Giuseppe
Ferrari
____________________________________________________________________________________________________________
LA FRATERIA
DEI NICOLITI O EREMITANI SCALZI DI S. AGOSTINO
[Da pag. 178 a
202] I
Frati di San Nicola, detti anche Eremitani Scalzi di S. Agostino, giunsero a
Sanremo il 16 febbraio del 1647. Presero in affitto per ventun scudi annui, una
casa d’abitazione attigua alla porta di San Giuseppe. Due anni dopo posero mano
alla costruzione di un convento di vaste proporzioni con chiesa fuori “porta di
sopra”, detta di Santa Maria, sulla
salita che porta ancora adesso al Santuario di Nostra Signora della Costa. Fino
dall’anno dopo la loro venuta, furono ammessi nel giro del Pulpito, ossia a predicare per turno, in una coi
Gesuiti, i Riformati e i Cappuccini, nei giorni di Quaresima e dell’Avvento.
Nulla ostò, da parte delle autorità religiose e civili locali, onde potessero
costruire il Convento suddetto, a patto e condizione che si astenessero dal
questuare nell’intero distretto e che dovessero provvedersi del sostentamento
necessitante alla loro vita, presso il convento che il loro Ordine aveva in
Triora. Ma dando tempo al tempo, essi vennero meno ai patti, girando di casa in
casa ad elemosinare, l’uno per l’altro in numero di otto fra sacerdoti e
conversi. L’usanza di tenere esposti Crocifissi pendenti dall’architrave delle
Chiese la si deve a loro. Così avvenne per quello da essi portato
processionalmente nelle feste solenni e di cui narrano le storie come operatore
di straordinari miracoli. Dove sia poi finito non si è mai saputo. Davanti a
questi Crocifissi era posta una trave di ferro, sempre carica di lumini accesi,
e a mantenere l’olio a quei lumini contribuiva il reddito dei conventi, i quali
facevan di tutto per accaparrarsi dai fedeli benefici e lasciti testamentari,
di cui si trovano innumeri esempi nelle filze degli archivi pubblici e privati.
Oltre al Cristo morente di cui sopra, nella cappella di questi frati si dovettero
trovare altre opere tali da appagare lo sguardo e l’intelletto degli amatori
d’arte, di cui sono rimaste quelle risalenti agli ultimi decenni di attività di
quei monaci. Una tavola di rara bellezza dovuta al pittore piemontese
dell’ottocento Angelo Capisani, rappresentante i SS. Maurizio e Lazzaro, in
atto di supplicare il Salvatore, assiso su di una nube, per la guarigione d’un
infermo, sostenuto da due uomini pietosi, fra diversi astanti che mostrano di
prendere parte al caritatevole ufficio, è certamente la migliore e la sola
degna di essere ricordata. Il Convento di questi Frati divenne poi l’Ospedale
Civile, acquistato in seguito dall’Opera di Don Orione per farne una delle sue
case di ricovero per i reietti. Da documenti scorsi di volta in volta nel mio
archivio di famiglia, si apprende che il compito di pulire, riempire e
mantenere accesi quei lumini nella Cappella dei Nicoliti se l’assunsero per
diversi anni certe converse, dette Ministre
o Ministrali,
appartenenti all’ordine conventuale delle Suore Turchine, oggi
Liceo-Ginnasio “Cassini”, le quali agivano come delle vere e proprie
fabbricere, perchè concorrevano alla manutenzione del fabbricato. Fra queste
converse figuravano dei nomi di primissima levatura per nobiltà e censo. [p. 180]
Queste pie donne, in una con le Suore “professate”, vivevano sotto l’usbergo e la diligente protezione del Vescovo e
del Vicario Foraneo preposito di San Siro. (ved. Atti di Gio. Battista Rogero,
canonico Vescovile - Tom. II - pag. 32-35).
