P. Francesco Ferraioni

 

Chiese e Conventi di Triora e chiese succursali (Liguria Occidentale)

Arte e Storia

 

Alba 1929

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CHIESA E CONVENTO DI S. AGOSTINO

[Da pag. 164 a 192] A differenza di tutte le altre chiese di Triora, sulle quali non si aveva finora alcuna memoria, scritta appositamente con l’intenzione di tramandare ai posteri la storia delle medesime chiese, su questa dedicata al S. Vescovo d’Ippona abbiamo una breve relazione in un libro stampato oltre due secoli sono. Esso è intitolato: Lustri storiali de’ Scalzi Agostiniani, del P. Gio. Bartolomeo da Santa Claudia; Milano 1700; e da tale opera riassumiamo quanto vi si dice -in un italiano ove non difettano le mende di ortografia e di grammatica- sulla fondazione della nostra chiesa. Ma, prima di riportare la narrazione dello scrittore Agostiniano, riferiamo brevemente quanto ci consta su fatti che precedettero la fondazione di questa chiesa, e riguardano il fondatore di essa. Riportiamo le seguenti notizie da vari fascicoli di documenti (conservati nell’Archivio Comunale di Triora) che servirono per lo svolgimento di un lungo e importante processo di supposto tradimento e di “lesa maestà”, che si svolse in parte a Triora e in parte a Genova negli anni 1609-1612. Ecco di che si tratta. Nel dicembre 1608, da Triora partiva alla volta di Genova (portata da un certo Lodisio Millo di Castelfranco, oggi Castelvittorio) e diretta a quel Ser.mo Senato, una denunzia anonima, firmata “Li Agenti di Triora”, nella quale si accusavano come fautori di macchinazioni contro la sicurezza della Repubblica di Genova (mediante secreti accordi con supposti emissari del Duca di Savoia) le seguenti persone di Triora: il “causidico” (avvocato) Silvestro Gandolfo, il medico Luca Borelli, e lo “speciale” (oggi si direbbe farmacista) Antonio Guidi. Genova spedisce subito il “barigello” o bargello (ufficiale giudiziario) a Triora; e l’avvocato Gandolfo è tradotto, legate le mani e i piedi con catene, a Genova. Quindi egli subisce un lungo processo. Stando ancora in carcere, e dopo aver potuto dimostrare di essere stato calunniato, egli dà querela contro il dott. Agostino Oddo di Triora, incolpandolo della predetta denunzia, e accusandolo come reo di molti delitti. Ritornato libero in patria, il Gandolfo deve ancora ritornare un paio di volte a Genova, non essendo del tutto svanite le accuse mosse contro di lui. Ma intanto viene istruendosi a Triora un grande processo contro il dott. Oddo, il quale è costretto ad andare a prendere a Genova il posto lasciato libero nelle carceri dall’avv. Gandolfo. E la causa contro il dott. Oddo, oltre che dal Gandolfo viene pure sostenuta dagli altri due accusati, cioè dal medico Borelli e dallo “speziale” Guidi. Da ambo le parti si affilano le armi per meglio sostenere la propria difesa. Procuratori (avvocati) del nuovo accusato furono: Giov. Antonio Oddo e Agostino Giauni. E la causa dovette avere ampio svolgimento se si deve giudicare da questa circostanza: cioè, che a ben centonovantatre ammontano le domande preparate durante l’istruttoria per essere rivolte a un solo teste, cioè a quel tale che aveva portato a Genova la denuncia del dott. Oddo. Mancando gli altri fascicoli (andati dispersi) del processo, non risulta quale ne sia stato l’esito. Ma lo conosciamo ugualmente dal libro del sopra citato P. Giov. Bartolomeo da Santa Claudia; e ci affrettiamo perciò a dare l’accennato riassunto del capitolo che ci riguarda. “Triora è patria di celebri soggetti letterati così secolari come religiosi”, così incomincia la relazione. Poi continua (e noi riassumiamo): -Nell’anno 1614 viveva a Triora il dottore (era dottore in lettere) “nazionale” (nè saprei dire perchè lo scrittore lo chiami con questo appellativo) Agostino Oddo, soprannominato “il Moro”. Questi possedeva molte ricchezze, ma era anche circondato da tanti e accaniti invidiosi, e da persone che pretendevano alla sua eredità. Da costoro furono presentate contro di lui gravi, ma false accuse presso il Senato di Genova, nel cui dominio si trovava il paese di Triora. Il Senato genovese ordinò che il dott. Oddo si presentasse in Genova per discolparsi. Ma, appena fu giunto in quella città, il povero dottore fu subito incarcerato: e trovandosi in carcere, in seguito allo strapazzo del lungo e frettoloso viaggio, e a cagione del grave dispiacere provato per la fiera persecuzione che contro di lui si era scatenata, fu colpito da una forte febbre. Recatosi a far visita agli ammalati del carcere il P. Felice di San Nicola, degli Agostiniani di Genova, questi fu pregato dal dott. Oddo perchè gli procurasse qualche materasso su cui potesse meglio riposare durante l’infermità. E fu esaudito dal buon P. Felice. Uscito guarito dal carcere, il dottore Oddo restituì il materasso, ringraziando nuovamente il suo benefettore. E poichè egli dovette fermarsi ancora in Genova in istato di arresto, come si direbbe oggi, durante il tempo in cui si sarebbe svolto presso il tribunale il suo processo, egli prese alloggio nella casa del notaio Giacomo Costa “che abitava nell’Orto di S. Andrea”. Recandosi di quando in quando nel convento degli Agostiniani ove risiedeva il nominato P. Felice, il nostro dottore ebbe agio di osservare e ammirare la rigorosa osservanza monastica di quella casa, e la carità di quei religiosi che