei frati e per una decorosa gestione della chiesa. Di fatto, come lamenta il P. Murro, né i fondatori, né i loro eredi mantennero una sola delle promesse fatte, ragion per cui i frati si videro costretti a provvedere da soli, affidandosi alla propria capacità di industriarsi e molto più alla generosità della gente del luogo. Anzi, viene ricordato come, [pag. 159] per questioni relative alla fondazione, vi fosse stata addirittura una causa tra i frati e gli eredi dei fondatori: “à los principios deste presente siglo (XVIII) estava corriente la Causa en la Real Audiencia contra de Don Francisco Satta Nurquis, y despues de la muerte deste, se ha seguido contra del Ilustre Don Antonio Ledda Conte de Bonorva, y Baron de Iteri, y dicha Causa no se ha rematado, ni seguido por no poder el Convento por su suma pobreza aguantar à los gastos de la lite, y à un contrario tan poderoso” (9). Nonostante la “suma pobreza” lamentata dal P. Munno, la comunità religiosa, nell’arco dei suoi 141 anni di vita, divenne proprietaria di 42 appezzamenti di terreno di varia estensione e destinazione d’uso. Si trattava di beni lasciati da religiosi nativi del luogo, di acquisti fatti o di donazioni dei fedeli; a queste ultime spesso si accompagnava l’obbligo di celebrare un certo numero di Messe ogni anno in suffragio dei benefattori: al momento della dismissione del convento esse raggiungevano il numero di 127 annue. Come in genere accadeva, tali appezzamenti di terreno venivano dati in affitto a contadini e allevatori, quando non erano immediatamente destinati alla coltivazione di ortaggi e grano, o fossero utilizzati a pascolo per le necessità del convento. Occorre aggiungere che l’edificio era “sito fuera de poblado de la Villa de Illoray” (10), un po’ lontano dal centro abitato e in luogo poco frequentato: i frati vivevano quindi anche del lavoro dei campi e dell’allevamento di pecore, mucche, etc. La solidarietà già ricordata degli abitanti del luogo consentì pertanto una sistemazione decorosa della chiesa e del conventino, che tuttavia non poteva considerarsi ricco.

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(6) AGA (Archivio Generale OSA), Ff. 53, 435.

(7) ACVO (Archivio Curia Vescovile Ozieri), Cause Civili, n. 1765/142, c. 16.

(8) ACVO, cit., c. 16. Traduz.: “I fondatori furono i signori coniugi Francesco Nurquis Zedrelles e Andriana Corona. Costoro promisero ai religiosi di dar loro la chiesa di Nostra Signora d’Itria, posta e situata in località chiamata “Botto”, che aveva quattro parti di fabbricato contigue a detta chiesa, con l’impegno di costruirne altri due a proprie spese”.

(9) ACVO, cit., c. 16v. - Traduz.: “Agli inizi del presente secolo (XVIII, nda) era in corso la causa nella Reale Udienza contro Don Francesco Satta Nurquis e, dopo la morte di questi, si è continuato contro l’illustre Don Antonio Ledda, Conte di Bonorva e Barone di Ittiri, ma detta causa non è stata portata a termine, nè è stata più seguita per non aver avuto il convento, in ragione della sua estrema povertà, la possibilità di sostenere i costi della lite e di tener fronte ad un avversario così potente”.

(10) ACVO, Cit., c. 4v. - Traduz.: “situato fuori dell’abitato di Illorai”.

 

 

