STORIA E LEGGENDA

La traslazione di Sant’Agostino dall’Africa a Cagliari

di Mons. Luigi Cherchi

La vita di S. Agostino, grande pensatore e Dottore della Chiesa, è stata molto movimentata. Nato a Tagaste, nell’Africa Settentrionale, nel 354 e morto a Ippona nel 430, sempre in Africa, nei suoi settantasei anni di esistenza ebbe molti travagli. Il padre, di nome Patrizio, era pagano, ma poi morì cristiano; la madre Monica, ardente cristiana, ebbe molto da soffrire, da pregare e da piangere perché il giovane figlio si era irretito malamente con gli eretici Manichei, discepoli di Manete e che insegnavano: c’è un sommo Dio buono, autore di ogni bene; ma c’è anche un sommo Dio perverso, autore di ogni male. Molto intelligente, dotato di eloquenza ed oratoria non comune, diventa professore a vent’anni; fugge di nascosto da Tagaste a Roma in cerca dì celebrità; arriva a Milano dove trova il suo trionfo. Ma ivi trova anche la Grazia. Sa che il vescovo della città, Ambrogio, parla al popolo in un modo altamente convincente: anche lui è oratore, come Agostino stesso, ma dotato di un’oratoria diversa: profonda, persuasiva, convincente. A Milano viene raggiunto dalla madre; Agostino si arrende alla Grazia e si converte: il 387 si fa battezzare. Dietro le suppliche di Monica, che muore durante il viaggio ad Ostia, ritorna in patria. Ha abbandonato il libertinaggio della giovinezza, ha lasciano la donna con cui viveva da anni; diventa prete, conduce una vita cenobitica col figlio naturale Adeodato e con altri amici. Nel 396, morto Valerio, vescovo di Ippona, viene a succedergli in quella cattedra, che sarebbe diventata famosa nel mondo intero. Travagliata la vita di Agostino, anche da vescovo, perchè dovette combattere con eretici Manichei, Pelagiani e coi Donatisti, eretici violenti; diverse volte fu nel pericolo di essere ucciso da loro. Quando muore, il 28 agosto del 430, la città è assediata, depredata e in parte incendiata dai Vandali. Le sue spoglie mortali vengono deposte, molto probabilmente, nella cattedrale detta "Basilica Pacis" e gelosamente custodite dai cristiani di Ippona come racconta Possidio, il suo primo biografo, nella vita che amorosamente ne ha scritto e di cui attualmente (dal 1955) abbiamo un edizione critica, dovuta al professore di letteratura cristiana, oggi Card. Michele Pellegrino (Agostino Trapè, Bibliotheca Sanctorum, vol. 1, col. 433). In seguito il corpo di S. Agostino fu trasferito da Ippona in Sardegna e dalla Sardegna a Pavia, dove riposa tuttora. Dunque anche le ossa del Santo vescovo hanno avuto il loro travaglio! Queste due traslazioni sono certissime e diversamente documentate, da vari autori. Più difficile docurnentare le due date relative e le circostanze particolari. Poniamoci perciò queste due domande:

1) il corpo di S. Agostino quando fu trasferto da Ippona in Sardegna?

2) quando fu trasferito dalla Sardegna a Pavia?

Questione storico-critica

Prima di rispondere a questi due quesiti bisogna ricordare una pagina storica che interessa in modo particolare la nostra Isola e la nostra città di Cagliari. Il re vandalo ed ariano Trasamondo dall’Africa del Nord esiliò in Sardegna, e a Cagliari in particolare, molti vescovi, monaci e cristiani con a capo S. Fulgenzio da Ruspe, consacrato vescovo nel 507 (Bibl. Sanct. vol. V, col. 1306). La deportazione dovette avvenire dunque non prima del 507-508. Il Baronio, nei suoi famosi "ANNALES" fissa la data al 504 (Tomo IX, col. 46) e così altri autori. Ma la critica attuale sta per la data 507-508. La fonte principale al riguardo è la "Vita Fulgentii" scritta dal diacono cartaginese Ferrando (PL. LXV, col. 117-150; ediz. critica di G. G. Lapeyre). Dal cap. XXIX, n. 64, apprendiamo che quando Fulgenzio morì a 65 anni di età il primo gennaio 532 (Bibl. SS. vol. V, col. 1308) era al suo XXV anno di episcopato. Da qui la data del 507 della sua consacrazione episcopale. Anche il Tola ha ottenuto gli stessi risultati (anno 507) basandosi sulla vita scritta da Ferrando (Tola, Codex, I, dissertazione a pag. 86/B). Con Fulgenzio, il più giovane di tutti come consacrazione, furono esiliati altri 120 vescovi: così scrive Vittore di Tunnuna nel suo "Chronicon": il re vandalo "catholicorum ecclesias claudit et in Sardiniam exilio ex omni africana Ecclesia CXX episcopos mittit. Eo tempore Fulgentius, Ruspensis civitatis episcopus, in nostro dogmate claruit" (PL. LXVIII, col. 948/49). Vittore mori dopo il 556. Paolo Diacono parla addirittura di 220 vescovi (Hist. Romana, XVI, in M.G.H. Auctores antiquissimi, XIII, III, pag. 217 cfr. Besta, I vol., pag. 7 e note). Per quanto riguarda il gruppo che era con Fulgenzio, Ferrando parla di "sexaginta et eo amplius" (cap. XX, n. 41). Penso si tratti, in questo caso, dei vescovi della provincia Bizacena. Ad ogni modo il numero non si consideri eccessivo. Nell’Africa settentrionale ogni piccola contrada aveva i suoi vescovi: i cosiddetti coreniscopi erano molto numerosi. Per esempio: nel 484 il re Unnerico indisse un concilio, o meglio una conferenza religiosa, per fare un dibattito coi vescovi cattolici. Vittore de Vita ci ricorda che vi intervennero 466 vescovi, di cui fa l’elenco nominativo, indicandone altresì la sede. Tra gli altri Lucifero II di Cagliari ed altri vescovi sardi. (Historia persecutionis africanae provinciae: MGH. III, pag. 63-71; PL. LVIII, col. 269-70). Ricordiamo che allora la Sardegna, civilmente, dipendeva dall’Africa.