andavano ad assistere frequentemente e amorevolmente gl’infermi di qualsiasi condizione. Perciò, già risoluto in se stesso di disporre d’ogni suo avere per qualche opera pia, il giorno 4 di maggio di detto anno 1614, festa di S. Monica madre di S. Agostino, il dottore triorese fece segretamente testamento (rogato dal suddetto notaio Costa) nel quale nominò suoi eredi universali -senza però confidare loro la cosa- i Padri del convento di S. Nicola di Genova, con obbligo però che questi fondassero una loro casa religiosa nella terra di Triora, sua patria. Essendo poi riuscito a scolparsi delle accuse mossegli, il dott. Oddo se ne ritornò libero cittadino al suo paese. Ma, quivi lo attendeva una ben triste sorte: il 26 luglio di quello stesso anno (1614) egli veniva proditoriamente ucciso dai suoi nemici. E corse la voce che gli uccisori fossero alcuni parenti di lui, i quali si sarebbero macchiati di sì orrendo delitto per diventare eredi ab intestato delle sue ricchezze. Intanto, non sapendo la moglie dell’ucciso nè alcune sorelle maritate ch’egli avesse fatto testamento, si divisero fra loro i mobili e quanto si era raccolto in quell’anno dai terreni, come anche il denaro trovato in casa: il tutto per un ammontare di tre mila scudi, come deposero tre testimoni di poi esaminati; le stesse predette persone s’impossessarono anche dei beni stabili dell’assassinato. La notizia della misera fine del dott. Oddo essendo pervenuta al notaio Costa di Genova, questi si affrettò a consegnare il testamento (se ne conserva copia nell’Archivio vescovile di Albenga) del povero ucciso ai Padri Agostiniani, nominati eredi universali come si è detto. E questi, radunatisi in Capitolo il 3 settembre del medesimo anno, accettarono l’eredità che a loro era pervenuta, e insieme l’obbligo della fondazione di un convento in Triora; deputando nello stesso tempo il loro amico triorese sig. Matteo Bozzacarino ed il P. Mariano di Gesù, genovese e priore di detto convento di S. Nicola, a prendere possesso dell’eredità e a fare quanto occorresse per ricuperare tutto ciò che era già stato alienato dai parenti del defunto. Ma il Definitorio Generale di detti Religiosi, tenutosi in Roma il 19 giugno 1615, ordinò che si tralasciasse di procedere alla fondazione dei numerosi conventi offerti e non ancora posseduti: “Decretum fuit, quinque ex novem concurrentibus (cioè con cinque voti favorevoli, su nove votanti), ut nullus omnino accipiatur Conventus in hoc triennio, quomodocumque oblatus sit”. Perciò il P. Priore di Genova scrisse subito in nome del suo Capitolo ai Padri del Definitorio di Roma perchè acconsentissero alla fondazione di un convento in Triora, avendo il testatore Oddo lasciato sufficienti assegnamenti per la fabbrica e per il mantenimento di dodici religiosi. Il Definitorio accettò allora l’eredità e la fondazione, condizionata però al consenso del loro Cardinale Protettore: cui fu subito rimessa una relazione sulla convenienza della stessa fondazione. E questi -era il cardinale Sardi- rispose che il Procuratore Generale dell’Ordine presentasse pure il memoriale alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari per la licenza necessaria. Anche questa fu ottenuta in data 31 dicembre 1615. Occorreva pure il consenso dell’Ordinario, cioè del vescovo di Albenga, che era mons. Domenico Marini. Questi -che si trovava come Legato del Pontefice Paolo V nella città di Macerata- acconsentì ben volentieri alla richiesta rivoltagli, scrivendo nello stesso tempo al Vicario Generale della sua diocesi (era il canonico Andrea Giorgio, della cattedrale di Albenga) perchè facesse spedire le lettere patenti. Con tali lettere, dell’8 febbraio 1616, si presentarono al Senato di Genova per averne il dovuto consenso, quattro Padri Agostiniani (dei quali riporta i nomi l’autore che riassumiamo). Ed il Senato genovese, in data 9 marzo 1616, per mezzo del cancelliere Pietro Giovanni Lambuti (o Lamberti?), accordò la facoltà richiesta. Il giorno 13 dello stesso mese gli Agostiniani presero finalmente possesso giuridico del luogo destinato alla fondazione della loro casa; v’inalberarono solennemente la croce; e si rogò l’atto, per pubblico strumento del cancelliere della Corte di Triora. In attesa che s’iniziassero i lavori, i Religiosi presero alloggio, aprendovi anche un piccolo Oratorio, in una casa situata nella piazza principale del luogo (è la casa già dei Torre, che abbiamo ricordata parlando della Collegiata). Del numero di questi religiosi era pure il P. Francesco M. dell’Assunta, al secolo Giovanni Sacchi-Carrega, nobile anconese, il quale dopo alcuni mesi ritornò a Genova. E di questo suo viaggio egli fa cenno nel Libro IV, pag. 115, delle sue Epistole latine, stampate in Genova, nel 1619. Egli ne parla in una sua lettera in lingua latina indirizzata al suo amico e confratello P. Fabiano Fravega, del convento di Savona ove lo scrittore aveva ricevuta ottima accoglienza durante il detto suo viaggio. E delle gentilezze ricevute egli ne rende all’amico i dovuti ringraziamenti, non senza ricordare le molestie incontrate nel viaggio. (Sfido io! I treni ancora non funzionavano, e il viaggio fu compiuto nel mese di novembre!): -“Quas in itinere, ex Trioria Genuam rediens, molestias pertulimus sane fuisse arbitror prae ea voluptate quam ex nostra nuper instituta amicitia, solidam capio; cum illae iam plane praeterierint, haec vero perpetua, et ab istis Patribus ita exceptus essem, ut nec hospitium melius, nec hospites meliores invenire potuissem: ipse in primis ita me tibi devinxisti probitate, modestia humanitate, ut non alius mihi quisquam te ipso carior sit, etc.”