Senonchè vi fu un periodo di tempo in cui queste mansioni vennero
affidate agli uomini per via di alcune voci, sicuramente calunniose, sparse in
giro dal popolino e che non trovo sia giusto qui riferire, anche perchè
facilmente intuibili. Ma non diedero esito troppo felice, costoro, se con le
Ministrali i Frati potevano contare su un reddito che andava dalle 80 alle 100
lire genovine (quattro o cinque mila delle nostre di adesso) mentre le spese
per l’illuminazione erano solo di 25
annue; al tempo in cui all’amministrazione fu delegato certo Anselmo
Ricufelgio, i frati non solo non videro più il becco di un quattrino, ma
neppure i lumini vennero più accesi in chiesa. Così restò persino spento un
supporto con sette lampade, detto delle Virtù Teologali, esposto nel coro e
“una pigna de quaranta bichieri” a lumino, più un saliscendi e cinque
portalumini d’innanzi all’Altare dei Santi Maurizio e Lazzaro. Non è a credere
che tutto quell’olio se lo fosse bevuto, il degno messer Ricufelgio o lo avesse
usato per condire l’insalata. L’accusa dice che l’olio e gli altri beni li
aveva dilapidati per arricchire una donna di “labili costumanze”. C’è da
supporre che davanti a simili risultati, i canonici si siano affrettati a
richiamare le Misitresse per farsi… amministrare. L’architetto Giovenale
Gastaldi, studioso delle vicende del passato, mi ha favorito una autobiografia
scritta dal nonno suo, di cui porta il nome, cavaliere degli Ordini Equestri
della Corona d’Italia e dei SS. Maurizio e Lazzaro, emerito costruttore di
strade, ponti, palazzi e ville in molte località del Piemonte durante il
periodo sacro al Risorgimento, e più tardi in Liguria e a Sanremo, dove giunse
fresco di nozze, infreddolito dal lungo viaggio compiuto sulle Messaggerie
Imperiali che facevano servizio sulle nostre strade fino alla frontiera di
Nizza, il 19 ottobre 1855. Erano le sette e tre quarti della
mattina e il sole si era appena levato, quando con la sposa diciannovenne [p. 181]
si allogò nell’unico albergo decente di
quel tempo, “La Palma”, gestito da Nicolò De Ferrari,
a metà di via Palazzo, non lungi dal ponte San Francesco. L’egregio uomo, che
era nativo di Colla di Netro e proveniva da una schiatta di emeriti capomastri,
per volere del re Vittorio Emanuele II era stato invitato ad assumere nella
nostra città la direzione dei lavori di sistemazione dell’antico convento dei
frati Nicoliti, un luogo di cura per i colpiti dal flagello del “fuoco sacro”,
così era definita la lebbra a quei tempi, un male diffuso nell’entroterra
ponentino. Lo aveva constatato Carlo Alberto, transitando da Sanremo per Nizza
nel 1846, con comprensibile costernazione, trovatosi ad incontrarsi con molti
lebbrosi, deambulanti o accosciati agli angoli delle strade, senza il minimo
riguardo da parte dei passanti, i quali li consideravano con ribrezzo tenendoli
alla larga, quasi non fossero creature umane anch’essi, colpiti da un sì
tremendo morbo giudicato inguaribile. La tradizione ci tramanda, senza
informazioni precise, notizie sul perpetuarsi da secoli di questo male in
parecchie località rivierasche, ed io medesimo ricordo di averne conosciuto
alcuni casi in frazione Borello, con il volto, le mani e i piedi rosi dal
bacillo di Hansen, intenti a pascolare fra quei boschi i modesti greggi, il cui