Fulgenzio, accolto amabilmente dall’arcivescovo di Cagliari Brumasio (altri scrivono Primasio) ebbe la possibilità di far vita in comune con altri esiliati vescovi, monaci, ecclesiastici. Tra gli altri, il suo biografo, ricorda "Illustrem et Januarium, coepiscopos suos" (cap. XX, n. 43). Poi fu invitato in Africa dallo stesso re Trasamondo, che voleva conoscere per scritto il pensiero del giovane e dotto vescovo su alcune questioni religiose. Rimasto a Cartagine (Ferrando, cap. XXI, n. 45) per circa due anni, rientrò a Cagliari e fondò a sue spese, presso la basilica di S. Saturnino, un ampio cenobio "procul a strepitu civitatis", favorito ancora dall’arcivescovo Brumasio (Ferrando, Vita Fulgentii, PL. LXV, col. 138-143). In quel monastero conviveva con oltre 40 "fratelli" seguendo una regola cenobitica (cap. XXVII, n. 51). L’esilio finì nel 523 quando, morto Trasamondo, gli succedette nel trono Ilderico, che richiamò in patria gli esiliati (Bibl. Sanctorum, vol. V, col. 1307). Erano passati oltre 15 anni e non fu senza un influsso benefico di religiosità, di liturgia, di apostolato per Cagliari e per altri centri, più o meno vicini alla città. In quel tempo era Papa di Roma un sardo, S. Simmaco (Papa dal 498 al 514) e non mancò di consolare ed aiutare gli esiliati con scritti, con indumenti e viveri di ogni genere (Mansi, vol. VII, col. 217-218). Il "Liber Pontificalis" scrive al riguardo: "Hic omni anno per Africam vel Sardiniam ad episcopos, qui exilio erant retrusi, pecunias et vestes ministrabat" (MGH, ed. Theodorus Mommsen, 1898, p. 125). Questa è storia autentica, attinta dalla vita di Fulgenzio, scritta da Ferrando, suo discepolo e (pare) parente; e da altri autori antichi. E facile supporre che questi vescovi e monaci venendo dall’Africa avranno portato reliquie, immagini, libri, qualche piccola statua, ecc. Sono cose che noi pensiamo e che sono, del resto, naturali, ma la storia non ce io dice in modo esplicito. Portarono con loro anche le relique (ossia le ossa) di S. Agostino? Questa domanda, riguarda in particolare S. Fulgenzio, capo e guida degli esiliati a Cagliari. Ferrando, la fonte diretta che racconta la storia di quell’esilio, non ne fa alcun cenno. Anzi ci riporta due circostanze che rendono meno probabile la traslazione di dette relique. Per il primo esilio, Fulgenzio è a Ruspe, nella sua provincia, la Bizacena, allorché i ministri del re lo presero "repente" (all’improvviso) e io aggregarono agli altri esiliandi da deportare in Sardegna (cap. XX, n. 40). Egli "navim crucifixio corde et corpore nudus ascendit, habens secum plurimas divitias scientiae salutaris" (id. cap. XX, n. 40). La seconda volta, a Cartagine, fu strappato dalla sua abitazione "in Tempesta nocte, populo ignorante" (id. cap. XXV, n. 49): nel cuore della notte e all’insaputa del popolo. Come in tali contingenze, lontanissimo da Ippona, abbia potuto dare opera o, a dire meglio, abbia potuto dirigere il trasporto delle reliquie di Agostino, è un problema senza termini di soluzione. Anche la lettura dei capitoli XXV e XXVII della stessa vita ci persuadono di escludere tale asserita traslazione delle dette reliquie del grande santo ad opera di Fulgenzio. Eppure, come vedremo più innanzi, gli autori della storia sarda dal 1500 al 1900 attibuiscono a Fulgenzio la traslazione del corpo di S. Agostino a Cagliari.