. Le grandi difficoltà che incontrarono gli Agostiniani nel ricuperare l’eredità dai possessori non legittimi, furono cagione che si ritardasse a gettare le fondamenta della stessa costruzione. Perciò il Definitorio dello stesso Ordine, radunatosi il 19 dicembre 1616, aveva già ordinato che si abbandonasse l’idea di questa fondazione, qualora non si potessero ottenere dai parenti del testatore i beni ereditati. Per lo stesso motivo i medesimi religiosi dovettero tardare anche, fino all’anno 1622, ad introdurre la regolare osservanza nella casa e Oratorio provvisori che avevano aperti presso la Collegiata di Triora. Qui apriamo una parentesi nostra. Probabilmente, quest’oratorio era stato aperto con l’intenzione che dovesse sussistere anche in seguito. Poichè nel registro dei defunti della parrocchia troviamo, sotto la data del 1618 (il 27 gennaio), la notizia di defunti sepolti in detto oratorio: -sepultus in oratorio Fratrum S. Augustini. Poichè non può supporsi che tali parole debbano riferirsi alla chiesa di S. Agostino della quale non era stata ancora posta la prima pietra secondo quanto narra lo storico agostiniano. Ma, anche qualora si potesse parlare di inesattezza da parte di detto scrittore, resterebbe sempre l’improbabilità che sul luogo del quale era stato preso possesso venti mesi prima, sorgesse già una chiesa, e in questa chiesa già si seppellisse. Si può dunque facilmente ammettere che, detto Oratorio degli Agostiniani, avesse anche carattere di stabilità. Se ne può vedere ancora oggi l’antico ambiente in un locale, posto a pian terreno, attiguo all’entrata, dell’odierno Ufficio delle Regie Poste e Telegrafi. E chiudiamo la parentesi. Finalmente si potè procedere alla posa della prima pietra della nuova chiesa (che fu dedicata al Santo Dottore Agostino, dal nome del fondatore Agostino Oddo, e per onorare il Santo da cui s’intitola l’Ordine degli Agostiniani), e quindi del Convento. In questo i Religiosi poterono prendere alloggio, sebbene non fosse ancora del tutto terminato, il 1° gennaio 1625; ma il convento fu dichiarato Casa di Priorato (dal Definitorio di Roma) soltanto nel dicembre 1642. Ne fu eletto, allora, primo Priore il P. Alessandro della Natività della B. Vergine. E qui termina la relazione desunta dalla citata opera del P. Gio. Bartolomeo da Santa Claudia. Indizio di questi ritardi nelle due costruzioni si ha anche da una lettera (conservata nell’Archivio parrocchiale) che nel 1620 scriveva da Triora, al Presidente della Fabbrica di S. Pietro in Roma, il canonico Domenico Gandolfo, che abbiamo ricordato in una precedente nota. In essa lettera egli diceva: -“Sono incirca quattro anni che messer dott. Agostino Oddo di questo loco di Triora diocesi di Albenga, ha instituito heredi li RR. Padri di S. Agostino Riformati di S. Nicolò da Tolentino di Genova, con carico di dover fabbricare in Triora uno convento per dodici religiosi. E l’eredità loro lasciata è di quindici mila scudi, i frutti dei quali dovevano servire per la fabbrica e per mantenere li religiosi. Ma i frati sono incapaci di questa eredità; che perciò la medesima spetta alla Fabbrica di S. Pietro. E il sottoscritto si offre per li servigi di fare avere alla stessa Fabbrica la detta heredità”. Non sappiamo però quale sarà stata la risposta (se pure la lettera ne sarà stata degna) a tal genere di servizi che si offriva di prestare quel canonico. Dei lavori occorrenti per questa grande costruzione (chiesa e convento) si dovette occupare anche la Comunità, come ricaviamo da due attestati rilasciati ad un “mastro” che aveva prestato l’opera sua probabilmente come muratore. Ecco i due documenti rintracciati in vecchie carte d’archivio, e conservati dallo scrivente; da uno dei quali -se non si tratta di altra fabbrica, come potrebbe essere quella che poi fu adibita per Ospedale e da una quarantina d’anni è adibita a sede del Comune- si può argomentare che la costruzione stessa fosse appellata “la fabbrica della Comunità”: “Noi fabriceri eletti dalla Comunità di Triola (sic) facciamo fede a Marco Marino di giornate tre travagliate a S. Agostino et quattro travagliate al Fortino [ove oggi è il Cimitero]. Manuele CAPPONE, Giov. Vincenzo FARALDI. 1627, 13 Januarii”. Altro attestato (di qualche anno anteriore o posteriore a quello riportato): “Io Pietro Gastaldo et Emanuele Cappone soprastanti alle fabriche di Triola faciamo fede a mastro Marco Marino come a travagliato giornate sette alla fabrica della Comunità”. Aggiungiamo (a quanto ci ha fatto sapere lo scrittore agostiniano) che il convento, del quale sussiste ancora il braccio principale a due piani, era assai ampio e comodo, posto in amenissima località, detta “La Villa”. Vi era pure uno studio di teologia per i religiosi professi. Il lato del convento che girava fin dietro alla sagrestia, è stato demolito da molti anni. L’accesso dal convento alla chiesa si aveva da una porta che si apriva sul pianerottolo del campanile, posto a livello del pavimento della chiesa. Sussiste ancora in questo luogo l’antica cisterna del cortile del convento, nella quale si raccoglie l’acqua di una piccola