latte esitavano a mezzo di interposte persone. Di dove ne fosse venuto tanto
flagello fra noi, difficile dirlo. Una nostra servente nativa di Perallo,
affermava che al suo paese e in quelli finitimi, i lebbrosi erano numerosi al
punto che non vi si faceva neppure caso e li si vedeva nei giorni di festa a
mendicare o, quando avevano beni propri, a discorrere coi compaesani, sui
sagrati delle chiese o circolanti per le strade. I primi religiosi che si
fossero accinti a Sanremo a recare sollievo ai colpiti del malanno del “fuoco
sacro”, e che raccomandavano le loro pene per tradizione inveterata al divo San
Rocco, erano stati i Benedettini, poi imitati dai monaci Antoniani, la cui
chiesa con attiguo ambulatorio per curarli nel loro stesso modestissimo
convento, avevano aperto ai fedeli in piazza Bresca. Ad essi era devoluta per
tradizione la facoltà di prendersi cura delle orribili piaghe di quei
disgraziati e l’onere di isolarli dal resto della comunità, [p. 182]
onde fossero evitati i pericoli dell’estendersi del contagio. (Anno Nativitatis
Millesimo Quingentesimo -manca sicuramente un nove a completamento della data-
indictione XII die VII mensis Januari - Arch. St. Villa Zirio, da filza 26). In
questa chiesa tuttora esistente, il notaro concittadino Antonio Fabiani fondava
una cappellania il 17 maggio 1457 (il che la dimostra preesistente alla venuta
dei monaci ospitalieri) col patto che non fosse recato disturbo (sic) al
celebrante all’altare di Sant’Antonino. (Ved. Nilo Calvini - La Chiesa di San Siro). Da una lettera indirizzata da
Pietro Buglione, vicario diocesano, al Vescovo ingauno marchese Lombardi,
datata del 1° novembre MDVIII, viene fatto cenno ad un miglioramento della
dotazione di detta cappella, la quale l’anno dopo sarà trasferita nell’oratorio
di San Sebastiano in piazza dei Gasdia, che assumerà il nome di Madonna dei
Dolori, protettrice “delli appestati da fuoco sacro o leprosi”. Purtroppo tutto
il periodo che precede il 1523, è avvolto da un velo di mistero, a causa del
saccheggio operato e della conseguente distruzione di Archivi pubblici e
privati da parte del Connestabile di Borbone, offeso dal fatto che a differenza
di come era avvenuto da parte dei Grimaldi di Monaco, i ponentini lo avessero
ricevuto piuttosto freddamente nelle loro città. Sappiamo dalle Storie
genovesi, che lo scorazzare e i saccheggi in tutto il nostro territorio,
durarono fino a quando Francesco I re di Francia, non cadde prigioniero a
Pavia, per venire poi condotto in ceppi sotto buona scorta in Spagna, e le
soldataglie trasferitesi a tappe forzate nel saluzzese, nel milanese e nel napoletano, dov’era più facile che
potessero campare, non aprirono un varco di sospirata liberazione alle nostre
avversità. Ma ecco insorgere un’altra grana. Le lotte di partito fra gli Adorni
al potere e l’aristocrazia genovese, messa su dai Fregoso aspiranti al primato
della Repubblica. Una grida dopo l’altra, fra il 1519 e i seguenti dieci anni,
che fra una riga e l’altra parlano chiaramente di miseria e di incombenti
epidemie. E della fuga della più bella e vezzosa tra le figlie di quelli,
Paolina col grande pittore Van Dick nella ligure Moltedo d’Imperia, dove verrà
eternata nelle sembianze [p. 183] della Madonna in una famosissima tela.