4. La chiesa e il convento.

La piccola chiesa aveva un altare maggiore sul quale campeggiavano la statua della Madonna d’Itria, incoronata con un diadema d’argento e vestita di seta, e la statua di S. Agostino. Sempre nei pressi dell’altare, altre due statue più piccole: un di marmo, [pag. 160] ancora della Vergine, e l’altra di legno di S. Nicola da Tolentino. Vi era inoltre una cappella dedicata a S. Rita: al centro di essa la nicchia con la statua della Santa vestita di un abito nero. Le vesti della Madonna e della Santa di Cascia venivano cambiate con altre che si custodivano in sacrestia e, generalmente, erano di seta. Alle pareti laterali della cappella di S. Rita due statue nelle rispettive nicchie: una di S. Tommaso da Villanova e l’altra di S. Nicola da Tolentino. Ancora, vi erano disposti altri tre simulacri più piccoli di S. Michele Arcangelo, di S. Lorenzo e di S. Lucia e un quadro della Madonna della Consolazione. Nella sacrestia un armadio per le vesti liturgiche e un grande tavolo di legno ordinario. Da ultimo, senza torre campanaria e probabilmente sopra la chiesa, un piccolo campanile con “una campana, y otra campanilla” completava l’insieme dell’edificio sacro. Dalla descrizione delle restanti suppellettili della chiesa (candelabri, crocefissi, etc.) emerge chiaramente che non si trattava di arredi di pregio, anzi più volte vengono descritti come vecchi o molto usati. Insomma, una chiesetta di campagna delle tante che erano e sono sparse nell’isola. Gli agostiniani promuovevano ovviamente il culto dei santi del proprio ordine, come S. Nicola da Tolentino, S. Rita da Cascia, che al tempo era solo beata, per quanto nei documenti venga sempre indicata come santa, e S. Tommaso da Villanova. Era tradizione dell’ordine venerare la Madre di Dio con il titolo di “Madonna della Consolazione” o con altre invocazioni, ma non con il titolo di “Vergine SS.ma d’Itria”: di questo però parlerò più ampiamente in seguito. L’immagine di semplicità risalta in modo ancor più evidente quando si passa a descrivere il conventino. Una costruzione di poche pretese che si ricava dall’ “Inventario de bas ropas profanas, y utensilios de dicho Convento” (11) Le celle dei religiosi erano tre: una destinata al superiore, la seconda al religioso non sacerdote, l’ultima libera. Vi erano poi una quarta stanza adibita a dispensa e magazzino e una cucina: ed è tutto, anche perché le esigenze di inventariamento, piuttosto meticolose, avrebbero costretto l’estensore a parlare di eventuali altri locali. Mi soffermo a descrivere la cella del priore, tanto per dare un’idea di come fosse l’arredamento: vi si trovava un letto con due materassi e una coperta “sardesca”; una tenda di tessuto, si dice, ordinario e usato; quattro “arcas”, ovvero casse, due di legno più pregiato e le restanti due di legno più ordinario: in una di esse venivano custoditi i documenti del convento; [pag. 161] due tavoli di noce e cinque sedie, di cui una a braccioli; piccola curiosità, tre o quattro corone di fiori di seta; infine, alcuni libri di spiritualità “viejos, y muy usados”, cattivo segno in quanto vecchi, buon segno perché molto usati, e, tra di essi, quello della Regola e delle Costituzioni dell’Ordine. Il restante arredamento conferma l’impressione di religiosa sobrietà. Un conventino, quindi, destinato a due, massimo tre religiosi, dove si viveva di elemosine e del frutto dei campi, alternando la predicazione, le confessioni e il culto della Vergine e dei santi come normale attività pastorale.

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(11) ACVO, cit., cc. 19-19v. - Traduz.: “Inventario dei beni profani e degli utensili di detto convento”.

 

 