sorgente ivi esistente. Altri due depositi d’acqua (che vi perviene dai canali del tetto soprastante) servivano, e servono ancora oggi -poichè vi abita una famiglia che coltiva il podere- pei bisogni domestici, e per innaffiare quello che una volta era vago giardino, destinato alla ricreazione dei religiosi, ed oggi è destinato ad orto. L’ampio spazio del detto giardino si era ottenuto costruendo solide muraglie, munite di arcate, che servirono a togliere il dislivello fra il terreno sottostante ed il piano del convento. A differenza dei Padri di S. Francesco, quelli di S. Agostino possedevano numerose terre, avute in eredità dal fondatore della chiesa; delle quali la più importante era quella che circondava il loro convento, piantata per metà a vigna, e metà a campi seminativi. Altre terre erano a loro pervenute da lasciti testamentari di persone private. Sembra che di queste terre gli Agostiniani si rifiutassero di pagare le decime alla parrocchia. E sulla questione si pronunziò la Congregazione dei Vescovi e Regolari, con lettera che riguardava tanto questi religiosi quanto quelli di S. Francesco, come si riferirà trattando di quest’altra chiesa. Qualche altro attrito doveva essere avvenuto fra gli stessi religiosi e la parrocchia, poichè troviamo una lettera del Procuratore Generale degli Agostiniani, in data 4 marzo 1673, e indirizzata ai propri religiosi residenti a Triora (ma potrebbe riguardare, oltre a questo, anche altri conventi) nella quale si raccomanda di stare in armonia coi rettori delle chiese, nelle questioni che si riferiscono a sepolture dei defunti. Dopo tale data, fra le poche carte che sono rimaste negli archivi di Triora, non troviamo altre notizie degne di nota sul nostro convento, per circa un secolo; e cioè fino all’epoca in cui ne furono allontanati i legittimi possessori. E’ questa, una pagina un po’ oscura, ossia non troppo bella, per il nostro paese; ma la vera storia non deve avere tanti riguardi; e perciò narreremo brevemente anche questi fatti. E le seguenti notizie le prendo dagli Atti deliberativi del Consiglio municipale di Triora, e propriamente dal fascicolo, assai deteriorato e appena leggibile, che fu scritto all’epoca della Repubblica Ligure. (Si trova oggi presso una famiglia privata -famiglia Rossi-Guidi- la quale ha già dato la parola di depositarlo nell’Archivio del Comune). I fatti cui ci riferiamo si svolsero nell’anno 1797, anno in cui, per opera della Costituente Democratica Ligure, fu iniziata la soppressione di molte altre case di Ordini Religiosi in tutta la Liguria. Anche il convento che gli Agostiniani avevano nel vicino paese di Dolceacqua (convento annesso alla chiesa di N. S. della Muta) fu soppresso in tale anno. Nell’adunanza del Consiglio municipale del 14 settembre di detto anno si delibera di chiamare a Triora i religiosi Scolopi, per affidare loro l’insegnamento pubblico: insegnamento che nel 1778 era stato assunto dai religiosi Agostiniani. Contro di questi erano già state mosse delle lagnanze un’altra volta, da parte della Municipalità: lagnanze che erano un’aperta istanza per ottenere l’espulsione dei detti Religiosi. Ed ora si riprende la lotta, con lo stesso scopo; rincarando però la dose nel formulare le accuse. La relazione di ciò che aveva deliberato il Consiglio municipale, “risoluto perfino di usare la forza a imitazione di altri popoli” (come ivi si dice), contiene frasi così volgari e irriverenti, che noi non possiamo riferirle testualmente. Una delle più deferenti è questa: che quei religiosi, “venuti a Triora, colla prepotenza dell’ex-marchese Pallavicini, si consumano nell’ozio religioso un reddito di sette mila lire e più, estorto alla semplicità dei nostri antichi. Ma ciò che più reca meraviglia è questo: che, dei due che riuscirono incaricati (a scrutinio segreto) di portare a termine la pratica di espulsione degli Agostiniani da Triora, uno fu il parroco del luogo, cioè il “cittadino prete” Giov. Francesco Ferraironi. L’altro era un certo Giuseppe Orengo. La prima petizione contro i Religiosi era stata trasmessa al Comitato delle Corrispondenze Interne di Genova; questa seconda si delibera d’inviarla al Governo Provvisorio di Genova per mezzo del suddetto Ferraironi, “prete e Deputato”. E questa volta si raggiunse l’intento; poiché, due mesi dopo, e propriamente nella seduta del Consiglio municipale del 27 novembre, dopo aver riparlato di “doglianze” del popolo di Triora contro i suddetti Religiosi, e dei “litigi da essi cagionati a questo Comune” si dichiara, dal Consiglio dei municipali, che il patrimonio degli Agostiniani è di spettanza pubblica; e si delibera la immediata espulsione dei Religiosi dal territorio di Triora. Si ordina inoltre che i Frati francescani -mediante indennizzo da parte del Comune- li alloggino per tre giorni; trascorsi i quali, gli Agostiniani dovranno andarsene -ma sarà loro provveduta la cavalcatura- nel loro convento di Sanremo. Seduta stante, si eleggono gli economi del Convento per l’amministrazione di quel patrimonio; e risultano eletti i seguenti: il già citato Rev. Ferraironi, il canonico Luigi Maria Giauni, i cittadini Antonio Maria Capponi, Francesco Maria Capponi, Antonio M.a Lanteri, Giuseppe Orengo, ed il canonico Martini, di Castelvittorio, cioè della Centralità, per distinguerlo dagli altri che appartenevano alla Municipalità. Quest’ultimo eletto, fu