Giuseppe Ferrari

 

CHIESE ANTICHE DI SAN REMO

 

Sanremo 1965

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LA FRATERIA DEI NICOLITI O EREMITANI SCALZI DI S. AGOSTINO

 

[Da pag. 178 a 202] I Frati di San Nicola, detti anche Eremitani Scalzi di S. Agostino, giunsero a Sanremo il 16 febbraio del 1647. Presero in affitto per ventun scudi annui, una casa d’abitazione attigua alla porta di San Giuseppe. Due anni dopo posero mano alla costruzione di un convento di vaste proporzioni con chiesa fuori “porta di sopra”, detta di Santa Maria, sulla salita che porta ancora adesso al Santuario di Nostra Signora della Costa. Fino dall’anno dopo la loro venuta, furono ammessi nel giro del Pulpito, ossia a predicare per turno, in una coi Gesuiti, i Riformati e i Cappuccini, nei giorni di Quaresima e dell’Avvento. Nulla ostò, da parte delle autorità religiose e civili locali, onde potessero costruire il Convento suddetto, a patto e condizione che si astenessero dal questuare nell’intero distretto e che dovessero provvedersi del sostentamento necessitante alla loro vita, presso il convento che il loro Ordine aveva in Triora. Ma dando tempo al tempo, essi vennero meno ai patti, girando di casa in casa ad elemosinare, l’uno per l’altro in numero di otto fra sacerdoti e conversi. L’usanza di tenere esposti Crocifissi pendenti dall’architrave delle Chiese la si deve a loro. Così avvenne per quello da essi portato processionalmente nelle feste solenni e di cui narrano le storie come operatore di straordinari miracoli. Dove sia poi finito non si è mai saputo. Davanti a questi Crocifissi era posta una trave di ferro, sempre carica di lumini accesi, e a mantenere l’olio a quei lumini contribuiva il reddito dei conventi, i quali facevan di tutto per accaparrarsi dai fedeli benefici e lasciti testamentari, di cui si trovano innumeri esempi nelle filze degli archivi pubblici e privati. Oltre al Cristo morente di cui sopra, nella cappella di questi frati si dovettero trovare altre opere tali da appagare lo sguardo e l’intelletto degli amatori d’arte, di cui sono rimaste quelle risalenti agli ultimi decenni di attività di quei monaci. Una tavola di rara bellezza dovuta al pittore piemontese dell’ottocento Angelo Capisani, rappresentante i SS. Maurizio e Lazzaro, in atto di supplicare il Salvatore, assiso su di una nube, per la guarigione d’un infermo, sostenuto da due uomini pietosi, fra diversi astanti che mostrano di prendere parte al caritatevole ufficio, è certamente la migliore e la sola degna di essere ricordata. Il Convento di questi Frati divenne poi l’Ospedale Civile, acquistato in seguito dall’Opera di Don Orione per farne una delle sue case di ricovero per i reietti. Da documenti scorsi di volta in volta nel mio archivio di famiglia, si apprende che il compito di pulire, riempire e mantenere accesi quei lumini nella Cappella dei Nicoliti se l’assunsero per diversi anni certe converse, dette Ministre o Ministrali, appartenenti all’ordine conventuale delle Suore Turchine, oggi Liceo-Ginnasio “Cassini”, le quali agivano come delle vere e proprie fabbricere, perchè concorrevano alla manutenzione del fabbricato. Fra queste converse figuravano dei nomi di primissima levatura per nobiltà e censo. [p. 180] Queste pie donne, in una con le Suore “professate”, vivevano sotto l’usbergo e la diligente protezione del Vescovo e del Vicario Foraneo preposito di San Siro. (ved. Atti di Gio. Battista Rogero, canonico Vescovile - Tom. II - pag. 32-35). Senonchè vi fu un periodo di tempo in cui queste mansioni vennero affidate agli uomini per via di alcune voci, sicuramente calunniose, sparse in giro dal popolino e che non trovo sia giusto qui riferire, anche perchè facilmente intuibili. Ma non diedero esito troppo felice, costoro, se con le Ministrali i Frati potevano contare su un reddito che andava dalle 80 alle 100 lire genovine (quattro o cinque mila delle nostre di adesso) mentre le spese per l’illuminazione erano solo di 25 annue; al tempo in cui all’amministrazione fu delegato certo Anselmo Ricufelgio, i frati non solo non videro più il becco di un quattrino, ma neppure i lumini