La chiesa di
Sant’Agostino e la tradizione agostiniana in Cagliari
di Carlo
Sole
La
chiesa di S. Agostino in Cagliari ha avuto la sua piccola storia, con un suo
antefatto, con un suo svolgimento, con un suo esito. E l’esito, purtroppo, lo
abbiamo davanti ai nostri occhi. Il nostro auspicio è che da questo momento
incominci per essa un nuovo ciclo storico, che pur ricollegandosi col passato,
almeno per quel che di positivo e di valido esso ha potuto esprimere,
corrisponda per il presente e per l’avvenire alla necessità di un rinnovamento
spirituale, culturale e sociale da tutti desiderato.
Ma,
prescindendo dalla funzione che questo sacro edificio potrà esercitare nel
futuro, vediamo quale testimonianza ci ha lasciato relativamente al passato: una
testimonianza che, comunque la si voglia giudicare, vale pure sempre ad
attestare, insieme a quella di tutte le altre chiese della città di Cagliari, la
natura, il grado e l’intensità del sentimento religioso dei Cagliaritani nel
passato.
Che
cosa, dunque, può dire lo storico sulle vicende interne ed esterne di questa
chiesa? Ben poco, in verità, perché scarsa o nulla è la documentazione scritta
che ci è rimasta. L’archivio dell’annesso convento dei frati agostiniani che la
officiarono per circa tre secoli è andato distrutto o disperso dopo che, con la
morte dell’ultimo frate superstite, il padre Simone Sanna, avvenuta nel 1889, il
Municipio di Cagliari ordinava la chiusura del convento e della chiesa e la
traslazione delle statue e delle suppellettili sacre nella vicina chiesa
parrocchiale di S. Eulalia. Pochi documenti, e tutti di scarsa rilevanza, ho
potuto rintracciare nel locale Archivio di Stato: si tratta di documenti che
riguardano la seconda metà del ‘700 e il primo ‘800 e concernono per lo più
controversie di carattere fiscale, giurisdizionale e amministrativo tra il
convento e le autorità civili. Del resto non bisogna dimenticare che l’Ordine
agostiniano non ebbe a Cagliari e in Sardegna la grande diffusione e importanza
che ebbero invece altri Ordini, quali per esempio i Francescani di varia
osservanza, i Domenicani, i Mercedari, gli Scolopi e soprattutto i
Gesuiti.
Il
discorso può diventare più articolato e specifico se, in mancanza di fonti
documentarie dirette, ci si rifà alla tradizione storica raccolta e tramandata
in diversi tempi da vari scrittori di cose ecclesiastiche più o meno autorevoli
ed accreditati, dal Fara all’Aleo, dal Vico al Vidal, dal Cossu al Mattei, dal
Martini al Filia. Questi autori, in sostanza, ci dicono che fin dai primi secoli
del Cristianesimo esisteva in Cagliari una forte tradizione agostiniana; che il
culto di S. Agostino fu ripreso e rinvigorito durante la dominazione spagnola;
che questa chiesa, conosciuta col nome di S. Agostino “nuovo”, fu costruita, per
ragioni di sicurezza militare, entro le mura del quartiere della Marina
(l’allora Lapola) verso la fine del ‘500 in sostituzione di un’altra chiesa
esistente “extra muros” nel vicino quartiere di Stampace; che chiesa e convento,
dopo un certo splendore nell’età spagnola, ebbero poi vita stentata e difficile
fino all’abbandono e alla chiusura nella seconda metà del secolo
scorso.
Dunque, l’elemento oggettivo che più importa mettere in risalto e che
giustifica, sul piano storico e religioso, la presenza di questa chiesa nel
contesto urbano di Cagliari è la persistenza di una forte tradizione
agostiniana, riconducibile, nelle origini, alle vicende oscure e assai
travagliate, ma pur sempre gloriose, della prima diffusione del Cristianesimo in
Sardegna.
