L’Ipogeo di S. Agostino

di Paolo De Magistris

 

   S. Agostino è morto, come è noto, all’età di quasi 74 anni, quando i vandali, attraverso la loro lunga peregrinazione dall’Est al Nord Europa e poi attraverso la Spagna, spinti dalle ondate successive delle altre popolazioni barbariche, che premevano alla conquista di nuovi territori agricoli e di nuove zone di espansione (le ondate dei Goti, degli Avari, degli Unni che fra il secondo e il sesto secolo si affacciavano all’Europa) i Vandali, ecco, attraverso la Spagna stanno dilagando nell’Africa del Nord che è rimasta quasi l’ultima provincia dell’ormai dissolto Impero di Occidente. Provincia in cui sembra essersi ripetuta una vicenda che l’Africa del Nord conobbe già un’altra volta col rifugio del Senato in occasione della guerra fra Silla e Mario; l’ultima provincia in cui sembrava essersi salvata la romanità.

   Dice la tradizione, dicono le Vite di S. Agostino, che Egli sia morto recitando i salmi penitenziali. Ecco forse si può senza troppe fantasie (di quelle che qualche volta gli storici si abbandonano a fare) si può pensare che sia morto con questa tristezza, alla visione della distruzione che questi barbari stavano operando non solo di quello che è il patrimonio, diciamo, della cultura civile di quelle zone e, come ho già detto, della romanità che sembrava essercisi rifugiata, ma della stessa integrità religiosa in quanto i Vandali, questi giganti biondi dagli occhi azzurri ma contemporaneamente inflessibili, gelidi e feroci come sarebbero stati - generazioni dopo - i nazisti di Hitler - questi Vandali erano ostinatamente e violentemente ariani: si erano convertiti da poco al Cristianesimo ricevendolo da sacerdoti e vescovi ariani e con zelo da neofiti avevano anche assimilato la carica di astio, di odio e di ferocia che gli ariani avevano verso i cristiani ortodossi. Forse appunto con il presentimento di questa catastrofe, di questo tramonto malinconico di un mondo di valori che in un certo modo autorevole, addirittura, rappresentava; forse è sotto questa spinta, questa meditazione su questo tramonto di questa pagina di storia che volta, che S. Agostino aveva non da molto elaborato quel trattato De civitate Dei, la città di Dio, che pur concludendosi con una visione solare, luminosa del trionfo diremo escatologico, e con la certezza che in termine moderno diremmo esistenziale del contributo di civiltà umana che il cristianesimo aveva rappresentato, che pur concludendosi, ripeto, con questa positiva, ottimistica, radiosa luminosità, esordisce proprio ricordando i mali che alla civiltà romana e quindi a quella che era allora la civiltà umana avevano portato le ormai secolari ricorrenti invasioni di barbari più con il sovvertimento dei valori cioè col rifiuto, col rovesciamento dei valori della civiltà, che non con la stessa distruzione guerresca, in cui i Vandali si erano dimostrati tanto capaci da essere diventati, forse anche ingiustamente, eponimi del significato più tragico che si possa dare all’opera distruttrice che ancora oggi si chiama vandalismo. Diciamo che ne è un esempio anche la Chiesa di S. Agostino nuovo: ci torneremo.