5. Il culto della Vergine d’Itria.

Veniamo ora ad esaminare un aspetto interessante e noto per quel che riguarda la storia della Sardegna, meno noto e ancor più interessante per la storia dell’ordine agostiniano in questa regione: il culto, di tradizione bizantina, della Madonna d’Itria. Per quanto concerne la storia sarda, Felice Cherchi Paba, in La Chiesa Greca in Sardegna, ha ampiamente studiato e documentato le forme di religiosità bizantina che dal VI secolo in poi sono state introdotte nell’isola e ne hanno segnato fino ai nostri giorni le manifestazioni di fede. Soprattutto nelle zone di cui stiamo parlando, nelle Barbagie e in altri territori dell’interno, i monaci bizantini edificarono luoghi di culto in posizioni isolate, ma tali da metterli in contatto con le popolazioni rurali e delle zone montane. Quest’opera di evangelizzazione dei luoghi più impervii dell’isola, luoghi che altri non erano riusciti a contattare se non con lotte e contrasti, merita già di per sé un’attestazione di stima. La Madonna d’Itria altro non è che la Vergine d’Hodighitria (Odeghetria), detta anche Madonna di Costantinopoli. “Detta Madonna, raffigurata in una icona acheropoiete, ossia non dipinta dalle mani dell’uomo, fu donata, secondo la tradizione, da S. Basilio Magno all’imperatrice Eudossia che la inviò a Pulcheria la quale fece erigere per la sacra immagine un grandioso santuario in Costantinopoli, in via dei Duchi, per cui la Madonna prese il titolo della città e fu eletta a protettrice della Casa imperiale e, come tale, raffigurata nel labaro della guardia imperiale e recata in guerra a protezione dell’Armata e dell’impero. L’immagine della predetta Madonna doveva essere anche sul labaro del tema o “exercitus Sardiniae”, prima del distacco dell’isola da Bisanzio, e anche dopo”. Ancora, in nota: La icona della Madonna di Costantinopoli [pag. 162] detta anche dell’Odeghetria si venera oggi nel santuario di Montevergine (Avellino) dove nel 1265 fu recata, secondo documenti di certo valore storico, da Baldovino II di Courtenai” (12). Il culto della Vergine con questo titolo non venne diffuso solo in Sardegna, ma anche in altre zone dell’Italia meridionale e se ne ha testimonianza perfino in Roma. Resta il fatto però che in Sardegna tale venerazione della Madonna ebbe una diffusione singolare, come s’è detto, nelle zone dell’interno ove restò più radicata che altrove, continuando sempre viva fino ai nostri giorni, come sempre il Cherchi Paba racconta: “Il culto per l’Hodighetria o Madonna d’Itria, detta anche del Buoncammino, è assai diffuso nelle Barbagie dove nei valichi montani esistono chiese dedicate a questo culto, ricordo dell’eremitaggio greco che si piazzava nei punti più battuti specie dai pastori, al fine di diffondere tra loro la nuova fede, vivendo del loro obolo. Ancora tra gli antichi valichi, tra Sorgono e Austis, tra Fonni a Mamoiada e tra Nuoro e Lula, esistono le predette chiese” (13). Per quanto riguarda Illorai, inoltre, il ricordo dell’evangelizzazione bizantina è testimoniato con certezza: a capo ovest del ponte romano di Illorai, sul Tirso, vi era una chiesa, anch’essa antichissima, dedicata a S. Luca” (14). Questo ci autorizza a ritenere altrettanto verosimilmente antico il culto della Vergine d’Itria, tanto più che nelle notizie lasciate nei manoscritti a proposito della fondazione del convento agostiniano, viene indicata come già esistente la chiesa dedicata alla Madonna: “estos (i fondatori, nda) prometieron dar à los Religiosos la Iglesia de Nuestra Señora de Itria puesta y situada en el lugar llamado Botto” (15). Resta ora da vedere il significato che storicamente ha caratterizzato l’impegno dei religiosi agostiniani attorno a questo culto.

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(12) F. CHERCHI PABA, La Chiesa Greca in Sardegna, cenni storici, culti, tradizioni, Ed. Scuola Tip. Francescana, Cagliari 1962, p. 76.

(13) F. CHERCHI PABA, ibidem, p. 79.

(14) F. CHERCHI PABA, ibidem, p. 79.

(15) ACVO, cit., c. 16.- Traduz.: “Costoro (i fondatori, nda) promisero ai religiosi di dar loro la chiesa di Nostra Signora d’Itria, posta e situata in località chiamata Botto”

 

 