Senza volerci addentrare in questa problematica storica, ci basterà
ricordare che una prima presenza di cristiani deportati da Roma nell’isola per
punizione (i famosi condannati “ad metalla”, cioè a lavorare nelle miniere del
Sulcis e dell’Iglesiente) è attestata dalle fonti verso la fine del secondo
secolo: ma ciò non significa che necessariamente esistessero delle vere e
proprie comunità cristiane locali. Dati più probanti si hanno per la metà del
terzo secolo relativamente alla deportazione del pontefice Ponziano e del
presbitero Ippolito sotto l’impero di Massimino di Trace. Nel corso di quel
secolo la Sardegna, dove le prime comunità cristiane si erano nel frattempo
formate nei centri abitati costieri (Carales, Nora, Sulcis, Tharros, Turris), fu
crudelmente toccata dalle persecuzioni di Diocleziano. Fu quella la gloriosa età
dei martiri: e nel martirologio cristiano compaiono i primi nomi di martiri
sardi: San Simplicio, San Gavino, San Lussorio, San Saturno, Sant’Efisio,
Sant’Antioco, per ricordare i più noti, sui quali si formò poi tutta una
tradizione non solo religiosa, ma anche letteraria e perfino
folcloristica.
Per
il quarto secolo è certa la costituzione delle prime sedi epìscopali
nell’Isola: al Concilio di Arles, nelle Gallie, del 314 - l’anno successivo al
famoso Editto di Costantino - fu presente il vescovo di Cagliari
Quintasio. In realtà tutta la Chiesa sarda, nelle persone e nell’azione dei suoi
vescovi, fu attivamente presente nelle contese dottrinali e anche nelle lotte
politiche per la difesa dell’ortodossia cattolica contro le deviazioni delle
eresie e degli scismi, e soprattutto contro l’arianesimo.
E il
momento in cui si afferma prepotentemente la personalità di Lucifero di
Cagliari, il battagliero vescovo che, insieme con un altro grande sardo, Eusebio
vescovo di Vercelli, patì l’esilio in Oriente per essersi opposto al volere
dell’imperatore Costanzo II di abbracciare l’arianesimo, e anzi irrigidì a tal
punto la sua intrasigenza dottrinale da dar luogo ad un suo scisma rigorista,
quello appunto detto Luciferiano.
Ho
premesso queste semplici nozioni storiche per meglio definire il contesto nel
quale, tra il quinto e il sesto secolo, si instaurò a Cagliari il
culto e la tradizione agostiniana. Erano tempi assai calamitosi per tutto il
mondo romano occidentale, e per la Sardegna in particolare. Caduto l’impero
d’occidente sotto i colpi dei barbari, l’Isola soggiacque per un certo tempo al
dominio dei Vandali. Questi, già insediatisi stabilmente nell’Africa
settentrionale, esplicarono nel campo religioso una politica volta a sostenere
l’eresia ariana e a perseguitare coloro che non vi aderissero. Fu così che al
tempo del re Trasamondo numerosi vescovi e presbiteri africani (chi dice un
centinaio, chi oltre duecento) rimasti fedeli alla ortodossia cattolica e al
dogma niceno della consustanzialità del Padre e del Figlio, furono esiliati in
Sardegna, Il più autorevole di essi per pietà e per dottrina, anche se ancore
molto giovane, era il famoso vescovo di Ruspe Fulgenzio, il primo grande
interprete, continuatore e propagatore della concezione agostiniana della
Grazia; vi era pure il vescovo di Ippona Feliciano, che aveva portato con sè le
spoglie mortali del suo grande predecessore Agostino, morto circa 80 anni prima
e già fatto oggetto di venerazione.
Gli
esuli si stabilirono a Cagliari e nei dintorni, assistiti amorevolmente dal
vescovo della Chiesa locale, Primasio, e confortati con lettere di
incoraggiamento dal pontefice Simmaco, sardo d’origine. Essi poterono così
esplicare liberamente, sia pure in mezzo a grandi strettezze, l’attività
sacerdotale di preghiera, di meditazione, di insegnamento, di approfondimento
dottrinale e di confutazione delle eresie. La loro massiccia presenza in un
ambiente ancora imbevuto di paganesimo costituì un momento fondamentale, per la
rinascita della fede e della cultura a Cagliari. Durante il lungo esilio, San
Fulgenzio attese alla redazione della maggior parte della sua opere, scritte
tutte nel solco della più autentica dottrina agostiniana. Fondò ai margini della
città, nei pressi della basilica di San Saturno, un importante cenobio, dove si
meditava, si discuteva di argomenti di fede, si predicava, si scriveva, si
compivano atti di carità cristiana.