nominato presidente di detti amministratori. E tutti dovettero accettare la carica: in caso contrario avrebbero dovuto pagare una penale di lire cento, e sarebbero stati dichiarati nemici del bene della Patria. Fu loro ordinato di fare un inventario di quanto possedevano i Religiosi, e di elencare i nomi dei fittavoli e mezzadri delle terre già di proprietà dei Religiosi. Il giorno dopo le due amministrazioni, Centrale e Municipale, si recano al Convento di S. Agostino per leggere tali deliberazioni ai Religiosi, mentre questi si trovavano a pranzo in refettorio. Sparsasi in un attimo la notizia di questi fatti nel paese, questo si divise subito in due partiti: uno -ed era il preponderante- a favore degli Agostiniani; e l’altro a favore del deliberato della Municipalità. Sull’imbrunire una folla di partigiani del primo gruppo, si portò sotto le finestre di uno degli amministratori municipali (era un Capponi), che aveva più influenza sopra gli altri, minaceiandolo di morte s’egli non si fosse interposto per far ritirare la deliberazione. E questi dovette promettere quanto gli veniva chiesto. La folla, intanto, diventata sempre più minacciosa, si recò sotto l’abitazione del sindaco (che era un Carabalone), facendo la medesima minaccia e la stessa richiesta: e questi dovette pure promettere che avrebbe ritirato la deliberazione presa, appena si sarebbe radunato il Consiglio, e cioè subito dopo la prossima festa repubblicana del 2 dicembre. Ma la sera stessa i Padri Agostiniani, in ottemperanza a quanto a loro era stato imposto, lasciarono il loro convento guidati dal P. Priore, che era Fr. Lorenzo da S. Sebastiano; e scesero a dormire in quello dei Francescani. Nel Convento fu soltanto lasciato un religioso laico (un certo Fra Pacifico) il quale dovette preparare la cena per i cinque individui (fra i quali due sacerdoti) che vi erano stati inviati a custodia del locale. Non sappiamo però se, passati i tre giorni di tempo accordati, i Religiosi espulsi saranno realmente partiti alla volta di Sanremo, oppure -cosa più probabile- se avranno avuto facoltà di fermarsi a Triora. Nelle poche filze di atti notarili rimasti, del già ricco Archivio Comunale di Triora (una deliberazione della Municipalità del 16 settembre 1797 ordina l’inventario dello stesso Archivio, stabilendo presso chi dovessero esserne custodite le due chiavi) trovo ancora una petizione del Priore del Convento di S. Agostino, diretta all’Amministrazione Centrale del Distretto di Triora, per avere una copia del decreto concernente la soppressione del proprio convento, e per avere anche una copia del decreto che disapprova la stessa soppressione: decreti emessi ambedue “da Voi Centrali, unitamente alli Municipali”, come si legge nella petizione. Gli altri atti deliberativi che seguono, registrati nel citato libro al 1° dicembre 1797, parlano di “forza pubblica” venuta a Triora da Porto Maurizio; di inconvenienti verificatisi nei giorni 28 e 29 novembre; di uomini armati, in numero di cento, aventi a loro capi degli ufficiali di Triora che erano stati proclamati tali sulla piazza di S. Pietro. Ma non è chiaro se questi accenni si debbano riferire tutti ad atti concernenti la soppressione degli Agostiniani; poichè in quei giorni la forza armata (un centinaio di uomini) si trovava in Triora per presenziare alla proclamazione dell’Atto costituzionale repubblicano, da effettuarsi il 2 dicembre nella chiesa parrocchiale; ed anche per “ovviare a ogni disordine e procurare la più opportuna calma al felice avvenimento”, come è detto nel citato registro. Parole, queste ultime, che stanno a indicare come gli uomini armati di Porto Maurizio fossero stati chiamati come rinforzo della minuscola forza di guarnigione a Triora. Che gli Agostiniani non si fossero allontanati da Triora, ce lo fa supporre questa circostanza: sotto la data del 17 aprile 1798 troviamo che s’invita il Priore di S. Agostino, Fra Lorenzo da S. Sebastiano, ed il Presidente dei Padri Francescani (che era Fr. Pietro Paolo da Triora) a presentare l’inventario degli arredi, mobili, ori e argenterie appartenenti ai rispettivi loro conventi. E gli oggetti requisiti, di queste due chiese e conventi, come pure le argenterie delle chiese del paese, furono consegnati al Comitato di beneficenza che si era costituito appositamente in forza della legge del 5 aprile 1798, la quale ordinava la requisizione di tutti gli ori ed argenti delle chiese e dei conventi, a vantaggio delle finanze della nuova Repubblica Ligure. Ma lo svolgimento della “pratica” per la liquidazione definitiva della questione riguardante i detti Religiosi, non si era arrestato. In una successiva seduta del Consiglio municipale si delibera d’invitare tutti i mezzadri e fittavoli delle terre, e di un molino, possedute già dagli Agostiniani anche fuori di Triora, a presentarne la denunzia. Nello stesso tempo si nominano sette stimatori per procedere alla valutazione di tali possessioni. Forse per venderle? Lo ignoriamo: ma ciò è assai probabile, poichè i beni dei Religiosi erano stati dichiarati proprietà del Comune. In un’altra seduta si parla a lungo di una frode che sarebbe stata riscontrata sulla denunzia dei beni del proprio convento fatta dal P. Priore degli Agostiniani il quale, insieme al Procuratore della Casa, Fr. Giovanni Pietro della Concezione, aveva denunciato che l’asse ereditario del Convento