6. Gli agostiniani e la Madonna d’Itria.

Il culto verso la Madre di Dio è sempre stato un punto fermo nella spiritualità, nell’apostolato e nella predicazione degli Ordini religiosi Mendicanti, e gli agostiniani non sono stati da meno. Il testo del P. Davide Gutiérrez ci conferma questo aspetto della spiritualità agostiniana, [pag. 163] riassumendo le principali invocazioni o titoli con cui veniva venerata la Madonna nell’Ordine: “I titoli con cui i nostri religiosi estesero il culto della Madre di Dio furono quattro: Nostra Signora del Soccorso, della Grazia, del Buon Consiglio e della Consolazione” (16). Se era pertanto naturale che i frati promuovessero tali forme di culto, meno ovvio appare il loro impegno nel portare avanti la venerazione per la Vergine d’Itria, culto che essi trovarono già presente in Sardegna e che fecero proprio, al punto da farne un momento importante del loro apostolato, diffondendolo ovunque nelle loro chiese. Le mie ricerche in proposito si fermano ai conventi di Cagliari, Sassari, Alghero e, appunto, Illorai: in essi il culto della Madonna d’Itria era considerato di primaria importanza. I primi tre conventi sono da ritenersi senz’altro come le case più in vista della provincia: Cagliari, poi, sede del priore provinciale e centro di formazione, iniziò dando l’esempio, quasi un mandato agli altri conventi. Qui, infatti, il 2 giugno 1607, con Bolla di Paolo V, venne istituita la Confraternita della Madonna d’Itria (17). Attiguo alla chiesa di S. Leonardo, sempre in Cagliari, venne eretto l’oratorio di questa confraternita, alla quale nel 1625 Urbano VIII accordò tutti i privilegi di cui beneficiava la confraternita di S. Monica ed Arciconfraternita della Cintura di S. Agostino in Roma. Interessante l’affresco che riproduceva la Vergine d’Itria che sta sopra una cassa, come è solita rappresentarsi sotto questo titolo, portata sopra gli omeri da due sacerdoti vestiti alla greca. Allude al fatto, quando i Sacerdoti Greci in Costantinopoli salvarono il simulacro miracoloso della Vergine contro l’invasione dei Turchi” (18). La stessa realtà rinveniamo nel convento di S. Agostino di Sassari: anche qui vi era una cappella dedicata alla Vergine d’Itria con una confraternita della stessa. La notizia più antica risale alla prima metà del sec. XVII, il Vico asserisce che in tale epoca, in quella chiesa, vi erano due devozioni di particolare importanza: “la una es de la Virgen del Remedio, [pag. 164] que corresponde a la Virgen del Socors, que refiere fray Geronimo Roman; y la otra es de nuestra Señora de Itria, donde acude en sus dias muchissimo concurso del pueblo” (19). Interessante la testimonianza del favore che questa devozione incontrava presso il popolo, ma per Sassari occorre aggiungere che questo culto entrò anche a far parte delle locali rappresentanze di corporazioni e mestieri, ovvero dei Gremi, e così la Madonna diventò la protettrice del “Gremio dei Viandanti” (20). Ciò avvenne in ragione del fatto che la Vergine d’Itria veniva venerata anche come “Madonna del Buoncammino”. Infatti, fin dall’epoca bizantina, chiese e cappelle della Vergine erano poste lungo le strade romane e nei pressi dei valichi montani, quasi a protezione dei viaggiatori: probabilmente fu questo il motivo per cui i due titoli appaiono a volte come intercambiabili. Testimonianza certa di questo culto, infine, si ha per il convento di S. Sebastiano di Alghero, dove, oltre alla festa vera e propria, si celebrava una paraliturgia in onore della Madonna tutti i martedì dell’anno, “i Martedì d’Itria”, come vengono chiamati (21). La scelta del martedì come giorno commemorativo della Vergine proviene direttamente dalla citata Bolla di Paolo V, che concedeva di celebrare detta solennità “in secundo festo Pentecostes, quo die festum Beatae Mariae de Itria celebratur” (22). Il martedì seguente la domenica di Pentecoste, quindi, ricorreva il giorno celebrativo, mobile come la stessa Pentecoste, ma l’onore dovuto alla Madre di Dio e le preghiere a lei rivolte, scandivano settimanalmente il cammino di fede delle comunità agostiniane.

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(16) D. GUTIERREZ, cit., p. 193.

(17) D. SCANO, Codice diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna, parte II: da Gregorio XII a Clemente XIII, Arti Grafiche B.C.T., Cagliari 1941, vol. 2, doc. DLXXXVI, pp. 410-411.

(18) G. SPANO, Guida alla città e dintorni di Cagliari, Tip. A. Timon, Cagliari 1861, pp. 227-228.

(19) F. DE VICO, Historia General de la Isla y reyno de Serdeña, Barcelona 1639, parte VI, cap. 21. Traduz.: “la prima è quella della Vergine del Rimedio, che corrisponde alla Vergine del Soccorso, di cui riferisce Fr. Girolamo Roman: la seconda è quella di N. Signora d’Itria, per la quale, nei giorni della festa, accorre moltissima gente”.

(20) Si veda: Sassari, Storia dei Gremi e dei Candelieri, a c. di C. A. Sanna, Ed. ACS, Sassari 1992, pp. 169-183.

(21) Archivio di Stato Sassari, Fondo Corporazioni Religiose soppresse, Agostiniani, Alghero, b. n. 2. Libro di spesa dal 1853 al 1855.

(22) D. SCANO, cit., p. 410.