Bene, proprio a questi Vandali, al loro ereticale accanimento di cui ho parlato, a questo loro fanatico passionale odio verso la gerarchia fedele al Papa e a Roma e ai Dogmi della Chiesa ortodossa, Cagliari deve la presenza delle spoglie mortali di S. Agostino e la Sardegna la diffusione di un culto che ancora persiste lungamente e tenacemente fino a diventare caratteristica di talune zone: per esempio la zona di Abbasanta e nella zona dell’alto oristanese la festa di S. Agostino celebrata, come patrono, è sicuramente la festa di maggiore attrazione. Ma sono molti altri i paesi e le città che conservano la memoria ed il culto di S. Agostino e non solo quelle dove furono nel tempo conventi agostiniani come Cagliari, Alghero e Sassari (anche Alghero e Sassari hanno la Chiesa di S. Agostino) ma anche altri dove il culto evidentemente si era radicato per ragioni proprio esclusivamente di devozione. Da Pauli Arbarei a Belvi a Villaspeciosa a Sorso, Ala dei Sardi, Muravera, Armungia, etc. Una tradizione non controllata e penso addirittura non controllabile e sulla quale hanno pesato le nefaste carte di Arborea vuole che S. Agostino avesse già visitato Cagliari prima che il suo corpo ci venisse a seguito dei Vescovi Nord-africani esiliati dal re Irasamondo. Addirittura questa tradizione, appoggiata purtroppo alle carte di Arborea e quindi da prendere con molta cautela se non da respingere a priori, vuole che nel 388 vi avesse costruito una chiesa la quale sarebbe sorta proprio sul luogo dove circa un secolo e mezzo dopo sarebbe stato riposto il Suo corpo. Addirittura le carte di Arborea sostengono che nei primi anni dell’ottavo secolo accanto a questa chiesa ci fosse già un romitorio di agostiniani. Ho già detto quanto credito meritino le carte e non ci insisto, l’ho menzionato soltanto perché qua e là se ne trova cenno. Il fatto certo è che la carta di Cagliari, disegnata da Sigismondo Arquer e pubblicata nell’Atlante del Munster, figura al confine tra il quartiere di Stampace e il quartiere della Marina un Monasterium Sancti Augustini. Siccome la carta dell’Arquer è del 1558 questo Monastenium Sancti Augustini non è certamente nè questa chiesa dove stiamo parlando nè l’attiguo convento trasformato poi in caserma Carlo Emanuele, cioè non si tratta sicuramente di quello che nella posteriore tradizione venne chiamato Sant’Agostino nuovo per distinguerlo appunto dal Sant’Agostìno Vecchio. Si tratta quindi del Sant’Agostino Vecchio che sorgeva nell’area su cui agli inizi di questo secolo fu edificato il palazzo Accardo prospiciente il Largo Carlo Felice, quella zona che allora si chiamava proprio contrada di S. Agostino il cui nome è rimasto nella via S. Agostino che costeggia il porto e nel molo o calata di S. Agostino e che esisteva fino al 1880 circa, non certo nelle forme che è presumibile avesse in epoca molto antica, fosse o meno o vera la tradizione riportata dalla Carta di Arborea, ma nelle forme tardo-gotiche aragonesi che ebbe quando, per effetto dell’attuazione di un certo piano di potenziamento delle fortificazioni di Cagliari verso il mare, realizzato sotto il regno di Filippo II di Spagna, la precedente chiesa venne distrutta perché era sistemata in un posto che disturbava il tracciato delle fortificazioni e fu ricostruita per iniziativa di Filippo II; gli Agostiniani che avevano lì il loro convento ottennero la costruzione della nuova chiesa, e cioè di questa e del convento che è appunto quello che ho citato, che è qui attiguo e che ospita il Distretto Militare. Questa chiesa fu costruita nella zona che era circostante all’antico ospedale di S. Leonardo di Bagnania: il fatto stesso che fosse dedicato a San Leonardo indica che funzionava da Lazzaretto di cui i resti poi, in successive evoluzioni, si trasformarono nell’oratorio della Madonna d’Itria, trasformatosi poi nella Cappella dell’Asilo della Marina da cui il culto della Madonna d’Itria fu trasferito insieme alla confraternita nella chiesa di Sant’Agostino dove è ancora. Della chiesa di Sant’Agostino Vecchio dunque, distrutta per insipienza degli amministratori pubblici che nel frattempo ne erano diventati proprietari per effetto della soppressione dell’asse ecclesiastico, della soppressione delle congregazioni religiose e