Un
punto di riferimento per la preghiera e per la meditazione era di sicuro la
tomba di S. Agostino, presumibilmente fin da allora collocata nella cripta
sotterranea di una chiesa posta in prossimità del mare, nei pressi dell’attuale
Palazzo Comunale: sacello che ancor oggi si conserva, purtroppo abbandonato e
dimenticato. Alla fondazione del cenobio di San Saturno si accompagnò la
creazione di altri nuclei di comunità religiose: incominciava così un importante
movimento che dal monachesimo di origine africana si estese via via a quello di
estrazione orientale quando, alla breve dominazione dei Vandali, si sostituì
nell’Isola quello dei Bizantini, per giungere poi, dopo il Mille, cioè al tempo
dei Giudicati, alla grande fioritura del Monachesimo occidentale nelle sue varie
specificazioni dì Vittorini, di Camaldolesi, di Vallombrosani, di Cassinesi, di
Cistercensi, rifacentesi tutti al comune ceppo
benedettino.
E
presumibile che durante i secoli bui dell’Alto Medioevo, per l’influenza e la
prevalenza, prima della Chiesa greca e poi degli Ordini monastici occidentali,
la tradizione agostiniana a Cagliari si sia affievolita, se non del tutto
obliterata, e ciò anche perchè era venuto a mancare il motivo principale di
riferimento: la tomba del Santo. Infatti ai primi dell’ottavo secolo, intorno al
722, per ovviare al pericolo di una eventuale profanazione dei saraceni, che con
continue scorrerie saccheggiavano e devestavano le città costiere sarde, il pio
re dei Longobardi Liutprando aveva riscattato a caro prezzo dai sacrileghi
invasori Arabi il corpo di S. Agostino, facendolo trasportare con grande
solennità a Pavia e deponendolo in un’artistica tomba nella basilica di San
Pietro in Ciel d’Oro. I resti oggi riposano nella Cattedrale di
Pavia.
Tale
tradizione fu sicuramente ripresa qualche secolo piu tardi, quando, dopo il
Concilio Lateranense del 1059 [=1214],
i seguaci di S. Agostino si costituirono in ordine monastico, quello degli
Eremitani o Romitani, aggiungendo alla antica regola della pura contemplazione,
dettata dallo stesso S. Agostino, quella della predicazione e della
evangelizzazione. L’Ordine degli Agostiniani fu fiorente soprattutto in Spagna,
e dalla Spagna venne sicuramente quel gruppo di Eremitani che, secondo
l’attestazione del Vico, troviamo presente a Cagliari intorno al 1400 nella
chiesa - il S. Agostino “vecchio” - sorgente sulla cripta dove per oltre
due secoli aveva riposato il corpo del Santo.
Pare
che quei primi monaci non osservassero strettamente la Regola dell’Ordine, se è
vero, come attesta ancora il Vico, che nel 1480 venne dalla Spagna un frate,
chiamato Esarco, per richiamarli a miglior disciplina. Un primo convento, oggi
distrutto, fu costruito verso il 1411 per iniziativa di fra Agostino Carbonell,
che così potè rendere autonoma la provincia sarda dell’Ordine, prima dipendente
da quella d’Aragona. Tra i secoli XV e XVII l’Ordine della provincia segnò un
periodo di grande prosperità, tanto che verso la metà del 1600 si contavano in
tutta l’isola ben 10 conventi di Agostiniani. Fu verso la fine del 1500, sotto
il regno di Filippo II di Spagna, che per ragioni di sicurezza militare la
chiesa e il convento di S. Agostino “extra muros” furono abbandonati e demoliti
per dare luogo ai lavori di ristrutturazione del quartiere di Stampace, lavori
che avevano la funzione di meglio proteggere i baluardi della città fortificata
del Castello e del sottostante popoloso rione di Lapola, l’attuale Marina,
prospiciente sul porto. Così, abbattuta l’antica chiesa di San Leonardo, sulle
rovine di questa o, secondo una versione più accreditata, nelle immediate
adiacenze fu costruita questa Chiesa, il S. Agostino “nuovo”, con l’annesso
convento, oggi incorporato nell’attiguo Distretto Militare. L’antica via San
Leonardo fu allora chiamata via S. Agostino e più tardi, quando chiesa e
convento furono abbandonati, prese l’attuale nome di via Baylle per ricordare il
cagliaritano Ludovico Baylle benemerito raccoglitore di memorie antiche della
sua città, archeologo, erudito, poligrafo di svariati interessi, bibliofilo. Il
fondo Baylle della nostra Biblioteca Universitaria è preziosissimo per
abbondanza di manoscritti e per rarità di libri.