 

 

7. I banditi.

Il Martini, nell’elencare i conventi agostiniani rimasti al 1841, così annotava a proposito di quello di Illorai: “Illorayanus, nella villa d’Illorai (soppresso dopo il 1760, ed allora che il ministro Bogino avvisava all’abolizione dei conventini)” (23). [pag. 165] Con il ministero del conte Giovanni Battista Bogino (1759-1773), sotto Carlo Emanuele III, il governo sabaudo iniziava ad occuparsi della questione degli ordini religiosi mendicanti, ritenendo di dover disciplinare il settore secondo le note formule del riformismo illuminato settecentesco: i frati erano troppi e, con possedimenti scarsamente sfruttati e manomorta, erano di intralcio alle riforme economiche e alla modernizzazione dello Stato: bisognava quindi ridurli di numero. Non sto qui a discutere la bontà o meno di tali concezioni: altri lo hanno fatto a sufficienza e non è poi que­sta la sede. Con ciò ho voluto solo far notare che, sebbene il motivo ricordato dal Martini sia storicamente vero, esso non spiega la chiusura del convento di Illorai: quest’ultimo venne abbandonato dai frati per altri problemi, quelli causati dal banditismo. Tale motivazione viene espressamente citata nella relazione del P. Murro, il quale aggiunge come seconda causa quella derivante dalle difficoltà economiche, ma vedremo che le due cose erano strettamente interdipendenti: “en el sobredicho Convento no puede en modo alguno hazerse vida religiosa, ni observarse diziplina regular, attento, que por la tenuidad de su hazienda, y de las limosnas de aquella Villa, apenas podian sustentarse en el dos Religiosos, uno Sacerdote, y otro Lego: à mas que aun lo poco que aquel Convento tenia se lo quitavan, y robavan los malhechores de aquel distrito, y concurrian frequentemente à el, como à Lugar de Asylo, los bandidos, y facinorosos de aquel partido, sin dexar jamas en sossiego à los pobres Religiosos, que en el moraban, y habitavan” (24). Quanto alla “tenuidad de su hazienda”, ovvero alle ristrettezze economiche che vengono avanzate a giustificazione della decisione di lasciare, esse non sembrano essere ragionevolmente credibili: 42 appezzamenti di terreno, per quanto scarsamente redditizi, dovevano ben dare qualcosa; lasciti per 127 Messe all’anno, elemosine, altri proventi di sacrestia e questue, sicuramente non raggiungevano alte cifre, ma costituivano pur sempre un introito decente; in più ancora: ortaggi, grano, vino, insieme ai prodotti caseari ricavati da 12 pecore e qualche mucca, considerati i tempi, potevano soddisfare le esigenze di un piccolo convento di due persone. [pag. 166] Le difficoltà economiche esistevano, in effetti, ma come conseguenza dei continui furti operati da quelli che vengono indicati come banditi e malfattori, i quali depredavano di frequente il convento dei suoi beni e terrorizzavano i religiosi, costringendoli a concedere loro il diritto d’asilo. Così riassume la cosa il priore provinciale, scrivendo al vescovo di Alghero in data 31 ottobre 1765: “en el Convento de Illoray no se podia en manera alguna poner en execucion la observancia regular, ya porque el dicho Convento no podia mantener los Religiosos previstos para esso, ya tambien porque estando en lugar infrequente y solitario, servia por refugio de ladrones, y que en no admitirlos corrian riesgo las vidas de los religiosos, que alli moravan” (25). In quello stesso anno 1765, e precisamente dal 27 aprile, era stato celebrato il Capitolo Provinciale. In quella sede i padri agostiniani affrontarono i problemi relativi al convento di Illorai e, nell’inviare gli atti del Capitolo al Priore Generale, furono decisamente più espliciti nell’illustrare la situazione, magari calcando un po’ i toni, allo scopo di ottenere dal Superiore dell’Ordine la chiusura del convento: “Quod Conventus Illoraensis a Sta Maria de Itria nuncupatus, ex maxima qua laborat inopia ab egestate loci proveniente, ad extremam usque et miserandam necessitatem redactus sit: nam praeterquamquod Ecclesia, at Conventus ruinam propediem minantur” (26). E la causa di tanta rovina e di così desolante miseria era da ravvisarsi, a detta dei religiosi, nell’indole e nel comportamento degli abitanti del luogo, che vengono decritti come: “Pauperrimi, perversi, barbariem spirantes, fures ac socii furum sunt, non parcentes