vennero più accesi in chiesa. Così restò persino spento un supporto con sette lampade, detto delle Virtù Teologali, esposto nel coro e “una pigna de quaranta bichieri” a lumino, più un saliscendi e cinque portalumini d’innanzi all’Altare dei Santi Maurizio e Lazzaro. Non è a credere che tutto quell’olio se lo fosse bevuto, il degno messer Ricufelgio o lo avesse usato per condire l’insalata. L’accusa dice che l’olio e gli altri beni li aveva dilapidati per arricchire una donna di “labili costumanze”. C’è da supporre che davanti a simili risultati, i canonici si siano affrettati a richiamare le Misitresse per farsi… amministrare. L’architetto Giovenale Gastaldi, studioso delle vicende del passato, mi ha favorito una autobiografia scritta dal nonno suo, di cui porta il nome, cavaliere degli Ordini Equestri della Corona d’Italia e dei SS. Maurizio e Lazzaro, emerito costruttore di strade, ponti, palazzi e ville in molte località del Piemonte durante il periodo sacro al Risorgimento, e più tardi in Liguria e a Sanremo, dove giunse fresco di nozze, infreddolito dal lungo viaggio compiuto sulle Messaggerie Imperiali che facevano servizio sulle nostre strade fino alla frontiera di Nizza, il 19 ottobre 1855. Erano le sette e tre quarti della mattina e il sole si era appena levato, quando con la sposa diciannovenne [p. 181] si allogò nell’unico albergo decente di quel tempo, “La Palma”, gestito da Nicolò De Ferrari, a metà di via Palazzo, non lungi dal ponte San Francesco. L’egregio uomo, che era nativo di Colla di Netro e proveniva da una schiatta di emeriti capomastri, per volere del re Vittorio Emanuele II era stato invitato ad assumere nella nostra città la direzione dei lavori di sistemazione dell’antico convento dei frati Nicoliti, un luogo di cura per i colpiti dal flagello del “fuoco sacro”, così era definita la lebbra a quei tempi, un male diffuso nell’entroterra ponentino. Lo aveva constatato Carlo Alberto, transitando da Sanremo per Nizza nel 1846, con comprensibile costernazione, trovatosi ad incontrarsi con molti lebbrosi, deambulanti o accosciati agli angoli delle strade, senza il minimo riguardo da parte dei passanti, i quali li consideravano con ribrezzo tenendoli alla larga, quasi non fossero creature umane anch’essi, colpiti da un sì tremendo morbo giudicato inguaribile. La tradizione ci tramanda, senza informazioni precise, notizie sul perpetuarsi da secoli di questo male in parecchie località rivierasche, ed io medesimo ricordo di averne conosciuto alcuni casi in frazione Borello, con il volto, le mani e i piedi rosi dal bacillo di Hansen, intenti a pascolare fra quei boschi i modesti greggi, il cui latte esitavano a mezzo di interposte persone. Di dove ne fosse venuto tanto flagello fra noi, difficile dirlo. Una nostra servente nativa di Perallo, affermava che al suo paese e in quelli finitimi, i lebbrosi erano numerosi al punto che non vi si faceva neppure caso e li si vedeva nei giorni di festa a mendicare o, quando avevano beni propri, a discorrere coi compaesani, sui sagrati delle chiese o circolanti per le strade. I primi religiosi che si fossero accinti a Sanremo a recare sollievo ai colpiti del malanno del “fuoco sacro”, e che raccomandavano le loro pene per tradizione inveterata al divo San Rocco, erano stati i Benedettini, poi imitati dai monaci Antoniani, la cui chiesa con attiguo ambulatorio per curarli nel loro stesso modestissimo convento, avevano aperto ai fedeli in piazza Bresca. Ad essi era devoluta per tradizione la facoltà di prendersi cura delle orribili piaghe di quei disgraziati e l’onere di isolarli dal resto della comunità, [p. 182] onde fossero evitati i pericoli dell’estendersi del contagio. (Anno Nativitatis Millesimo Quingentesimo -manca sicuramente un nove a completamento della data- indictione XII die VII mensis Januari - Arch. St. Villa Zirio, da filza 26). In questa chiesa tuttora esistente, il notaro concittadino Antonio Fabiani fondava una cappellania il 17 maggio 1457 (il che la dimostra preesistente alla venuta dei monaci ospitalieri) col patto che non fosse recato disturbo (sic) al celebrante all’altare di Sant’Antonino. (Ved. Nilo