avocazione al patrimonio dello Stato dei beni ecclesiastici, resta appunto questo tenace ricordo e in qualcuno dei più vecchi restano le descrizioni di alcuni autori, che poi citerò, e resta per fortuna un’immagine, una rappresentazione preziosissima ormai, in una litografia ricavata da un precedente disegno. Questo disegno risaliva al 1858. La litografia è inserita come tavola seconda in un libro, scritto da un canonico Serra che allora era vicario generale della Diocesi di Cagliari, intitolato “Una pagina d’oro della storia ecclesiastica della Sardegna”. Per chi volesse saperne di più dirò che fu stampato a Cagliari dalla Tipolitografia Commerciale nel 1897. Il canonico Serra non ha peli sulla lingua e quando parla di coloro che distrussero la chiesa li denomina “nuovi vandali” (nuovi vandali erano gli amministratori comunali di allora ed è una malattia che persiste) accusandoli di aver permesso lo scempio, e ne è tanto indignato che arriva a dire, con giudizio un pò troppo passionale e probabilmente poco cristianamente caritatevole, che giustamente “furono puniti coloro che profittarono dello scempio compiuto dai nuovi vandali, cioè coloro che acquisirono l’area ottenuta dalla demolizione della chiesa”. Infatti ricorda il canonico Serra che l’imprenditore che aveva operato materialmente la demolizione per recuperare l’area su cu aveva un progetto di costruzione -dirò poi chi era- morì cadendo da un’impalcatura di un edificio che aveva in costruzione a pochissima distanza dall’area incriminata. Questo fatto seguiva per altro, e il canonico Serra lo registra con una certa quale soddisfazione, che dico questa volta giusta, una prima punizione che costui aveva ricevuto già alcuni anni prima dal tribunale di Cagliari che lo aveva condannato per aver abusivamente demolito la chiesa. Chi era l’imprenditore? Chi è cagliaritano soprattutto di una certa età o comunque si occupa di cose di Cagliari non troverà ignoto questo nome: era l’avvocato Francesco Todde-Deplano, nome che figura spesso nelle cronache di Cagliari dell’ultimo scorcio del secolo diciannovesimo, che avendo abbandonato la professione di avvocato si era dedicato alla speculazione edilizia, diremmo in termini attuali, e a cui si devono molte costruzioni compreso il palazzo Todde di cui poi vedremo appunto l’epilogo così disgraziato nella zona dove poi è andata a realizzarsi la piazza del Carmine. Il 17 marzo del 1891 approssimandosi la festa di maggio, S. Efisio, i soliti comitati che allora pullulavano, si diedero da fare per organizzare un programma di feste o comunque di attività. Fra l’altro pensarono ad una grande esposizione zootecnica ed enologica. Si pose il problema della ricerca di spazi adatti e misero gli occhi sulla costruzione ancora incompiuta del palazzo Todde-Deplano, incompiuta perchè legata a una vicenda giudiziaria per via di un mutuo che era stato concesso dal Credito Fondiario Cagliaritano che era fallito trascinando anche il Comune in una vicenda che ha segnato anche, e purtroppo negativamente, lo sviluppo economico ed urbanistico di Cagliari. Decisero di fare un sopralluogo per andare a vedere se questi locali si prestavano. Una turba di personalità cagliaritane tra cui il Preside (molto noto ai Cagliaritani) dell’Istituto Enologico, oggi Istituto Agrario, il Prof. Sante Ceccolini, un certo signor Simmelkior, che era un imprenditore di origine svedese che operava a Cagliari, e tanti altri si arrampicarono per le scale di questa impalcatura, cominciano a commentare che l’edificio andava molto bene; vogliono salire più su, proprio per vedere completamente lo spazio a disposizione. Come arrivano su, l’impalcatura crolla e cascano tutti a terra: un paio furono feriti ed un paio morirono. Morì l’avvocato Francesco Todde-Deplano, morì un giovanissimo ingegnere, l’ingegnere Luigi Rombi. Una vicenda che segnò le cronache di Cagliari per il dolore, per l’angoscia, per lo spavento, per molto tempo. Il canonico Serra lì vide la “ananche”, la vendetta provvidenziale per la distruzione della chiesa di S. Agostino. E’ sorprendente che a questo scempio indirettamente abbia posto mano anche l’ingegner Dionigi Scano, progettista del palazzo Accardo sorto poi sull’ala di Sant’Agostino, che è invece così benemerito della