era di lire cento mila. Segue poi una lunga disanima di testi e di prove a proposito di “schioppi nazionali” (fucili) che sarebbero stati trafugati, e poi trovati nello stesso convento. In seguito vi è un atto deliberativo in cui l’Amministrazione Centrale deplora di essere stata “coartata, in seguito a subbugli cittadini provocati dai Frati di S. Agostino, a riprovare la legittima soppressione dei medesimi”. Contemporaneamente, “alla sera, con lumi -così si legge in un curioso manoscritto che ho potuto consultare presso una famiglia di Triora, ed è intitolato Processo verbale del Comitato di Polizia di Triora, per l’anno 1797- si delibera sul processo verbale concernente gl’intrighi di questi Frati Agostiniani Scalzi, che per fini loro particolari si sono procurate delle sottoscrizioni collettive con inganni, false esposizioni e minacce che possono essere riguardate come sedizioni”. E tale processo fu rimesso al Cittadino Giudice Criminale di Triora. Finalmente, nella seduta del 27 maggio, la stessa Amministraziouìe fa dichiarare nullo, dal Giudice Criminale, il decreto della “suddetta riprovazione violentemente estorta dagli Agostiniani il 29 novembre”. Dopo questa deliberazione non se ne trovano altre che abbiano attinenza col nostro argomento: e perciò neanche noi possiamo conchiuderlo con dati sicuri. Probabilmente ebbero partita vinta gli amministratori. La popolazione di Triora, memore dell’espulsione violenta di detti Religiosi dal loro convento, avvenuta per opera, dicesi, di sette persone del luogo, ha tenuto d’occhio la fine di questi ultimi individui; e nella particolare morte d’ogni singolo ha creduto vedere una giusta punizione da parte dell’Ente Supremo. Di questi sette, uno morì cadendo dalla lieve altezza di un metro; un altro morì quasi improvvisamente in un terreno che già appartenne agli stessi Frati; un terzo, passò gli ultimi anni di sua vita senza poter camminare. Fra le numerose terre che gli Agostiniani possedevano, la più importante era certamente quella in cui fu costruito e che circondava il loro convento, detta ancora oggi “La Villa”, a loro lasciata dal fondatore della chiesa e convento, dott. Oddo, nel 1614. Questa passò al Demanio, il quale la cedette a certe monache di Taggia; e queste la vendettero al Segretario comunale di Triora, sig. Francesco Ferraironi; dal quale passò al figlio Luigi, pure Segretario comunale. E questi, circa un trentennio fa, la vendette al sig. Cesare Viale di Triora. Attraverso tale terra è un passaggio pubblico (qualche decennio fa modificato in una rampa rettilinea, mentre prima era un viottolo a zig-zag) il quale mette in comunicazione la regione Spianate, ove è la strada carrozzabile, con la chiesa di S. Agostino. E già varie volte tale passaggio ha dato luogo a divergenze giudiziarie fra i proprietari ed il Comune. In un documento che porta per titolo Progetto d’amichevole componimento, e la data 18 dicembre 1833, ed è firmato dalle due parti contendenti (cioè dal Comune e dal proprietario Francesco Ferraironi) trovo notato, fra i patti stabiliti, anche i seguenti: che la larghezza del passaggio sia di sei oncie piemontesi; che non vi si possa passare di notte, nè con carichi sulle spalle; che il transito serva specialmente per il passaggio e per pratiche di religione (si voleva alludere al passaggio del pubblico in questo luogo, in occasione della visita ai “sepolcri” il Giovedì e Venerdì santo), escluse però le processioni. Allontanati i Religiosi, la chiesa passò al Demanio, il quale la vendette al sig. avv. Pietro Capponi di Triora. Questi ne cedette l’uso alla Confraternita, riservandosi il diritto di tenerne presso di sè la chiave. Morto lui, nulla avendo disposto per testamento, detta proprietà fu divisa fra Luca e Domenico Capponi. La parte del primo spettò poi, per diritto di successione, all’ing. Antonio Capponi (vivente); e l’altra metà passò a Pietro Capponi il quale cedè tutti i suoi diritti al sig. Lanteri Antonio di Triora, quale rappresentante della Confraternita. Diamo ora la descrizione della chiesa. È sul tipo della maggior parte delle chiese liguri costruite nel sec. XVII; e cioè: ad una sola navata restringentesi a semicerchio verso l’abside, con volta a botte, in muratura, e cornicione dove questa s’imposta; con cappelle internate nelle due pareti laterali (alle quali i tre muri esterni delle cappelle fanno da rinforzo) e separate da pilastroni, o lesene, rilevati sul muro; e numerosi stucchi di gusto barocco sparsi ovunque. E’ lunga metri 20, larga m. 8,70, e alta in giusta proporzione. Lo sfondo delle cappelle è di m. 2,50. Quattro sono gli altari, oltre quello maggiore. Il primo a destra entrando è dedicato a S. Nicola da Tolentino, il quale vestì le divise degli Eremitani di S. Agostino nel secolo XIII. Dal titolo di quest’altare, la chiesa si trova anche, qualche volta, chiamata (così per es. nel Sacro e vago giardinello di Albenga) col nome di S. Nicola da Tolentino. Il quadro dell’altare ha forma oblunga, ed è una buona pittura eseguita su tavola. Il Santo poggia sopra un emisfero sorretto dal demonio, sotto il quale si stende un bel panorama di città. Sul libro che S. Nicola tiene aperto, si legge: Precepta Patris mei servavi et maneo eius in dilectione: mentre le testuali parole del Vangelo (S. Giov. XV. 10) sarebbero queste: Patris mei praecepta servavi, et maneo in eius