Alcuni autori nostrani affermano direttamente che fu il vescovo di Ippona, città della Numidia superiore, a portare seco le preziose reliquie. La vita di S. Fulgenzio non ne fa il nome, nè fa cenno ad un vescovo di Ippona compreso tra gli esiliati. L’Enciclopedia Cattolica alla voce "Ippona" (vol. VII, col. 180-181, art. di Enrico Josi) ricorda alcuni vescovi prima di S. Agostino e conclude: "Ignoti sono i vescovi di Ippona dopo l’invasione vandalica e durante la dominazione bizantina". Non dimentichiamo che proprio mentre moriva S. Agostino, la città fu distrutta, saccheggiata e in parte incendiata! P. Agostino C. De Romanis dice che i vescovi ad Ippona sono di nuovo ricordati solo all’inizio del 600 (p. 409). Nonostante quello che ho già scritto, gli storici sardi, o gli storici che si interessano delle cose nostre, scrivono in modo sostanzialmente identico (tranne piccoli particolari). Vi cito due autori noti per valentia e critica: Enrico Besta, storico di fama internazionale, e mons. Damiano Filia, storico illustre della Sardegna cristiana. Nel 1908 il Besta dice: "v’era tra loro Fulgenzio, il neo eletto di Ruspe, e Feliciano di Cartagine e Illustre e Gianuario, vescovi di sede ignota, e il vescovo di Ippona, che esulando portava con sè i resti venerati di S. Agostino, l’immortale suo predecessore" (Sardegna Medioevale, vol. I, p. 7, Palermo 1908). Nel 1909 il Filia scrive a sua volta: "Fra gli esiliati erano il celebre teologo e monaco Fulgenzio, da poco eletto vescovo del piccolo porto di Ruspe, Feliciano di Cartagine, Illustre e Gianuario, di sede ignota, e il vescovo di Ippona. Questi confessori di Cristo portarono seco nell’esilio le reliquie venerate di S. Agostino, che stettero a Cagliari 200 anni (vol. I, p. 92). E cita Darras, Storia generale della Chiesa, Torino 1879, vol. II, p. 84. Come si vede il Filia ripete, più o meno, il testo del Besta.

A proposito di vescovi esiliati dobbiamo precisare alcuni equivoci (sic!). L’enciclopedia Treccani alla voce "Trasamondo" (senza firma dell’articolista) dice che il re vandalo ne esiliò molti in Sardegna: "Il più famoso fu Eugenio vescovo di Cartagine" (sic!). Di Eugenio sappiamo invece che morì nel 505, come scrive Vittore Tunnenense nel suo "Chronicon" (PL. LXXVIII, col. 950: anno 505): "Eugenius Cartaginensis episcopus confessor moritur". Morì in esilio nella Gallia, ad Alby. La sua sede rimase vacante sino a quando Ilderico (nel 523) concesse la libertà ai vescovi esiliati; allora fu consacrato il nuovo vescovo Bonifacio (vedi la voce "Cartagine" di Pietro Romanelli nell’Enciclopedia Cattolica, vol. III, col. 946). Si fa il nome di Feliciano, come vescovo di Cartagine (Filia, Besta). Abbiamo già detto che Cartagine, al tempo dei vescovi esiliati in Sardegna, era sede vacante. L’equivoco, a mio parere nasce dal fatto che Ferrando, nella vita di S. Fulgenzio, nomina Feliciano come successore di S. Fulgenzio di Ruspe; ed è proprio a lui che dedica il suo lavoro (PL. LXV, col. 117-118)! Eppure il racconto della traslazione delle reliquie del grande santo, avvenuta ad opera degli esiliati, si ripete nei nostri storici dal secolo XVI in poi, attribuita o a S. Fulgenzio o al vescovo di Ippona o agli esiliati in genere. Permettete che vi ricordi i nomi di questi autori:

1580: Mons. Giovanni Francesco Fara (1543-1591) nei suo De rebus Sardois, libro I, p. 156 (Fulgenzio).

1595: Giovanni Proto Arca: De Sanctis Sardiniae, libro III, p. 65 (Fulgenzio)

1624: Serafino Esquirro, Santuario de Caller, libro I, cap. I, pag. 1-5 (Fulgenzio)

1680: P. Giorgio Aleo, cappuccino, Successor generales, MS. VI, cap. 68, §. 412 pag. 283 (Fulgenzio).

1780: Giuseppe Cossu, Della città di Cagliari: Notizie compendiose, pag. 95 (Fulgenzio).

1826: Giuseppe Manno, Storia della Sardegna, vol. II, pag. 75-78 (Vescovo di Ippona).

1839: Pietro Martini, Storia ecclesiastica, vol. I, pag. 101 (Fulgenzio).

1861: Pasquale Tola, Codex Diplomaticus, I, pag. 87/A, e cita il Baronio, anno 504.

1861: Giovanni Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari (vescovo di Ippona pag. 190-191).

1881: Padre Francesco Sulis, mercedario: Brevi cenni sulla istituzione, antichità ed eccellenza dell’archidiocesi di Cagliari (pag. 37 e 63), (esiliati).

1897: Efisio Serra, Una pagina d’oro della storia ecclesiastica di Sardegna, pag. 30 e 31 (Fulgenzio col vescovo di Ippona).

1908: Besta, citato (vescovo di Ippona).

1909: Filia, parimenti citato (plurale: i confessori di Cristo).

1935: Raimondo Carta Raspi, La Sardegna nell’alto medioevo, pag. 109: (vescovo di Ippona).

1964: Mons. Ottorini Pietro Alberti, La Sardegna nella storia dei Concili (pag. 26: "furono trasportate" e cita il Baronio.

1973: Camillo Bellieni, La Sardegna e i sardi nella civiltà dell’alto medioevo, vol. I, pag. 475 e 486 (vescovo di Ippona).

1978: Alberto Boscolo, La Sardegna bizantina e alto giudicale, (pag. 20-21: vescovo di Ippona).