restaurazione e della conservazione di tanti monumenti sardi (dalla chiesa di Sant’Eulalia di Cagliari alla Cattedrale di Santa Giusta e a tanti altri) così come è meritevole per la divulgazione della conoscenza dell’arte, soprattutto dell’architettura sarda con quel suo volume degli inizi del secolo che, nonostante tanti altri lavori, conserva ancora una sua validità. Allora di questa chiesa abbiamo la litografia annessa al volume del canonico Serra e una descrizione che ne fa il Martini così come ne parla Lamarmora nell’Itinerario, così come ne parla Valery nel su “Voyage dans les iles de Corse et de Sardaigne”. Il Martini riproduce anche il testo dell’iscrizione che esisteva sul portone della facciata. Essa ricorda che “Per circa 221 anni in questa sacro luogo furono custodite le spoglie del grande padre Agostino; la tirannide dei saraceni si disfece del corpo -tradurremmo noi oggi - ne è rimasta però l’acqua meravigliosa per sollievo dei malati”. Chiude con la solita invocatoria di tante iscrizioni “Fermati o passeggero e venera il luogo dove fu conservato il santo padre”. Dice il Martini che sulla facciata stava anche un crocifisso di marmo. Con un giudizio estetico che credo un po’ sommario e che la Prof.ssa Serra che ho vista qui, certamente non condividerebbe, allora erano molto sommari nelle attribuzioni, lo fa risalire all’undicesimo secolo e l’argomentazione che ne dà mi sembra un po’ labile. Dice: Siccome l’asta della croce è a forma di tronco, vuol dire che è dell’undicesimo secolo. Erano molto sentenziosi nelle valutazioni estetiche! Al Martini dobbiamo anche l’indicazione delle misure della chiesa. Non era una gran chiesa, era una chiesetta: era lunga dieci metri e larga sei. Diciamo ad occhio e croce le dimensioni che può avere la chiesa di San Pietro in Viale Trieste per chi ha la fortuna di poterci entrare nelle rare volte in cui si apre: altro esempio di incuria! Secondo il Martini la tela che stava sul fondo era una tela umile di pennello spagnolo che aveva preso, secondo lui, il posto di una bella tavola trasportata per salvarla dall’umidità a S. Agostino nuovo: non sapevano che cosa doveva succedere a S. Agostino nuovo in fatto di umidità. Secondo il Martini era addirittura da attribuire ai tempi di Giotto. L’attribuzione a Giotto dei quadri che avessero un paio di secoli era comune. Lo Spano quando ha da risolvere problemi richiama sempre la scuola giottesca. La chiesa sovrasta la cripta? La cripta esisteva? È stata costruita con la Chiesa? È stata realizzata per portarci le spoglie di Sant’Agostino? O preesisteva addirittura all’arrivo di Sant’Agostino? Mi pare che la risposta a questi interrogativi l’abbia data ieri autorevolmente il Prof. Lilliu, quando, senza farne un’affermazione precisa e specifica, lascia intendere che si tratti di un’opera o di una situazione da ascrivere a quella parte della città romana di Cagliari che si estendeva parallela al mare e allo stagno nella zona attualmente occupata grosso modo da Via Sardegna, da un asse che parte da Via Sardegna e attraversa il Viale Trieste, si allunga fino a raggiungere il portus Scipionis in Fangario e la Cagliari che poi fu giudicale. Sapete tutti che i ritrovamenti molto recenti quale quello di Viale Trieste, qualcuno poco più antico come quelli che si fecero quando si scavarono le fondazioni della Banca d’Italia, della Banca del Lavoro, qui nel Largo C. Felice, gli altri ritrovamenti della zona di via Bacaredda, il bellissimo mosaico purtroppo andato a finire al Museo di Torino e che sarebbe oggi auspicabile potesse tornare al Museo di Cagliari, ritrovamenti che testimoniano che il centro, diremo il “foro” di Cagliari, si estendeva proprio in questa zona come ricorda lo stesso Prof. Lilliu ed è testimoniata anche dalla denominazione data alla chiesa di S. Nicolò che sta grosso modo dove oggi sorge la stazione ferroviaria e comunque allo sbocco di Via Sassari, denominazione che i vecchissimi di Cagliari ricordano e che ha persistito nella toponomastica perché ancora pochi, ma comunque alcuni, ricordano ancora che Via Sassari si chiamava “sa calara de santu Nicolau” e che avrebbe portato il titolo di S. Nicolò di Capitoglio, cioè in Campidoglio, cioè del palazzo pubblico della Cagliari romana di allora.