Calvini - La Chiesa di San Siro). Da una lettera indirizzata da Pietro Buglione, vicario diocesano, al Vescovo ingauno marchese Lombardi, datata del 1° novembre MDVIII, viene fatto cenno ad un miglioramento della dotazione di detta cappella, la quale l’anno dopo sarà trasferita nell’oratorio di San Sebastiano in piazza dei Gasdia, che assumerà il nome di Madonna dei Dolori, protettrice “delli appestati da fuoco sacro o leprosi”. Purtroppo tutto il periodo che precede il 1523, è avvolto da un velo di mistero, a causa del saccheggio operato e della conseguente distruzione di Archivi pubblici e privati da parte del Connestabile di Borbone, offeso dal fatto che a differenza di come era avvenuto da parte dei Grimaldi di Monaco, i ponentini lo avessero ricevuto piuttosto freddamente nelle loro città. Sappiamo dalle Storie genovesi, che lo scorazzare e i saccheggi in tutto il nostro territorio, durarono fino a quando Francesco I re di Francia, non cadde prigioniero a Pavia, per venire poi condotto in ceppi sotto buona scorta in Spagna, e le soldataglie trasferitesi a tappe forzate nel saluzzese, nel milanese e nel napoletano, dov’era più facile che potessero campare, non aprirono un varco di sospirata liberazione alle nostre avversità. Ma ecco insorgere un’altra grana. Le lotte di partito fra gli Adorni al potere e l’aristocrazia genovese, messa su dai Fregoso aspiranti al primato della Repubblica. Una grida dopo l’altra, fra il 1519 e i seguenti dieci anni, che fra una riga e l’altra parlano chiaramente di miseria e di incombenti epidemie. E della fuga della più bella e vezzosa tra le figlie di quelli, Paolina col grande pittore Van Dick nella ligure Moltedo d’Imperia, dove verrà eternata nelle sembianze [p. 183] della Madonna in una famosissima tela. Fra tutte quelle grida, ce n’è una sola in cui si faccia cenno alla peste e vi si parla anche di leprosi che ambulano in campagna commisti a banniti (sic) li quali scorazzano nei lochi de forestrada, rapinando et occidendo chi non liciti condiscendere a lor brame (10 aprile 1528). La firma è di tal Jacobus Petra notarius Curie Sancti Romuli cancelliere, che l’affida per la grida in locis a Laurentius Ferardus nuncius pubblicus curie prefati et Jacobus Richa nuntius M.ci Pretoris, unde eam proclamasse in platea palatij seu loco Plani de Navis. Papa Innocenzo II, in una bolla che risale al 1136, nomina: ecclesia sancti Stephani de Sancto Romulo cum hospitale quoque juxta monasterium, da dove si deduce che il primo ospedale sorto nella nostra città dovette trovarsi a levante dell’abitato e ne venisse trasferito al Piano, presso S. Siro in vicinanza del pozzo, quando l’Arcivescovo di Genova da Vezzano, volle convertito detto monastero benedettino in palazzo Vescovile. Tale palazzo era certo quello dove erano scesi ad abitare i benedettini dopo che avevano ceduto la loro primitiva sede in vetta alla Pigna agli Antoniani, i quali si erano trovati a disagio nella primitiva sede in piazza Bresca. L’ospedale presso San Siro in vicinanza del pozzo era allogato dove è da oltre un secolo allogata la Federazione Operaia, mentre prima trovavasi all’inizio della salita che dalla porta dei Cappuccini conduce nella via Corradi. Sul retro di questo fabbricato, sotto una delle finestre che guardano in vico Cappuccini, c’è dipinta a buon fresco una graziosa effige della Madonna e la facciata verso la strada Nuova conserva le sue caratteristiche decorative dell’epoca. Si ha pure memoria che nel 1507, l’ospedale era passato ad essere amministrato dal Comune, poichè il consiglio nel giorno 10 di settembre di quell’anno considerato che i beni mobili e immobili di esso erano mal governati per difetto di massai, eleggeva due boni homini ad invigilarlo. L’ospedale del Piano però, essendo in non buone condizioni di igiene quali richiedonsi a simili stabilimenti, d’ordine di Napoleone I e su petizione del sacerdote Gio Battista Margotti, veniva ulteriormente trasferito accanto al convento di N. S. degli Angeli, in una nuova costruzione edificatavi mercè le cure di questo pio cittadino e le munifiche elargizioni del re Carlo Alberto. [184]