La
notevole espansione degli Agostiniani in Sardegna nei secoli XVI e XVII è da
mettersi in relazione con il grande sviluppo del sentimento religioso, per certi
aspetti però più formale che sostanziale, che caratterizzò dappertutto l’età
della preponderanza spagnola e della Controriforma. Giova a questo punto
ricordare, anche se il rilievo può in un certo senso dispiacere, che i guasti
del cosiddetto spagnolismo si fecero sentire in maniera deleteria soprattutto in
Sardegna. L’enorme proliferazione di chiese, di conventi, di ordini religiosi
mise in moto tutto un processo di trasformazione e di involuzione, in cui
finirono col prevalere sulla pietà, sull’ascetismo, sull’edificazione,
sull’apostolato, i più svariati interessi d’ordine materiale, e cioè
patrimoniale e finanziario. Il quadro che le stesse autorità religiose del tempo
ci hanno lasciato è a dir poco sconfortante: basti pensare al famoso epistolario
dell’arcivescovo di Cagliari Parraguès e alla altrettanto famosa relazione del
Visitatore spagnolo Martin Carrillo, canonico di
Saragozza.
Non
dimentichiamo però che nel ‘500 / ‘600 la Sardegna toccò il livello più basso di
decadenza in tutti i campi, non solo in quello religioso. Nonostante una certa
tendeza della più recente storiografia a rivalutarne determinati aspetti, il
quadro, dicevo, è davvero sconfortante. L’autorità civile appare sminuita e
addirittura mortificata dalla potenza anarchica di parassitari ceti privilegiati
- feudatari e alto clero in primo luogo -; la giustizia era resa
inadeguata e impotente dalla confusione e dalla inosservanza delle leggi; gli
abusi inveterati costituivano fonte di disordine e di corruzione negli
ordinamenti amministrativi; il banditismo rurale e le clientele cittadine erano
al servizio dei potenti: le campagne si presentavano disabitate e languenti, e
nella sonnolenta vita cittadina il ristagno dovuto alla scarsezza di industrie e
di commerci era aggravato dalla mancanza del soffio vivificatore del pensiero e
della cultura.
In
siffatto quadro, quale era la condizione del clero secolare e regolare? Stando
alle fonti non sospette dianzi citate, i parroci rurali e anche quelli cittadini
e i frati dei conventi erano in gran parte - cito testualmente dall’epistolario
del Parraguès, tra virgolette - “rozzi, ignoranti, avari, spregiudicati,
intriganti, usurai, concubinosi”; sicché lo stesso arcivescovo, Parraguès,
figura veramente elevata per dottrina, per zelo episcopale e per inflessibile
rigore morale, sentì il bisogno - siamo alla vigilia del Concilio di Trento - di
ricondurre con pubblico editto il gregge dei fedeli ed i rispettivi pastori
all’osservanza delle leggi della Chiesa. “Queste leggi - è detto in una
sua lettera - sono tanto trascurate, che ciascuno fa ciò che gli piace, e le
pecore non conoscono il pastore, nè il pastore le pecore”. E altrove: “Il male è
che tutti i benefici - e qui per benefici si intendono le rendite
ecclesiastiche, le decime, le prebende, le donazioni, lasciti, le pensioni ecc.
- tutti i benefici sono assorbiti e posseduti da quaranta o cinquanta persone al
massimo, delle quali nessuna o poche risiedono nella loro chiesa; per cui le
popolazioni mancano del loro pastore o sono servite da mercenari attratti dal
denaro e non amovibili. La maggior parte dei parroci e dei frati sanno a mala
pena leggere, non hanno alcuna nozione delle leggi di Dio e della Chiesa, non
sanno insegnare ai fedeli più del Pater noster e dell’Ave Maria; la confessione
si fa in dialetto sardo: sicché è miracolo di Dio che il popolo sia conservato
al Cristianesimo”.