   Alla chiesa, che secondo la tradizione riportata dalle carte di Arborea sarebbe stata addirittura costruita da S. Agostino, è legata anche la leggenda del trave che, troppo corto rispetto alle misure a cui doveva assolvere tecnicamente, sarebbe stato miracolosamente allungato da S. Agostino che risolse il problema: la trave era più corta dei muri, ha allungato la trave e ci ha appoggiato poi la struttura della chiesa. Ricorda il canonico Spano che nel popolo la tradizione di questo leggendario miracolo di S. Agostino, di cui parla anche Vico Mossa in quel suo graziosissimo e curioso libro su queste leggende della Sardegna: (dal varco aperto nelle montagne dell’Ogliastra da S. Giorgio per arrivare più in fretta a visitare i suoi fedeli, a tante altre cose di questa tradizione popolare) la credenza popolare -ricorda il canonico Spano- attribuiva sempre questo valore devozionale a questo prodigio, tanto che i conciatori il cui gremio officiava la chiesetta di S. Agostino il giorno del mese di settembre in cui celebravano la propria festa, lo inghirlandavano e vi appendevano delle lampade. Chi ha avuto la possibilità di scendere alla cripta di S. Agostino nelle rarissime occasioni in cui essa è stata aperta (lo ha ricordato graziosamente Don Fois) non è che trovi molto. Non è un grande monumento, un grande tesoro di arte. È un grande tesoro di tradizioni, di devozione e di significato per quello che ospitò. La cosa più notevole è l’altare di marmo con la nicchia contenente la statua di S. Agostino, bel paliotto intarsiato come altri ne trovate girando lo sguardo qui, coevo a questi, con un bassorilievo che rappresenta appunto il transito di S. Agostino assistito da due angeli. Nello zoccolo dell’altare vi è un’iscrizione di cui anche il Martini riporta le linee. Essa ricorda che è dedicato al Santo Padre Agostino grande Dottore, e la data in cui fu dedicata: il 1642. Questa data ci riporta alla donazione a cui si deve questo altare: l’intervento devoto e generoso di Donna Elena Brondo Y Gualpes che appunto curò la costruzione dell’altare. Vi è un’iscrizione con lo stemma dei marchesi di Villacidro (la famiglia Brondo aveva il titolo di marchese di Villacidro) iscrizione che ricorda appunto come il corpo di S. Agostino trasferito in Sardegna dal vescovo di Ruspe, San Fulgenzio, esiliatovi con gli altri vescovi, è stato lì sino a quando è stato portato via (di questo vi parlerà Mons. Cherchi). In memoria di tanto grande Dottore della Chiesa e a testimonianza di amore e patria verso i santi Donna Elena Brondo eresse quell’altare. La famiglia Brondo era una famiglia di origine mercantile, aveva evidentemente accumulato molte ricchezze, comprò molti titoli nobiliari, molti feudi, compreso appunto quello di Villacidro e di Serramanna. Ebbero il titolo di marchesi nel 1594, si imparentarono abbastanza in fretta (i talleri e gli scudi facevano molto effetto anche allora) con tutte le famiglie nobili più potenti di Cagliari in quel momento. Entrarono in casa Zapata, e proprio il prospetto dell’attuale casa Zapata in quella minuscola piazzetta in cui termina la Via Lamarmora a ridosso del palazzo Boyl e del retro dei resti del Teatro Civico, nell’architrave porta lo stemma della famiglia Brondo e ricorda aulicamente come fu ridotta in forme più nobili e più solenni proprio dal marchese Brondo. Ai Brondo si deve anche la costruzione, la decorazione e l’arricchimento della Chiesa di Santa Croce, e sopra il portale vi è ancora lo stemma della famiglia Brondo. Seguiamo il Martini nella descrizione: “Dietro l’altare si lasciò un vuoto che appunto forma lo speciale oggetto della venerazione dei fedeli, perché secondo la non mai interrotta tradizione è quello che fu appunto chiamato locus, o che a dir meglio è il sito in cui una volta fu riposta la cassa che chiudeva le sacre spoglie di Sant’Agostino. Questo vacuo -continua il Martini- è quasi sempre pieno d’acqua che filtra dalla strada o viene dal mare, sotto il cui livello è la cappella, e tanta è la fede delle glebi nel santo che la tengono per miracolosa e gli infermi ne bevono con la speranza di conseguire la loro guarigione”. Vi ricordo che nell’iscrizione riprodotta nel cartoncino d’invito a questa conferenza si ricorda appunto che i Saraceni portarono via il corpo tirannicamente ma che rimase la mirabile