rebus ecclesiae; saepe enim equos, boves, ovesque Nostri Conventus subripuerunt; ac tandem foribus dirutis bona Conventus, et utensilia Fratrum in eo commorantium depopulati sunt” (27). [pag. 167] Miseria e banditismo, in una miscela non semplice da decifrare né da capire appieno, sono stati un binomio storico significativo, la cifra atta a comprendere l’orgoglio umiliato di una gente sostanzialmente sincera e vera. Ma due frati non potevano affrontare da soli un problema più grande di loro, né la Provincia trovò la forza, i mezzi, la possibilità di tener fronte ad una situazione così difficile: unde, cum Fratres praepotentiae furum et Bannitorum resistere non possint, accidit, ut fere semper sit receptaculum hominum hujus furfuris; quapropter innumera mala perferre illius Conventus Fratribus sit nocesse. Et cum nulla sit spes tot malis cautionem adhibendi, nullumque possit excogitari subventionis remedium” (28). Impotenti ed impauriti di fronte a tanta prepotenza che, dopo averli derubati ed atterriti, esigeva da loro protezione in nome del diritto d’asilo, i frati conclusero con la richiesta pressante al Priore Generale di concedere la chiusura della casa: “Idcirco Reverendissimam Paternitatem Vestram enixe praecantur, quatenus praefatum Conventum dimittendi, et pauca bona illius Conventus Sti Antonii Abatis Puteomajorensi, qui praedicto Conventui Illoraensi vicinior est, aggregandi, Reverendo Priori Provinciali hujus Provinciae facultatem concedat” (29). P. Francisco Xavier Vàzquez venne incontro alle richieste della Provincia con deliberazione del 25 giugno dello stesso anno, acconsentendo a tutto quanto i religiosi sardi chiedevano, anche alla facoltà di alienare beni non di fondazione del convento, e di trasferire quanto di proprietà dei religiosi nel vicino convento di Pozzomaggiore. Per tornare al problema del banditismo, occorre precisare che la zona del Goceano, territorio sul quale insisteva Illorai, era in quel periodo uno dei luoghi più preoccupanti per il fenomeno. Riporto a titolo di conferma un testo del Filia: “Nelle condizioni topografiche e socialmente anormali della Gallura, fin dalle prime inchieste, era stata additata la causa del banditismo. La gente di Gallura, [pag. 168] riferisce una delle memorie, è la più indomita del Regno, e la vicinanza della Corsica, donde a un segno noto di fumo si staccano le barche che tragittano i delinquenti, la rende più ardita. Banditi di Nughedu, di Bono e della costiera del Goceano rimettono gli armenti rubati ai ladri e pastori della Gallura loro corrispondenti, che li vendono ai còrsi. Da questi ricevono pistole e archibugi” (30). Questa situazione di forte disagio sociale, ampiamente studiata e analizzata dagli storici e dai governi dell’isola, almeno a partire dalla dominazione sabauda, rende sufficientemente conto delle difficoltà in cui vennero a trovarsi i religiosi agostiniani. I frati dovevano essere letteralmente allo stremo ed impauriti, anche perché, pur essendo un periodo in cui le vocazioni non mancavano davvero, anzi si diceva fossero troppe, il provinciale scriveva al vescovo di no tener sugetos de embiar”, di non avere quindi frati disposti ad andare in quel convento, e concludeva, con sano realismo: “porque ninguno quiere perecer de hambre, ni esser sugeto à perder la vida” (31). Concluso il capitolo, il provinciale, nel decidere la destinazione dei religiosi per i singoli conventi, in un primo tempo aveva designato come priore il P. Fr. Gavino Zirota ma, vista accolta la richiesta di chiusura del convento, inviò ad Illorai come “Padre Presidente” P. Fr. Antonio Ignazio Cubeddu, in precedenza stabilito di famiglia nel convento di Alghero. Probabilmente, P. Cubeddu, per il fatto che era già stato in Illorai, era anche più pratico conoscitore della casa, dei suoi problemi e capace quindi di sbrigare al meglio gli oneri relativi alla sua dismissione. Insieme a lui venne inviato Fr. Tommaso Meloni, non sacerdote, con l’incarico di economo e procuratore della casa. In realtà, il compito dei due era quello di provvedere al disbrigo delle operazioni di chiusura, curando di alienare e vendere i beni propri dei religiosi, cioè non vincolati alla fondazione, e di portare il tutto, come da decisione capitolare, nel più vicino convento di Pozzomaggiore.