dilectione. (Ho osservato i comandamenti del Padre mio, e rimango nel suo amore). Nel giorno della festa di detto Santo, gli Agostiniani distribuivano ai devoti, che frequentavano la loro chiesa, dei panettini benedetti. Sul vicino confessionale si legge, scolpita nel legno, questa frase ammonitrice: Ne incidas in diem quam non expectas; che equivale a quest’altra: -Sii sempre pronto per l’ultima ora di tua vita. Il secondo altare è dedicato a S. Francesco d’Assisi, che è raffigurato -sulla tela molto deteriorata- nell’atto di ricevere le sacre Stimmate. Sul primo altare a sinistra entrando, è venerata una bella statua in marmo di Carrara, rappresentante la Madonna della Cintola. Altri invece vi vogliono veder raffigurata la Madonna della Misericordia. E può essere ancora più probabile questa seconda opinione, poichè si sa che una volta tale altare era dedicato alla Madonna della Misericordia; e la raffigurazione marmorea della Vergine (coperta da un grande manto fermato sul petto, e con le due braccia penzoloni uscenti dal manto e leggermente divaricate in atto di voler accogliere qualcuno sotto il manto) è simile a quella (del sec. XV) che si vede raffigurata in bassorilievo di marmo, sull’esterno della porta laterale della chiesa di S. Domenico di Taggia, e in un antico e pregevole quadro conservato nella stessa chiesa di Taggia. Con la differenza che a Taggia la Vergine, a simbolo della sua protezione, tiene sotto il manto una turba di popolo; e ciò si vede specialmente nella pittura del quadro ove si osservano papi, cardinali, vescovi, magnati, patrizi e monaci. L’altare è in marmi di vari colori. Come sottoquadro vi è un’immagine di S. Caterina, dietro la quale è scritto: Proprietà dell’Avv. Pietro Capponi. Nel centro del paliotto è pure raffigurato, in marmo, un cuore e tre chiodi. Davanti a questo altare si apre una tomba la cui lapide sepolcrale recava già lo stemma nobiliare dei proprietari. Dell’iscrizione che vi si leggeva è rimasta soltanto (dopo le scalpellature ordinate nel 1797 dal Governo Democratico Provvisorio di Genova) la data: 1759 mensis aprilis. Però fra le parole cancellate sono ancora decifrabili queste due: Vincentii Stella. Dello stemma è stato conservato soltanto il cimiero o elmo. Il giuspatronato della cappella apparteneva all’antica e nobile famiglia degli Stella (ora le sono succeduti gli Amero D’Aste Stella di Albenga, con residenza a Roma), un antenato della quale, certo Antonio, figlio di Luigi e marito di Giulia Gastaldi, aveva fondato la cappella stessa nel 1630, come si legge in un antico albero genealogieo della detta famiglia. Segue l’altare di S. Silvestro Papa, il cui quadro (su tela) rappresenta il S. Pontefice seduto, con triregno in capo, ricevente gli omaggi dell’imperatore Costantino che gli sta inginocchiato davanti. Vi sono pure raffigurati due personaggi (cardinali?) vestiti di rosso, e l’imperatrice S. Elena che sorregge la Croce. L’altare maggiore è a tre gradini, ed ha un bel ciborio in marmo bianco. Da un lato di questo è murata una lapide di marmo che reca una iscrizione della quale si può leggere soltanto una parte, perchè l’altra è murata entro l’altare. Vi si dice: SUMPTIBUS C... (Communitatis? o Conventus?) R. PATER AL... A S. NICOLA… EREXIT AN... Nel pavimento del presbiterio erano murate due lastre di lavagna recanti la seguente iscrizione che ricorda il fondatore della chiesa e la data della sua morte: Hic iacet / Augus. Odo / fundator / huius Ecclesiae / Obiit / 26 Julii / 1612. Essendo state rimosse le due lastre, nè -da chi dirigeva i lavori- avendosi più intenzione di rimetterle a posto, chi scrive queste memorie si adoperò perchè venissero almeno murate (le dette due lastre) dietro l’altare maggiore; e contemporaneamente vi fu murata, sotto, un’altra piccola lapide sulla quale si legge: Iscrizione qui collocata nel 1925 / Quando fu rinnovato il pavimento. E in tale anno fu realmente rinnovato il pavimento della chiesa, delle cappelle e del presbiterio, adoperando mattonelle di cemento e costruendo i gradini degli altari in graniglia cementata. Davanti alla balaustrata si vede ancora la sepoltura degli Agostiniani, col loro stemma nel centro della lapide, e questa dicitura attorno: Mortales exuviae FF.um Exc.rum S. Augustini. Gli stalli del coro (ora assai rovinati) sono in legno di noce, intagliati e intarsiati a vaghi disegni (vi si vede pure lo stemma degli Agostiniani), con bei pilastrini ionici. Se ne ignora l’autore e l’epoca precisa della costruzione. Il tempo e l’incuria vi hanno esercitato il loro sinistro potere. Il quadro dell’ancòna, sotto il quale si apre la porta della sagrestia, rappresenta il santo Vescovo e Dottore Agostino, vestito di piviale e inginocchiato, contemplante la Vergine, e il Redentore che reca la Croce. Alcuni angeli reggono delle strisce scritte, una delle quali termina con queste parole:…situs quo me vertam non scio. Attorno all’abside stanno appesi, sui pilastri, sei quadri di media grandezza. Vi predominano Santi francescani. Ciò fa supporre che provengano dalla chiesa di S. Francesco, alla quale appartenevano pure altri quadri che si vedono in questa chiesa, come diremo a suo luogo. In sagrestia, sopra l’antico bancone di noce ove si parano i celebranti, si vede un grande quadro rappresentante l’Ultima Cena. Probabilmente apparteneva al refettorio del vicino convento. Vi sono