acqua a sollievo degli infermi. È certamente un fatto singolare, non voglio io stabilire rapporti di nessun genere, ma è certamente singolare che Sant’Agostino e l’acqua vadano d’accordo anche altrove perchè a Pavia, dove è oggi il corpo di Sant’Agostino, a San Pietro in Ciel d’oro, dietro il sepolcro sta un pozzo a cui la tradizione popolare attribuisce proprietà miracolose e addirittura Francesco I di Francia, che a Pavia ebbe qualche traversia, volle bere di quest’acqua. In questa cripta di Cagliari -questa di cui vi stavo parlando- il corpo di Sant’Agostino stette dal 504 al 722. La pagina di storia sarebbe interessantissima a leggersi: la presenza di questi vescovi a Cagliari servì a rinfocolare un livello culturale altissimo nell’esercizio della professione della fede. Dopo una prima ospitalità offerta a loro dal vescovo Primasio trasmigrarono nella chiesa di San Saturno e fondarono un monastero. Vi esercitarono l’attività sacerdotale e ministeriale, vi approfondirono la cultura, vi sorse un centro di studio, vi si realizzò uno scriptorium, cioè un luogo dove venivano riprodotti manoscritti per metterli in circolazione. Alcuni di questi manoscritti diventarono famosi, come un certo codice che si trova nell’archivio della basilica di San Pietro a Roma e più ancora il breviario Mozarabico che si trova nell’archivio capitolare di Verona, che ricorda un personagio di Cagliari - un certo Sergius vice Dominus Ecclesiae Calaritanae - e che è più famoso nella storia dei primordi della letteratura italiana perché in mezzo a tante note marginali un lettore tardo ci ha scritto quell’indovinello che da molti viene giudicato il testimone più antico del volgare italiano, più antico addirittura delle famose carte dell’archivio cassinese sui possessi delle terre; indovinello che coll’immagine del bue che ara e dell’aratro che spande il seme raffigura la scrittura “Se pareba alba pratalia”: i buoi che tirano l’aratro, l’aratro è la penna bianca, albo versorio è l’aratro, l’aratro è la penna bianca, albo versorio è l’inchiostro, il seme nero che scende nella terra “albo versorio nigro semen seminaba...” Questo codice sarebbe stato scritto nel monastero di San Saturnino dai monaci che S. Fulgenzio lasciò come eredità a Cagliari.

   Torniamo indietro: fin quando il corpo di Sant’Agostino è stato a Cagliari? Fino a quando re Liutprando, grande re dei Longobardi, pensò di erigersi una grande capitale a Pavia. La volle celebre per monumenti e per relique, incaricò di trovare qualche insigne reliquia che potesse rendere famosa e benedire e consacrare questa sua capitale, e attraverso i suoi emissari venne a sapere che a Cagliari, probabilmente già trascurata per il decorso del tempo, stava la salma di Sant’Agostino. Mandò a Cagliari questi suoi emissari che furono fortunati - sfortunati noi - perchè a Cagliari in quel momento erano presenti i Saraceni che di devozione a Sant’Agostino ne avevano meno degli attuali Cagliaritani; fecero balenare alcuni sacchetti di monete d’oro (“pretio magno” dicono le cronache come le riporta il venerabile Beda e Paolo Diacono); caricarono la salma di Sant’Agostino e se la portarono a Pavia. A Pavia eressero per S. Agostino la basilica di S. Pietro in Ciel d’oro dove poi fu anche trasportato il corpo di Boezio, che è oggi il monumento insigne di Pavia che si onora di questo corpo. A Cagliari è rimasto solo l’Ipogeo; lì c’è l’apogeo, qui è rimasto l’Ipogeo e il ricordo. È rimasta qualche altra cosa: le vesti di S. Agostino, l’amitto, i vestiti, cioè le pianete, vesti liturgiche, la mitra ed il baccolo. Dopo la vendita del corpo di S. Agostino furono prima nascoste in una grotta che le testimonianze indicano come grotta di San Giovenale (di difficilissima ubicazione); poi tornando alla chiesa, ma quando gli agostiniani si trasferirono e poi lasciarono addirittura la Sardegna, furono trasportate al convento francescano dei conventuali tra l’attuale Corso V. Emanuele e la Via Sassari e la via Mameli: altra testimonianza, se non del vandalismo degli amministratori pubblici, certamente dell’incuria, perché è diventata anch’essa patrimonio pubblico comunale a seguito dell’esenzione. Fu assolutamente trascurata, non fu mai riparato il tetto, tanto che al primo temporale capitato verso gli anni 1880 un fulmine si scaricò sul tetto, la