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(23) P. MARTINI, cit., p. 458.

(24) ACVO, cit., c. 16. - Traduz.: “Nel sopra detto convento non è possibile condurvi in modo alcuno vita religiosa, nè osservarvi la disciplina regolare, considerato che, per la scarsità dei suoi beni e delle elemosine di quel paese, appena potevano vivere in esso due religiosi, uno sacerdote e uno laico; e inoltre, anche quel poco che il convento possedeva se lo prendevano e rubavano i malfattori di quel distretto (del Goceano, nda); e si recavano spesso al convento, come a luogo in cui trovare asilo, i banditi e facinorosi di quel territorio, senza mai lasciare in pace i poveri religiosi che ivi dimoravano”.

(25) ACVO, cit., c. 12 - Traduz.: “Nel Convento di Illorai non si poteva in alcun modo porre in essere la vita religiosa secondo la Regola, sia perché detto convento non era in grado di mantenere i religiosi previsti per esso, sia perché, trovandosi in luogo poco frequentato e solitario, serviva da rifugio per ladri. Inoltre, nel rifiutarsi di lasciarli entrare, mettevano a repentaglio la propria vita i frati che lì abitavano”.

(26) AGA, Ff. 53, 435. - Traduz.: “(si fa presente) che il Convento di Illorai, del titolo di S. Maria d’Itria, per la massima indigenza in cui versa, conseguenza della povertà del luogo, si trova in una situazione di bisogno e di necessità estremi. Infatti, eccettuata la chiesa, il convento, nel volgere di breve tempo, è minacciato da rovina”.

(27) AGA, Ff. 53, 435. - Traduz.: “sono poverissimi, malvagi, esalanti barbarie, ladri e complici di ladri, non hanno riguardo neanche alle cose di chiesa; spesso, infatti, hanno sottratto cavalli, buoi e pecore del Nostro Convento. Infine, abbattute le porte, hanno saccheggiato i beni del convento e gli utensili dei frati che in esso dimoravano”.

(28) AGA, Ff. 53, 435.- Traduz.: “pertanto, poiché i frati non possono far fronte alle prepotenze di ladri e banditi, succede che quasi sempre (il convento) diventi ricettacolo di gente di questa risma. Tale situazione obbliga i Frati a sopportare un numero infinito di guai, e dal momento che non v’e affatto speranza d’ovviare con accortezze a tanto male, non è possibile escogitare alcun rimedio per risolvere la situazione”.

(29) AGA, Ff. 53, 435.- Traduz.: “Pertanto, supplichiamo la Rev.ma Paternità Vostra, affinché conceda ai Rev.do Priore Provinciale di questa Provincia la facoltà di chiudere il predetto convento di Illorai e di attribuire i pochi beni di questo al convento di S. Antonio Abate di Pozzomaggiore, ad esso più vicino”.

(30) D. FILIA, cit., vol. III, p. 63.

(31) ACVO, cit., c. 13. - Traduz.: “perché nessuno desidera morire di fame, nè esser soggetto a perdere la vita”.

 

 