1675 - 6 dicembre (Vol. Copialettere cat. n. 99) - Lettera al Senato: I rev. Padri Agostiniani Scalzi hanno dato principio ad una fabbrica la quale resta dirimpetto al nostro Castello, per trasferirvisi dalla Palma Superiore.

1679, a cc. 57, si deliberano alli Padri di San Nicola che dicono di essere in grande miseria, lire 200 per fabbricare la Cisterna. Da notare che da alcuni anni essi sono pure impegnati nella fabbrica del nuovo Convento (Leprosario, di recente ceduto ai ricoverati dell’Opera di Don Orione). La Comunità non interviene con altri donativi di denaro o materiale da costruzione, essendosi nel frattempo sviluppata una forte corrente anti Nicolita e anti Palmari, in conseguenza del fatto che l’importante casata ha preso a proteggerli. Le 200 lire di cui sopra sono state concesse in via straordinaria perchè da una cisterna in più, ne beneficerà l’intero abitato circostante. Disceso all’albergo “Palma”, con la giovane moglie, afflitta anch’essa da un viaggio in diligenza durato ben sedici ore, Giovenale Gastaldi trovò a riceverlo certo ingegnere Camusso, direttore progettista delle opere con i capomastri muratori Carlo Giordano, Marco Carlo e Gerolamo Semiglia qui residenti e nativi del luogo. Il contratto stipulato con il Grande Magistero dell’Ordine contemplava uno stipendio mensile di lire centoventi, più il vitto, la legna e alloggio gratuito in un’ala del fabbricato, che il brav’uomo non si sarebbe sognato di dovervi stare allogato per circa venti anni e che vi sarebbero poi nati tutti i suoi figli, Margherita, Gioachino, Enrichetta, Carlo che sposò Rosa Guidi ed è il padre dell’architetto Giovenale, Florinda, Severino, Felicino Arturo, allevati tutti nel Leprosario dalla madre, Luisa Galvagno, figlia di un cancelliere giudiziario di Rivara, che aveva sposato in seconde nozze una Maddalena dei conti di Roccaforte, dalla quale aveva avuto altri due figli. I lavori di adattamento durarono per oltre due anni, e il nuovo Leprosario veniva inaugurato il 18 ottobre 1858, alla presenza del primo segretario e ministro dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro conte Luigi Cibrario, insigne patriota torinese, uomo politico di largo seguito a quei tempi, che fra l’altro fu Ministro degli Esteri del governo piemontese fra il 1833 e il 1836, intervenuto anche a rappresentarvi [185] il Sovrano, il direttore ospitaliero prescelto a dirigerlo cav. avv. Luigi Sassi, proveniente dall’ospedale di Valenza dove aveva assolto eguale carica e il primario dott. Rambaldi vincitore del concorso, una autorità del tempo in materia di studi sul terribile morbo. Era stato invece scartato il concittadino dott. Onetti, autore di una pubblicazione sul medesimo, dove sosteneva che il contagio non era da considerare pericoloso mentre il Rambaldi era invece di ben altro avviso, ritenendolo contagiosissimo e facilmente trasmissibile da una persona all’altra per contatto corporale. Vi so dire cosa passasse per la mente all’egregio sig. Gastaldi che l’abitò per tanti anni con la sua figliolanza impunemente. Tanto è vero che finì per trasferire la propria famiglia in una casa Sasso, in località dello Spirito Santo. Si succedettero in seguito alla direzione del Leprosario tre direttori, il cav. Mercet, il comm. Giulio Ferrero, il cav. Bachelet e infine per ultimo il cav. Torazzi. Durante la gestione del comm. Ferrero, il segretario Vignolo commise alcune aperte manchevolezze e la cassa fu definitivamente affidata al Gastaldi, che divenne così l’amministratore della pia opera, carica ufficialmente confermatagli il 28 giugno 1863 e disimpegnata egregiamente fino a tutto il 1881, anno in cui venne collocato in pensione, dopo avere ottenuto il Cavalierato di motu da S. M. il re e diverse altre onorificenze collaterali. Dal re che aveva conosciuto in ben strana circostanza a Sangone mentre vi costruiva un ponte. In quell’occasione egli aveva aiutato il Sovrano appena guarito da una seria malattia, ad attraversare su di una stretta e traballante passerella di fortuna, l’omonimo corso d’acqua, mentre quegli era reduce da una battuta di caccia, com’era suo solito e Vittorio Emanuele II aveva inteso gentilmente remunerarlo dell’attenzione prestatagli, nominandolo esecutore dei progettati lavori a Sanremo. Il Leprosario cessò dalle sue funzioni per assumere quelle di ospedale civico nel gennaio del 1898 e mio padre ricordava di avere assistito al trasferimento in carrozze chiuse degli ultimi lebbrosi in altra sede, fra il turbato silenzio di una folla commossa. L’architetto Giovenale Gastaldi si distinse, oltre che per avere [186] ideato le più belle ville e palazzi di quell’epoca, anche per avere costruita la chiesa Valdese in via Roma che si incendiò e fu rifatta dal figlio ing. Carlo, la chiesa Inglese in fondo all’Imperatrice che è ancor oggi un esemplare di eleganza architettonica, la demolita chiesa scozzese che affiancava l’Albergo Parigi e la Cappella delle Suore Carmelitane, che gli fu commissionata però dai Gesuiti inglesi, dei quali era Superiore il Padre Egloffstein. Fu anche il progettista della villa per il cardinale Meglia, che sorgeva dietro l’Albergo Reale. Nel 1941 fu acquistato dall’Opera di Don Orione il Santo benefattore deceduto in San Remo il 12 marzo 1940.

 

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