Fra tutte quelle grida, ce n’è una sola in cui si faccia cenno alla peste e vi
si parla anche di leprosi che ambulano in
campagna commisti a banniti (sic) li
quali scorazzano nei lochi de forestrada, rapinando et occidendo chi non liciti
condiscendere a lor brame (10 aprile 1528). La firma è di tal Jacobus Petra notarius Curie Sancti Romuli cancelliere,
che l’affida per la grida in locis a Laurentius
Ferardus nuncius pubblicus curie prefati et Jacobus
Richa nuntius M.ci Pretoris, unde eam proclamasse in platea palatij seu loco
Plani de Navis. Papa Innocenzo II, in
una bolla che risale al 1136, nomina: ecclesia
sancti Stephani de Sancto Romulo cum hospitale quoque juxta monasterium, da dove si deduce che il primo ospedale
sorto nella nostra città dovette trovarsi a levante dell’abitato e ne venisse
trasferito al Piano, presso S. Siro in vicinanza del pozzo, quando
l’Arcivescovo di Genova da Vezzano, volle convertito detto monastero
benedettino in palazzo Vescovile. Tale palazzo era certo quello dove erano
scesi ad abitare i benedettini dopo che avevano ceduto la loro primitiva sede
in vetta alla Pigna agli Antoniani, i quali si erano trovati a disagio nella
primitiva sede in piazza Bresca. L’ospedale presso San Siro in vicinanza del
pozzo era allogato dove è da oltre un secolo allogata la Federazione Operaia,
mentre prima trovavasi all’inizio della salita che dalla porta dei Cappuccini
conduce nella via Corradi. Sul retro di questo fabbricato, sotto una delle
finestre che guardano in vico Cappuccini, c’è dipinta a buon fresco una
graziosa effige della Madonna e la facciata verso la strada Nuova conserva le
sue caratteristiche decorative dell’epoca. Si ha pure memoria che nel 1507,
l’ospedale era passato ad essere amministrato dal Comune, poichè il consiglio
nel giorno 10 di settembre di quell’anno considerato che i beni mobili e
immobili di esso erano mal governati per difetto di massai, eleggeva due boni homini ad invigilarlo. L’ospedale
del Piano però, essendo in non buone condizioni di igiene quali richiedonsi a
simili stabilimenti, d’ordine di Napoleone I e su petizione del sacerdote Gio
Battista Margotti, veniva ulteriormente trasferito accanto al convento di N. S.
degli Angeli, in una nuova costruzione edificatavi mercè le cure di questo pio
cittadino e le munifiche elargizioni del re Carlo Alberto. [184]
1675 - 6 dicembre (Vol. Copialettere cat. n. 99) - Lettera al Senato: I
rev. Padri Agostiniani Scalzi hanno dato principio ad una fabbrica la quale
resta dirimpetto al nostro Castello, per trasferirvisi dalla Palma Superiore.
1679, a cc. 57, si deliberano
alli Padri di San Nicola che dicono di essere in grande miseria, lire 200 per
fabbricare la Cisterna. Da notare che da alcuni anni essi sono pure impegnati
nella fabbrica del nuovo Convento (Leprosario, di recente ceduto ai ricoverati
dell’Opera di Don Orione). La Comunità non interviene con altri donativi di
denaro o materiale da costruzione, essendosi nel frattempo sviluppata una forte
corrente anti Nicolita e anti Palmari, in conseguenza del fatto che
l’importante casata ha preso a proteggerli. Le 200 lire di cui sopra sono state
concesse in via straordinaria perchè da una cisterna in più, ne beneficerà
l’intero abitato circostante. Disceso all’albergo “Palma”, con la giovane moglie, afflitta anch’essa da un viaggio in
diligenza durato ben sedici ore, Giovenale Gastaldi trovò a riceverlo certo
ingegnere Camusso, direttore progettista delle opere con i capomastri muratori
Carlo Giordano, Marco Carlo e Gerolamo Semiglia qui residenti e nativi del
luogo. Il contratto stipulato con il Grande Magistero dell’Ordine contemplava
uno stipendio mensile di lire centoventi, più il vitto, la legna e alloggio
gratuito in un’ala del fabbricato, che il brav’uomo non si sarebbe sognato di
dovervi stare allogato per circa venti anni e che vi sarebbero poi nati tutti i
suoi figli, Margherita, Gioachino, Enrichetta, Carlo che sposò Rosa Guidi ed è
il padre dell’architetto Giovenale, Florinda, Severino, Felicino Arturo,
allevati tutti nel Leprosario dalla madre, Luisa Galvagno, figlia di un
cancelliere giudiziario di Rivara, che aveva sposato in seconde nozze una
Maddalena dei conti di Roccaforte, dalla quale aveva avuto altri due figli. I
lavori di adattamento durarono per oltre due anni, e il nuovo Leprosario veniva
inaugurato il 18 ottobre 1858, alla presenza del primo segretario e ministro
dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro conte Luigi Cibrario, insigne patriota
torinese, uomo politico di largo seguito a quei tempi, che fra l’altro fu
Ministro degli Esteri del governo piemontese fra il 1833 e il 1836, intervenuto
anche a rappresentarvi [185] il Sovrano, il direttore ospitaliero
prescelto a dirigerlo cav. avv. Luigi Sassi, proveniente dall’ospedale di
Valenza dove aveva assolto eguale carica e il primario dott. Rambaldi vincitore
del concorso, una autorità del tempo in materia di studi sul terribile morbo.