Poiché il Boscolo è l’ultimo autore che cito, data la sua fama meritata di storico, mi permetto di citarlo letteralmente. Scrive dunque: "Giungevano così in Sardegna, nel 507, numerosi ecclesiastici esiliati; secondo alcuni erano centoventi, secondo altri duecentoventi. Erano fra questi il vescovo di Cartagine, Feliciano (svarione già rilevato!), quello di Ippona, che portava con sè i resti del suo predecessore S. Agostino, e quello di Ruspe, Fulgenzio, da poco eletto" (pag. 20-21).

1979: Kirova K. Tatiana, La Basilica di S. Saturnino in Cagliari (Fulgenzio, pag. 24).

Gentilissimi uditori, è tempo di chiederci: da dove nasce questa pacifica affermazione, seza citazioni di fonti, senza discussione critica, fatta anche da autori di rilievo, nella loro storia generale della Chiesa, come Joseph Darras e Renato Rohrbacher (vedi Bibliografia)?

Nel secolo XVI comparvero i famosi "Annales" di Card. Cesare Baronio (nato il 1538 e morto il 1607). Egli fa propria questa versione dei fatti e scrive: "Tunc plane accidisse perhibetur, ut Hipponensis episcopos et alii eius provinciae Numidiae sacerdotes, occulte (ut licuit) sacrum ferrent secum... corpus... Augustini": mitra, bacolo, vesti (Tomus IX, Lucae MDCCXLI, col. 46). "Perhibetur", dice. Parolina insinuante e traditrice. "Perhibetur" - lo sappiamo bene - vuol dire: "si racconta, si narra, viene riferito". Ma i nostri autori citati hanno giurato "in verbo magistri" e non sono andati a cercare su quali documenti storici si basava questa parola "si racconta, si narra". Si riferiscono al Baronio e, più spesso, lo citano in modo esplicito. Presero dunque per buona la sua narrazione. Non c’è troppo da rimproverarli. Solo più tardi i Bollandisti, nella vita di S. Agostino al 28 di agosto (Acta SS. vol. VI Augusti, pag. 363-365) riportarono quanto espose il Baronio e ne fecero ampia critica: Prima edizione 1643-1940 (Antverpiae - Anversa - MDCCXLIII).

Tuttavia se i nostri storici fossero stati attenti a quanto racconta il celebre annalista nell’anno 504 e a quanto riferisce nell’anno 725, sarebbero venuti ad incontrare la vera fonte, in cui in buona fede il Baronio credette fermamente (Annales, Tomo XI, col. 320-324). Si tratta di una lettera che Pietro Oldradi, arcivescovo di Milano, avrebbe indirizzata a Carlo Magno nel 796. In essa l’autore espone, per filo e per segno, tutte le vicende particolari della traslazione delle reliquie di S. Agostino dall’Africa in Sardegna e dalla Sardegna a Pavia, per opera del re Longobardo Liutprando verso il 725. La lettera fu pubblicata per la prima volta a Roma nel 1587 ad opera dell’agostiniano P. Agostino da Fivizzano, come appendice ad una breve biografia del Santo. L’intestazione esatta è la seguente: "Domino regum piissimo Carolo Magno Petrus Oldradus indignus mediolanensium archiepiscopus perennem in Christo coronam" - Datum in urbe Mediolani anno salutiferae incarnationis DCCLXXXXVI - (796). Gli storici e i critici l’hanno definita falsa, adulterina, suppositizia. Ludovico Antonio Muratori la esclude in modo assoluto (Ad annum 722: cfr. A. C. De Romanis, La duplice traslazione... pag. 396). Giuseppe Antonio Sassi (bibliografia "Saxii") già Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, nella storia critica degli arcivescovi di Milano la condanna senza equivoci (pag. 266-268). Del resto noi stessi, senza essere storici e critici, sentiamo subito il senso della falsità esaminando soltanto il titolo della lettera in questione. I vescovi nel secolo ottavo, e per lungo tempo ancora, non firmavano mai col cognome del proprio casato, come ha fatto il supposto Pietro Oldradi; e a Milano il primo ad usurpare il titolo di "arcivescovo" fu proprio lui (Sassi, pag. 266)! Carlo fu detto "Magno" soltanto dopo la sua morte (+ 814). Siamo dunque di fronte a un documento falso! Tutti i nostri storici dunque, hanno attinto in buona fede. E non basta.

Pietro Martini, il grande innamorato delle "Pergamene di Arborea" vi ha attinto largamente. Basta leggere la sua opera, "Illustrazioni e aggiunte alla Storia ecclesiastica di Sardegna", Cagliari 1858, pag. 32; oppure leggere a pag. 190-191 la Guida di Cagliari dello Spano, che lo cita abbondantemente sul caso che trattiamo! E come se ciò non bastasse, vi dirò che anche il grande Besta, quando parla della traslazione delle reliquie di S. Agostino, nel testo da noi già riportato letteralmente, aggiunge in nota: "Anche a questo riguardo le pergamene arborensi, p. 336, valsero a accreditare notizie del tutto inattendibili".

Ora sappiamo che le pergamene di Arborea furono un clamoroso falso storico-letterario del secolo scorso (vedi Filia, vol. I, pag. 19-20).