8. Controversie seguite alla chiusura del convento.

A seguito della decisione di lasciare ci furono strascichi e polemiche, che coinvolsero la parrocchia, gli abitanti di Illorai, il vescovo di Alghero, i suoi delegati e gli eredi dei fondatori da una parte, la provincia agostiniana e i frati del convento dall’altra: [pag. 169] i primi tutti compatti contro i due poveri frati, i quali, ubbidendo ad ordini superiori, stavano provvedendo ad alienare alcuni beni di effettiva proprietà dell’Ordine, facendo attenzione a non toccare beni lasciati dai fondatori, o provenienti da donazioni fatte esplicitamente per la chiesa e il culto della Madonna. Poiché così era stato deciso nel capitolo provinciale, a tale decisione era venuto incontro il Superiore Generale; disposizioni a favore dell’operato dei frati venivano, infine, dalla spesso citata Bolla del 1652 di Innocenzo X, sull’abolizione dei piccoli conventi. Non appena i frati provarono a vendere qualcosa degli utensili, nella fattispecie cucchiai o pentole, e qualche appezzamento di terreno lasciato da religiosi agostiniani nativi del luogo, si scatenò contro di essi l’inferno. Il vescovo inviò immediatamente al convento il Rettore di Bono, il R.do Giovanni Meloni, accompagnato da parroco e viceparroco dello stesso paese, dal vicario di Bottida con tanto di segretario al seguito: costoro interrogarono il priore e, tra gli abitanti di Illorai, i testimoni che sapevano delle famose vendite. Riferirono poi al vescovo, il quale, in un carteggio col priore provinciale, fece ben intendere la sua volontà di bloccare tutto e di avocare a sé la questione: i beni non si dovevano alienare, anzi erano da destinarsi alla parrocchia del paese. Si hanno tutti i contorni di una vicenda meschina, nella quale i frati escono comunque a testa alta, abbandonando tutto; dopo l’esperienza degli assalti dei banditi, forse non si aspettavano un attacco così virulento da parte, non solo dell’autorità ecclesiastica, ma anche di gente alla quale avevano prestato un servizio religioso continuo e senza problemi. Alla fine, anche la vendita delle 12 pecore, che tutto potevano essere meno che beni di fondazione, venne dichiarata nulla. Padre Cubeddu consegnò tutto al notaio appositamente inviato dal vescovo d’Alghero, e concluse la vicenda affidando a quest’ultimo le chiavi. Inutili le richieste della provincia: “Y siendo, como son, estas cosas profanas, en nombre del Muy Reverendo Padre Provincial y à toda esta Provincia, suplico à S.S. Il.ma y R.ma conceda el permisso y licencia de poder asportar, vender y alienar las sobredichas cosas expressadas en este ultimo inventario de cosas profanas y utensilios, que devevan aplicarse al Convento mas vezino, segun manda nuestro Rever.mo Padre General a tenor de lo dispuesto en las sagradas Constituciones de nuestra Orden, que demas de ser conforme à lo que manda y ordena el S.mo Padre Inocencio X en la citada Bula, lo recibirà à particular gracia de la benignidad de Su Señoria Il.ma” (32). [pag. 170] Nessuno sentì ragioni, tutti anzi furono determinati nel non concedere nulla, neanche quanto era di diritto. Sicuramente stanchi, ma forse più amareggiati dallo spettacolo per niente edificante di quanto accadeva, i frati compirono infine un gesto di generosità oltre il dovuto, ironizzando sulle miserie umane di sempre. Il provinciale, infatti, riferendo al vescovo d’Alghero sul perché non aveva avvisato in tempo la diocesi della decisione di lasciare, sembra abbozzare un sorriso sulla vicenda: “los de essa Villa, que tambien à esso, serian capazes de hazer oposizion, si alcansavan la noticia, que se desamparava este gran convento” (33). Finita in questo modo la cosa, la chiesa continuò ad essere officiata almeno fino al 1785, secondo quanto riferisce il Casalis: “In Illorai furono già i frati agostiniani, e sono tuttora visibili all’estremità dell’abitato verso mezzogiorno le mura del convento e della chiesa, nella quale si è cessato di festeggiare intorno all’anno 1785” (34). Quando il Casalis nel 1841 pubblicava la sua opera esistevano ancora i resti del convento e della chiesa, evidentemente in stato di abbandono e di rovina. Oggi non ve n’è più traccia, neanche un segno a ricordo di una storia che sembra finita nel nulla. Solo i documenti esaminati in questo studio conservano la memoria di una piccola porzione di storia religiosa dell’isola, storia intessuta di slanci di fede, di generosità ed altruismo, ma anche di forti contraddizioni e di momenti oscuri. Tuttavia, un segno di continuità con la presenza degli agostiniani resta ancora oggi, ed è rappresentato dalla devozione verso S. Nicola da Tolentino, la cui festa viene celebrata il 10 settembre e costituisce il momento di aggregazione religiosa e civile più importante dell’anno, pur non trattandosi del santo patrono. Il santo tolentinate, figura di asceta ed apostolo, sembra riassumere in sé i modi della presenza agostiniana in Illorai: la solitudine della contemplazione, anima e spinta dell’azione pastorale tra la gente.

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(32) ACVO, cit., c. 19v. - Traduz.: “Ed essendo, come sono, questi beni profani a nome del Molto Rev.do Padre Provinciale e di tutta la Provincia, supplico Vostra Signoria Ill.ma affinché conceda il permesso e la licenza di poter portar via, vendere o alienare le suddette cose elencate in questo ultimo inventario di beni profani e utensili, che dovevano assegnarsi al convento più vicino; secondo quanto ordina il nostro Rev.do P. Generale, nel rispetto delle norme presenti nelle Sacre Costituzioni del Nostro Ordine, e in conformità a ciò che stabilisce e ordina il SS.mo Padre Innocenzo X nella citata Bolla. Questa Provincia lo accoglierà come particolare grazia della benignità di Vostra Signoria Ill.ma”.

(33) ACVO, cit., c. 14. - Traduz.: “Gli abitanti di quel centro, anche a ciò sarebbero stati capaci di fare opposizione, qualora avessero conosciuto in anticipo la notizia che si lasciava questo gran convento.

(34) G. CASALIS, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino 1841, vol. VIII, p. 461.