Era stato invece scartato il concittadino dott. Onetti, autore di una
pubblicazione sul medesimo, dove sosteneva che il contagio non era da
considerare pericoloso mentre il Rambaldi era invece di ben altro avviso,
ritenendolo contagiosissimo e facilmente trasmissibile da una persona all’altra
per contatto corporale. Vi so dire cosa passasse per la mente all’egregio sig.
Gastaldi che l’abitò per tanti anni con la sua figliolanza impunemente. Tanto è
vero che finì per trasferire la propria famiglia in una casa Sasso, in località
dello Spirito Santo. Si succedettero in seguito alla direzione del Leprosario
tre direttori, il cav. Mercet, il comm. Giulio Ferrero, il
cav. Bachelet e infine per ultimo il cav. Torazzi. Durante la gestione del
comm. Ferrero, il segretario Vignolo commise alcune aperte manchevolezze e la
cassa fu definitivamente affidata al Gastaldi, che divenne così
l’amministratore della pia opera, carica ufficialmente confermatagli il 28
giugno 1863 e disimpegnata egregiamente fino a tutto il 1881, anno in cui venne
collocato in pensione, dopo avere ottenuto il Cavalierato di motu da S. M. il
re e diverse altre onorificenze collaterali. Dal re che aveva conosciuto in ben
strana circostanza a Sangone mentre vi costruiva un ponte. In quell’occasione
egli aveva aiutato il Sovrano appena guarito da una seria malattia, ad
attraversare su di una stretta e traballante passerella di fortuna, l’omonimo
corso d’acqua, mentre quegli era reduce da una battuta di caccia, com’era suo
solito e Vittorio Emanuele II aveva inteso gentilmente remunerarlo
dell’attenzione prestatagli, nominandolo esecutore dei progettati lavori a
Sanremo. Il Leprosario cessò dalle sue funzioni per assumere quelle di ospedale
civico nel gennaio del 1898 e mio padre ricordava di avere assistito al
trasferimento in carrozze chiuse degli ultimi lebbrosi in altra sede, fra il
turbato silenzio di una folla commossa. L’architetto Giovenale Gastaldi si
distinse, oltre che per avere [186] ideato le più belle ville e palazzi di
quell’epoca, anche per avere costruita la chiesa Valdese in via Roma che si
incendiò e fu rifatta dal figlio ing. Carlo, la chiesa Inglese in fondo
all’Imperatrice che è ancor oggi un esemplare di eleganza architettonica, la
demolita chiesa scozzese che affiancava l’Albergo Parigi e la Cappella delle
Suore Carmelitane, che gli fu commissionata però dai Gesuiti inglesi, dei quali
era Superiore il Padre Egloffstein. Fu anche il progettista della villa per il
cardinale Meglia, che sorgeva dietro l’Albergo Reale. Nel 1941 fu acquistato
dall’Opera di Don Orione il Santo benefattore deceduto in San Remo il 12 marzo
1940.
____________________________________________________________________________________________________