A completare il quadro dei racconti e delle supposizione sulla traslazione delle ossa del grande vescovo devo citare un’opera recente: Tatiana K. Kirova, La Basilica di S. Saturnino in Cagliari, la sua storia e i suoi restauri, Cagliari 1979. A pagina 24 suppone che Fulgenzio "abbia potuto avere il permesso di portare con sè il corpo di S. Agostino" nel 519, quando Trasamondo lo rimandò per la seconda volta in esilio in Sardegna perché la prima partenza fu "forse affrettata". A questa supposizione abbiamo risposto precedentemente: nella prima partenza, da Ruspe, Fulgenzio fu associato "repente" (all’improvviso) agli altri esiliandi; nella seconda, da Cartagine, fu fatto partire "nocte in tempesta, ignorante populo, come dice Ferrando nella vita del Santo (cap. XXV, n. 49). A completare la supposizione, la Kirova (pag. 33) scrive addirittura: "è più attendibile supporre che Fulgenzio e i suoi compagni vescovi, fra cui quello di Ippona, città dov’erano conservate le spoglie di S. Agostino prima del suo (loro) trasferimento in Sardegna, si siano prodigati per edificare una degna dimora, atta ad ospitare i resti del S. Dottore della Chiesa "restaurando ed ampliando la basilica paleocristiana di S. Saturnino" (per lei è S. Saturnino di Tolosa!).

Come avete sentito, carissimi uditori, si tratta di supposizioni, una dietro l’altra; ma sappiamo che la storia critica aborrisce delle supposizioni ed esige, giustamente, documenti probanti! Lo studioso può, anzi deve avanzare delle supposizioni e ipotesi di lavoro; ma poi deve portare le prove! Fra tanti autori citati debbo dire che il Fara non fece in tempo a consultare il Baronio. Il primo volume degli Annales uscì infatti nel 1588 (Encicl. Cattolica, vol. II, voce "Baronio", col. 885). Egli, nel suo racconto, si ispira a Beda, a vari autori e, come egli stesso afferma, all’autore agostiniano Fra Giordano di Sassonia, provinciale di Germania e morto a Vienna nel 1380. Nella vita che egli scrisse di S. Agostino, parlando dell’esilio dei vescovi ad opera di Trasamondo, afferma genericamente: Allora il corpo di S. Agostino fu tolto da Ippona e portato in Sardegna "pridie Kalendas martii", ma non dice da chi. (Cfr. De Romanis, pag. 400, n. 32, pubblicata in Hommey: Supplementum Patrum, Parigi 1684, pag. 569ss). Fra Giordano è il primo autore che parli di questa traslazione.

Il Fara cita ancora quanche altro autore a noi ignoto e le lezioni del breviario agostiniano (De Rebus Sardois, pag. 33-34). Possiamo perciò affermare che il Fara è un autore documentato, come era possibile ai suoi tempi, e resta un testimone della tradizione agostiniana sarda, che ha saputo abbellire con particolari vari l’arrivo delle reliquie di S. Agostino (corpo, bacolo, mitra, vesti sacre): presenza del clero, scene commoventi, popolo plaudente.. (ivi)! Fantasia pia e devota, ben lontana da una storia critica e documentata! Dunque - concludendo - dobbiamo dire: non si può dimostrare criticamente che le spoglie mortali di S. Agostino siano state portate in Sardegna durante l’esilio del 507-508 ad opera degli esiliati africani. E allora - mi direte - le spoglie di S. Agostino sono state sì o no in Sardegna? La risposta è certissima: sì; tanto è vero che il re Liutprando le portò a Pavia, dove sono collocate nella celebre chiesa di San Pietro in Ciel d’oro, come subito diremo.

Dopo tutta la discussione critica che ho dovuto fare restano ancora in piedi i due quesiti propostici:

1) Le reliquie di S. Agostino quando furono trasferite dall’Africa in Sardegna?

2) Quando furono trasferite dalla Sardegna a Pavia?

La traslazione dall’Africa in Sardegna

A risolvere questo quesito ci viene incontro una annotazione del grande scrittore e santo, Beda il Venerabile, benedettino inglese, vissuto dal 675 al 735. In uno dei tanti libri da lui composti, esattamente nel "Chronicon de sex aetatibus mundi", all’anno VIIII Leonis (il IX anno dell’imperatore Leone Isaurico III (717-741), corrisponde al 724-725: Motzo, L’attività guerriera... pag. 87), così scrive tra l’altro: "Liutprandus audiens quod Sarraceni depopulata Sardinia etiam loca foedarent illa, ubi ossa Sancti Augustini episcopi propter vastationem barbarorum olim translata et honorifice fuerant condita, misit et dato pretio accepit et transtulit ea in Ticinis (= Pavia: n.d.r.) ibique cum debito tanto patri honore recondidit" (Ediz. Momnsen, in MGH, Scriptores antiquissimi XIII, III, pag. 321).

L’altro grande storico medioevale, Paolo Varnefrido, detto Paolo Diacono (Cividale del Friuli: visse dal 730 al 797) ripete quasi parola per parola quanto ha scritto il Beda (De Gestis Longobardorum, lib. VI, cap. XLVIII, PL. vol. XCV, col. 655).

Quello che per adesso ci interessa è la frase in cui si dice (traduco dal latino): "le ossa di S. Agostino tempo addietro (olim) furono trasferite in Sardegna a causa della devastazione operata dai barbari nell’Africa". A che tempo possiamo riferirci? A quale data? Chi sono questi barbari? Abbiamo escluso il tempo dell’esilio per i motivi critici e anche perché in quel periodo gli imperatori Vandali non compirono devastazioni: ma espulsero dall’Africa i vescovi e i monaci di cui abbiamo parlato e li richiamarono in Africa nei 523. E allora: chi sono i barbari che compiono le devastazioni? Non i vandali ma i Musulmani, risponde P. Agostino C. De Romanis (pag. 409, n. 5).