pure altri due quadri su tela, rappresentanti la Madonna del Carmine (che dà l’abitino, o scapolare) e la Madonna benedicente dei pani che le sono presentati da un Santo, in cui va ravvisato S. Pietro di Alcantara. Si è conservato il bel lavabo, in marmo, per il clero ufficiante. Qualche oggetto d’arte andò pure sperso durante le tempestose vicende cui soggiacque la chiesa all’epoca del forzato allontanamento dei legittimi proprietari. Anche in epoca non tanto remota, la chiesa si trovava ridotta in cattive condizioni, avendo dovuto servire più volte per alloggiare delle truppe durante alcuni periodi di manovre. Si dovette perciò procedere ad un completo restauro, che fu eseguito intorno al 1895, dopo che nella chiesa stessa furono date (per tale scopo) delle rappresentazioni sacre durante un’intera stagione. Gli ornati (in pittura) dell’interno della chiesa furono eseguiti nel 1895 da Faraldi Bernardo, della vicina frazione del Perallo; le figure di S. Agostino, S. Monica e S. Nicola da Tolentino che si vedono affrescate sulla facciata, sono della stessa epoca, ed appartengono ad un pittore di Taggia, di cui ignoriamo il nome. Nella chiesa ha sede la Confraternita o Compagnia della Buona Morte, detta anche della Misericordia, dall’artistica statua della Madonna che vi è venerata sotto questo titolo, effigiata sotto le sembianze di quella da cui prende nome il ben noto santuario posto nelle vicinanze di Savona. In tale località, che è nella valle di San Bernardo, la SS. Vergine apparve ad Antonio Botta, o Pareto come scrivono altri, il 18 marzo e l’8 aprile 1536; e sul luogo dell’apparizione fu poi costruito il grandioso e celebre santuario dedicato alla Madonna della Misericordia, la cui devozione si propagò poi in moltissimi luoghi. Da un libretto che ha per autore un certo GIANCARDI, stampato nel 1690, e intitolato: Augustissima apparizione della gran Madre di Dio ad Antonio Botta, nel capitolo in cui sono indicati i “Regni, provincie, città, borghi, castelli, terre e popoli che hanno eretto cappelle, altari, oratori e chiese a S. Maria di Misericordia di Savona”, è menzionata pure Triora. La nostra statua, non è però antica: ha circa un secolo, ed è dovuta allo scultore genovese Paolo Olivari (vi accenna anche lo STRAFFORELLO nell’opera La Patria; Geografia dell’Italia, vol. VI). E’ opera artisticamente riuscita. “Statua commovente..., tanto applaudita dai conoscitori dell’arte”, come scrive il CASALIS nel suo Dizionario Geografico, ecc. E’ scolpita in legno, nell’atto di apparire all’operaio Antonio Botta, il quale è inginocchiato e come colpito da vivo stupore dinanzi a quella visione. I buoni trioresi nutrono grande devozione verso questo gruppo delle due statue, che è conservato in una grande nicchia presso l’altare maggiore di S. Agostino, e viene portato in processione alcune volte l’anno: il giorno della sua festa (prima domenica di luglio), e il giorno della Festa del Monte, come si è già accennato parlando delle Confraternite, nel capitolo della Collegiata. Quando detto gruppo di statue giunse da Genova ai Molini, si formò in questo paese una grande processione formata da tutte le confraternite dei quattro paesi dell’antica Comunità, cioè Triora, Molini, Corte e Andagna; e la Madonna della Misericordia fu portata trionfalmente a Triora. La chiesa era stata dotata di SS. Reliquie dal P. Felice da S. Nicolao, Agostiniano Scalzo, con istrumento del notaio Giacomo Conio del 3 aprile 1624. Presso i Padri Agostiniani era l’amministrazione e direzione della Confrarìa del Rosario (che però non era una Confraternita nè risiedeva nella loro chiesa, bensì nella Collegiata come si è già detto), poi trasferita ai Molini. Il campanile, assai slanciato, ha la solita forma di molti campanili della Liguria: costruito a modo di torre fin sopra le campane, si arrotonda in alto, ove porta quattro occhialoni tondi e termina a cupola, che è rivestita di piastrelle a colori, messe a squama di pesce. Delle campane, una reca questa iscrizione: A Patribus Congr. Discalceatorum Er. haec Nola (le campane, che sarebbero state introdotte da S. Paolino vescovo di Nola, furono perciò denominate anche Nolae) facta fuit. E più sotto: Erem. S. Augustini de facultate Di (domini) Agustini Oddi. 1616. Sull’altra si legge: Ad maiorem Dei gloriam et Beatae Mariae Virginis. 1754. Una terza campana, che è posata a terra perchè un po’ rotta, reca la seguente dicitura: IHS + Maria + Ad onorem sancti Nicolai Tolentinatis. 1646. E vi è figurato il Crocifisso, la Vergine col Bambino in braccio, ed un santo con palma, davanti ad una torre (forse si voleva rappresentare il santo cui è dedicata la campana). Sul piazzale, che una volta era adorno di sedili e di una croce come quella che si vedeva sul piazzale di S. Francesco, sono oggi cresciuti due enormi ippocastani. Altri ippocastani sono stati piantati sul viale che nel 1928, e per opera dei Confratelli della Misericordia, è stato aperto dinanzi alla chiesa, ingrandendo la via che già esisteva, ed estendendola su terreno ceduto dal sig. Cesare Viale. Tanto di questa chiesa quanto di quella di S. Francesco, non si trova alcun cenno nelle relazioni delle S. Visite dei vescovi diocesani, appartenendo le due chiese al clero regolare.

 

IMMAGINI NEL VOLUMETTO

1. pag. 176: Statue della Madonna della Misericordia e del B. Antonio Botta nella chiesa di S. Agostino.