chiesa si adagiò come un castello di carta distruggendo quello che a giudizio unanime era il più bel monumento gotico della Sardegna. Ne è rimasto un tratto di chiostro dove lavorano vetrai, meccanici, officine. Di difficilissimo accesso, se ne intravede qualche parte passando lungo la via Mameli. Il Comune, almeno come previsione urbanistica del piano regolatore, si è premurato di salvarlo impedendone la edificabilità ma poi più nulla si è fatto e credo che col tempo, siccome ricostruita anch’essa in questo calcare tufaceo, l’umidità finirà per disgregarlo. Nella chiesa di S. Francesco le vesti di Sant’Agostino (da qui però nel frattempo mitra e baccolo erano stati portati via, alla Cattedrale di Valencia in Spagna dove tuttora si trovano) le vesti furono trasferite alla Cattedrale di Cagliari. Vi è una pianeta, vi è una dalmatica, vi è una tunicella. L’Arcivescovo Mons. Palma si preoccupò e appunto volle portarle in Cattedrale perché fossero custodite e preservate; furono sistemate nel santuario (esattamente nella cappella di S. Saturnino che è la cappella sinistra per chi guarda l’altare maggiore del santuario) in un cofano di noce con la parte anteriore chiusa con una grata e un cristallo in modo da poterle vedere. Nel santuario della Cattadrale esse sono rimaste sino a quando, riordinato il tesoro della Cattedrale in quel locale che è sopra la sacrestia dei beneficiati, sono state sistemate in una teca. Queste vesti sono quindi a Cagliari da circa 1466 anni. Ma anch’esse hanno varcato il mare come la salma e le reliquie di S. Agostino, per fortuna sono tornate. Varcarono il mare nel 1896 per essere portate ad una grande esposizione a Orvieto in occasione del Congresso Eucaristico. Un consigliere comunale si rivolse, sempre nel 1896, al Sindaco: era Bacaredda naturalmente: chiedendogli quali intenzioni avesse il Comune per la salvaguardia di questo ricordo storico. Bacaredda, a cui certamente non si può fare la critica di essere uomo improvvido ma che come certamente quasi tutti gli amministratori pubblici hanno il torto di essere sempre in buona fede, assicurò che la giunta avrebbe provveduto a riedificare subito sulla cripta un decoroso tempietto. Bacaredda è stato sindaco fino al 1921; dopo la sua morte sono trascorsi altri 60 anni, sono già 84 dalla promessa. Il voto e impegno non si sono realizzati ed è almeno fortuna che, il lascito generoso di Piero Cao, quella figura bizzarra di appassionato che girava la Sardegna, di archeologo dilettante, non professionista, che non esitava a caricarsi di massi enormi pur di salvare anche una sola pietra dei resti di questa architettura soprattutto religiosa, chiesastica della Sardegna; è almeno fortuna che, per lascito di Piero Cao, la cripta con la raccolta di tanti reperti, caoticamente e disordinatamente accatastati da lui, siano pervenuti di nuovo al Comune. E’ a questa raccolta che fra altre cose appartiene quella raffigurazione di cui ha parlato Don Vincenzo all’esordio. Ero sindaco nel 1968 quando, in prossimità della festa di S. Agostino, mi posi il problema di restituire la cripta, questa testimonianza di storia, alla città. La feci ripulire, preservare alla meglio dalle infiltrazioni d’acqua, feci sistemare l’impianto elettrico e disposi perché fosse riaperta. È stato fatto per un paio d’anni: almeno qualche generazione di cittadini ha potuto rientrarci, riaccostarsi a questa memoria. Il voto di Bacaredda non si è attuato; è caduto nel dimenticatoio anche questo tentativo di una tradizione. E una delle tante testimonianze dello scarso affetto che i Caglianitani portano alle loro cose e di cui gli amministratori sono responsabili solo perché esprimono la temperia culturale dei cittadini. Non esiste una classe di amministratori che appartiene a un genere umano diverso dai cittadini, sono uomini, siamo noi in una nostra proiezione politica. Questo voto dovrebbe essere ripreso oggi: non da Bacaredda che non può più farlo, nè da chi gli succede nel penoso seggio di Sindaco di Cagliari. Dovrebbe essere ripreso da tutti i cittadini per lo meno per cancellare quella vergogna storica di aver permesso che, per un sacco di monete, il corpo di Sant’Agostino lasciasse Cagliari dove la Provvidenza, sia pure attraverso la distruzione vandalica, di quei barbari che invasero allora l’Africa, l’aveva mandato.