I "barbari", secondo l’espressione di S. Beda, non possono essere i vandali anche per un altro motivo. Il grande scrittore benedettino non chiama mai con questo appellativo i vandali e gli altri popoli invasori dell’impero. Nello stesso "Chronicon", da cui apprendiamo la notizia che ci interessa, li chiama "gens": gens Hunnorum, gens Halanorum, Gothorum, gentes Scithicae (pag. 289), gentes Scothorum et Pictorum (pag. 299) e, parlando dell’invasione dell’Africa e della devastazione di Ippona, proprio mentre moriva S. Agostino il 28 agosto del 430, chiama gli invasori "effera gens Vandalorum, Hulanorum et Gothorum (pag. 302). Ma non li chiama "barbari". E sempre lo stesso vocabolo di "gens" o "gentes" viene usato dal Beda quando parla dei popoli Sassoni, Angli e Longobardi (cfr. pag. 303-305, 307-309: De Romanis, pag. 405-406). Dunque i "barbari" sono da ricercarsi nei Musulmani. Sappiamo dalla storia che l’Islam sotto il comando di Utman (644-656) e sotto il 5° Califfo degli Umajj’di, Abdalmalik (685-705), devastarono l’Africa settentrionale e ne cancellarono ogni segno di vita cristiana (Moscati, Enc. Catt. VII, col. 262).

Nel 488 - come abbiamo detto in precedenza - si contavano, presenti ai Concilio di Cartagine convocato da Unnerico, ben 466 vescovi, tutti dell’Africa settentrionale occidentale. Ora c’è la devastazione, la persecuzione contro i cristiani. I Musulmani avevano imposto la legge della scimitarra: o ti converti all’Islam o avrai la morte sicura. Per Beda questi possono essere i barbari e non i vandali. Siamo alla fine del 600 e all’inizio del 700. E quanti poterono esularono portando seco le cose più care al cuore dei cristiani proprio quando l’impero bizantino, comprendente anche la Sardegna, si stava dissolvendo. Henri Leclercq, nell’articolo "Afrique" del dictionnaire d’archèologie chrètienne, Paris 1921, col. 591, scrive che moltri cristiani che non vollero convertirsi all’islamismo emigrarono in Italia, nelle Gallie e anche in Germania: "Beaucoup émigrant, s’en allererente en Italie, en Gaule... Germanie".

In questo periodo il Padre De Marinis, per le ragioni su esposte, pone la traslazione del corpo di S. Agostino in Sardegna. La prova non è di un’evidenza assoluta, ma le parole dello storico S. Beda devono pure evere un senso: le ossa di S. Agostino tempo addietro (olim) furono trasferite in Sardegna a causa della devastazione operata dai barbari in Africa". Questa espressione è ripetuta anche nel Martirologio scritto dallo stesso Beda. Al 28 agosto ricorda S. Agostino, "qui primo de sua civitate propter barbaros translatus, "nuper" a Liutprando rege Langobardorum Ticinis relatus et honorifice conditus est" (PL. XCIV, col. 1023).

La stessa frase è riportata anche nel Martirologio Romano, al 28 agosto: "Eius reliquiae, primo de sua civitate propter barbaros in Sardiniam advectae et postea a Rege Longobardorum Liutprando Papiam translatae, ibi honorifice conditae sunt".

Questi ‘barbari" non sono i vandali, ma i musulmani o Saraceni, i quali - invasa anche la Sardegna - richiamarono l’attenzione e l’intervento di Liutprando.

È degno di rilievo rilevare che Jacopo da Varazze ci ha tramandato questa tradizione quando scrive: "alcuni anni dopo la sua morte i barbari, che erano divenuti padroni della città, profanovano le chiese; allora i fedeli presero il corpo del santo e lo trasportarono in Sardegna: erano passati 280 anni dalla sua morte" (pag. 223, ultime righe). La morte avvenne nel 430 + 280 - 710. Anche se approssimativo, il racconto di Jacopo è molto interessante per quanto stiamo esponendo. Cfr. Leclercq, citato a pag. 15.

Ancora nella lettera di Oldradi, nella quale non tutto è bugia, c’è evidente un richiamo a S. Beda e dice "Barbarorum infinita multitudo Sardiniam expugnare est aggressa ecc." (pag.4). I barbari sono i saraceni di cui appunto parla S. Beda, che devastarono la Sardegna ("Sardinia depopulata").

La tesi esposta dal Padre De Romanis non è peregrina; ma ha a suo vantaggio i fatti storici e il testo di Beda. Tant’è vero che, parlando dei Saraceni, S. Beda dice che avevano "depopulata Sardinia", parola corrispondente a "vastatione" (devastazione) operata dai barbari nell’Africa. L’espressione è stata cambiata solamente per evitare una ripetizione cacofonica e inopportuna.

Quindi possiamo dire che con documenti alla mano (S. Beda) le reliquie di S. Agostino vennero trasferite dall’Africa in Sardegna; non sappiano nè la data precisa nè il nome di coloro che le trasportarono fra noi.