Occorre tuttavia osservare che la denuncia dell’intransigente
Arcivescovo, fatta con tono addirituta savonaroliano, va riferita alla
situazione sarda del 1500. Più avanti, per il processo di rinnovamenteo promosso
dal Concilio Tridentino, essa muterà sensibilmente. Istituiti i Seminari
diocesani, create le scuole dei Gesuiti e degli Scolopi, fondate le due
Università di Cagliari e Sassari, e posto l’insediamento sotto la guida di
docenti tutti ecclesiastici, promossa una certa attività editoriale a sfondo
letterario-religioso, un certo qual correttivo alle carenze e alle deviazioni
lamentate fu indubbiamente messo in atto, anche se assistiamo ancora, in un
clima di esaltazione religiosa tutta formale ed esteriore, alla ridicola contesa
campanilistica per la preminenza dell’Arcivescovo di Cagliari su quello di
Sassari e alla falsa invenzione o ritrovamenti di corpi santi un pò
dappertutto.
E la chiesa e il convento di S. Agostino? Evidentemente
i frati Eremitani non restarono indenni da pecche e da deviazioni, se è vero,
come parrebbe risultare dagli atti dell’inquisizione, che taluni di essi furono
più volte deferiti ai tribunali ecclesiastici con accuse piuttosto pesanti,
scarsa religiosità, furto, usura, contrabbando, traffici con donne - per così
dire - di non buona reputazione. Ciò va spiegato, se non giustificato, sia con
la generale rilassatezza di constumi propria di quel tempo, sia, soprattutto,
col fatto che quei frati vivevano e operavano in un quartiere portuale e
commerciale, dove si intrecciavano traffici e interessi di tutti i generi, dove
convenivano persone di tutte le nazionalità e di tutte le estrazioni sociali,
dove era più facile cedere alle lusinghe e alle suggestione del tornaconto
materiale e delI’affarismo illecito. Solo così si spiega la parabola
discendente, il progressivo decadimento della chiesa e della comunità religiosa
di S. Agostino. Del resto durante il successivo periodo sabaudo (‘700 e prima
metà dell’800) la politica giurisdizionalistica dei nuovi sovrani fu
costantemente rivolta ad affermare la preminenza del potere civile su quello
religioso, con le conseguenze che tutti conosciamo: basti pensare a quel che
accadde ai Gesuiti, espulsi dall’isola e privati dei loro beni e del loro
potere.
Non
compresi nella Legge piemontese del 1855 sulla soppressione dei Conventi e delle
Corporazioni religiose, gli Eremitani di S. Agostino di Cagliari lo furono
invece nella Legge di soppressione del 1861 e in quella successiva del 1866
relativa alla liquidazione dell’asse ecclesiastico. La chiesa e il convento
furono acquisiti al demanio statale, e da questo subito dopo trasferiti alla
proprietà del Comune di Cagliari, che deliberò la chiusura della chiesa al culto
nel 1859, quando era Arcivescovo mons. Berchialla. Gli abitanti del rione non
gradirono molto tale chiusura, e nel 1897 costituirono un comitato parrocchiale
che, forte di ben 9.000 firme, e sostenuto dall’allora arcivescovo monsignor
Serci, chiese, ma inutilmente, la revoca del provvedimento. I voti dei
Cagliaritani della Marina furono esauditi assai più tardi, nel 1925, proprio
quando si temeva che l’edificio dovesse essere demolito per aprire una nuova via
d’accesso al Largo Carlo Felice. Era allora Arcivescovo l’indimenticabile mons.
Piovella. La riapertura al culto avvenne con particolare solennità,
l’officiatura fu affidata al teol. don Amedeo Loi, della vicina parrocchia di S.
Eulalia. Da allora in poi le cose andarono come andarono, e il racconto è
affidato, più che alla storia, alla cronaca e al ricordo di quanti assistettero
impotenti ad un inammissibile abbandono e a una selvaggia spoliazione. E qui
termino, col rincrescimento di non aver trovato tra le fonti storiche di più e
di non poter dire di meglio. Consentitemi, tuttavia, di concludere con una
citazione, che per don Fois e i suoi giovani può suonare come un auspicio. Mi
riferisco al distico finale di una poesia in latino che Leone XIII, il pontefice
della Rerum novarum, compose nel 1884, in occasione dell’apertura e della
ricognizione, nella Cattadrale di Pavia, della tomba di S Agostino: Auspicium
felix! Italae sic reddita genti, / Alma reflorescat pax et avita
fides! che traduco liberamente: Restituito e affidato il corpo del Santo
alla custodia e venerazione del popolo italiano, rifiorisca l’alma pace e
ritorni la fede degli avi!