La traslazione dalla Sardegna a Pavia

Ammessa l’ipotesi del P. Agostino De Romanis, per le sue ragioni storiche e critiche, poco tempo restarono in pace le sante reliquie in terra sarda. Gli antichi cagliaritani hanno scritto nella cripta di S. Agostino, Largo C. Felice, che ivi riposarono le ossa del Santo per CCXXI anni. Il conto è presto fatto. Il Baronio fissava la prima traslazione all’anno 504; comunemente si fissava la seconda traslazione - dalla Sardegna a Pavia - nel 725: 725 sono esattamente CCXXI anni.

Ma anche la data del 725 non è esatta. Seguiamo per un momento i fatti storici.

Nell’anno 710 (buona stagione del 711: 92 dell’Egira = Motzo, L’attività..., pag. 88), gli Arabi fecero una grande scorreria in Sardegna e in Spagna. Tutto era preparato da Musa Ibn Nusair, con 7000 uomini, perché mirava alla conquista della Sardegna; e le spedizioni durarono alcuni anni (Motzo, L’attività... pag. 88). Altre incursioni veramente minacciose vennero poi fatte nel 735, proprio nell’anno in cui morì lo storico Beda. Dietro queste spedizioni il re Liutprando, che aveva iniziato il suo regno con ottimi rapporti con il Papa di Roma, nei suoi primi 14 anni (Motzo, dal 712, anno primo del suo regno, sino al 726) condusse una politica di relativa pace (non mancarono le battaglie): riordinò lo stato, creò una cappella palatina, eresse chiese e conventi, occupò (più tardi) e restituì al Papa il territorio di Sutri (nel Lazio) che divenne come il nucleo del futuro Stato Pontificio (Enc. Ital, Augusto Lizier; anche Enc. Catt.: Innocenzo Giuliani alla voce "Liutprando").

Nel 726, essendo scoppiata in modo violento la lotta iconoclastica (distruzione delle immagini sacre) nell’Esarcato di Ravenna, sferrò una guerra senza quartiere (Motzo, Lizier, Giuliani) contro i Bizantini che lo dominavano. Tutto questo ci dice che Liutprando - non si sa come ne venisse informato - avendo saputo del pericolo che correvano le spoglie mortali di S. Agostino, le riscattò e le portò a Pavia, che era diventata la capitale del regno. In quele anno? Nel 725?

Il Motzo ritiene che ciò avenne nel periodo detto "pacifico" del re Longobardo: cioè fra il 712 e il 720 (pag. 88); c’era anche un motivo politico - dice il Motzo - : il re aveva paura che la Sardegna e la Corsica potessero cadere (o le credeva già cadute?) in mano araba. Fu pure questo motivo a spingerlo ad agire subito (Motzo, pag. 90).

La notizia il Beda la scrive nell’anno "VIIII" di Leone III Isaurico, che corrisponde all’anno 724-725 (Motzo, L’attività guerriera ... pag. 87). Sotto la stessa data parla anche dell’assedio di Costantinopoli, avvenuto però negli anni 717-718 (Motzo, o.c. pag. 87). Poi prosegue col testo che abbiamo letto e che rileggiamo per comodità di tutti: "Liutprandus audiens quod Sarraceni depopulata Sardinia etiam loca foedarent illa, ubi ossa Sancti Augustini episcopi, propter vastationem barbarorum olim translata et honorifice fuerant condita, misit et dato pretio accepit et transtulit ea in Ticinis (Pavia) ibique cum debito tanto patri honore recondidit" (Ed. Momnsen, in M. G. H. Scriptores antiquissimi, XIII, III, pag. 321).

Dal testo del Beda dobbiamo trarre questa conclusione: egli scriveva nel 724-725, ma la traslazione delle ossa del grande Santo è avvenuta certamente anni prima, come l’assedio di Costantinopoli ricordato nella stessa data 724-725, ma avvenuto negli anni 717-718. A questa conclusione ci porta la lettura di altre due cronache: quella di S. Amando, apostolo del Belgio (+675: Biblioteca sanctorum, vol. I, col. 918-923), e quella di Noyon in Francia.

Il "Chronicon S. Amandi" di Elnon (Fiandre) scrive: "DCCXXII: corpus S. Augustini a Sardinia Ticiniis transfertur, agente Leutprando rege Langobardorum" (Edmond Martène e Durand Ursini, Thesaurus novus anedoctorum, Tomo III, Parigi 1717, col. 1392).

Gli Annales Novesienses (=Noyon) si riferiscono all’anno 721. Così infatti scrivono: "DCCXXI - Ossa S. Augustini hipponensis episcopi, olim translata ad Sardiniam, vastata modo a Sarracenis Sardinia, Liuthprandus rex Longobardorum, dato magno pretio transfert Papiam (Martène Edmond, Veterum scriptorum et monumentorum, Parigi, Tomo IV, 1724, col. 532).

La data esatta forse non la sapremo mai; tuttavia, tenuto conto delle indicazioni riferite dai tre cronisti (ai quali si aggiunge l’italiano Paolo Varnefrido, detto Paolo Diacono, già ricordato) possiamo dire che la traslazione avvenne verso il 721, anno riferito dagli "Annales di Noyon": quindi verso il 720-721.

Eppure un bravo cultore di storia, residente a Cagliari, Felice Cherchi Paba, nella sua opera recente: La repubblica Teocratica Sarda nell’alto Medioevo, Cagliari 1971, sostiene due cose: l’avvenimento deve portarsi all’anno 727 perché in quell’anno si scatenò la guerra della iconoclastia: perciò chi diede le spoglie di S. Agostino ai messaggeri di Liutprando non sono i Saraceni, ma gli iconoclasti, quelli cioè che distruggevano le statue e le immagini sacre! Le vendettero dopo averne ricevuto una forte somma (Capitolo II, specialmente a pag. 36).

Devo rispondere che una simile interpretazione non è sostenibile perché sconvolge tutti i testi che abbiamo citato: Beda, Paolo Diacono, il Chronicon S. Amandi e gli Annales Novesienses.

Vi è poi un altro motivo: Beda parla di Saraceni devastatori e non di iconoclasti. Non dice neppure che a trattare il prezzo furono i Saraceni; potevano essere i Superiori (Primores) della città, che vennero incontro ai desideri di Liutprando per il timore di invasioni e di profanazioni future.

Vanno relegate nella leggenda: la sollevazione del popolo col re Gialeto, la lotta fatta dai frati eremitani di S. Agostino, che riuscirono a mandare in salvo il bacolo e la mitria presso gli agostiniani di Valencia, mentre riuscirono a salvare per Cagliari le sole vesti pontificali del Santo (cfr. Fara, pag. 47-48; Martini, Storia delle invasioni, pag. 73-75; G. Spano, Guida di Cagliari, pag. 190-191).

Liutprando sborsò una grossa somma e collocò onoratamente le ossa del Santo a Pavia, nella vetusta chiesa di S. Pietro in Ciel d’oro, detta così per la volta che adorna la basilica. Attualmente sono in un monumento marmoreo, artistico e sontuoso (datato 1632: Encicl. Catt. voce "Pavia", vol. IX, col 1005). Nella cripta v’è un’urna, anch’essa di marmo, che custodisce le ceneri di Severino Boezio (475+525) venerato come martire. Presso la cripta sono custodite le reliquie del grande re Liutprando (re dal 712 al 744).

(Sulla basilica di S. Pietro vedi Gianari Faustino, La basilica di S. Pietro in Ciel d’oro nella storia e nell’arte, Pavia 1965).

Ho avuto la fortuna di visitare la chiesa di S. Pietro, questa opera d’arte, di fede e di pietà, ed invito la comunità di questa chiesa di promuovere un pellegrinaggio a Pavia per venerare quella basilica e le relique di S. Agostino, che tanto onore portarono, con la loro presenza, alla chiesa sarda.

Non vi parlo del viaggio miracolistico, compiuto via mare sino a Genova e da Genova a Pavia, perché è tutta una leggenda, scritta da anime ferventi e immaginarie (Cfr. Fara, De Rebus Sardois, pag. 47-47; Jacopo da Varazze, pag. 224; Lettera di Oldradi ecc.) ma ben lontana dallo stile sobrio e critico dello storico Beda e di quanti amano i fatti non inventati, ma realmente accaduti e comprovati da documenti autentici!

Bacolo, Mitria e vesti

Prima di finire devo spendere una parola sulla sorte delle reliquie minori di S. Agostino: bacolo, mitria e vesti sacerdotali. La notizia su queste reliquie l’abbiamo sempre nella famosa lettera di Pietro Oldradi. Poi la ripeterono Mons. Giovanni Francesco Fara (De rebus sardois) e tanti altri autori, in particolare Pietro Martini (Storia delle invasioni... 73-75) che si serve delle false "Pergamene d’Arborea".

Il bacolo e la mitria, secondo il Fara (De rebus sardois, pag. 47-48) e secondo un’attestazione del 1611, sarebbero state portate nella chiesa degli Agostiniani di Valencia in Spagna (Efisio Serra, Una pagina d’oro ... pag. 85: relazione di Martin Carrillo).

Le vesti (una tunicella, una dalmatica e una cappa), dopo essere state per molto tempo nella chiesa di S. Francesco di Stampace, dopo il crollo della stessa chiesa, avvenuto l’11 gennaio 1875, furono custodite nella cripta della Cattedrale (Serra, pag. 87-91) e attualmente sono conservate nel suo museo. L’Arcivescovo Mons. Paolo Maria Serci le inviò alla mostra archeologica, che si tenne ad Orvieto nell’ottobre del 1896, in occasione del XIV Congresso Eucaristico internazionale (Puxeddu, pag. 9-10; Serra, pag 120).

Ed ecco, puntuale, nell’anno successivo, comparire un articolo critico del P. Hartmann Grisar, gesuita, sommo storico e di cultura non comune. Parlando delle "vesti" di S. Agostino scrive che non possono essere del tempo in cui visse il santo. Sono "vesti di origine apertamente assai più tarda, ma certo non di poco pregio" (Nuovo Bollettino di archeologia cristiana, 1897, da pag. 1 a pag. 44; in particolare a pag. 41 e 42). Egli pensa che furono vesti usate in onore di S. Agostino pr qualche circostanza particolare e poi, impropriamente, dette di S. Agostino (pag. 42).

Altrettanto, penso, si debba dire per il bacolo e la mitria.

Conclusione

Gentilissimi uditori, detta anche quest’ultima parola, che reputavo necessaria, credo di poter formulare queste conclusioni:

1 - È molto verosimile che le reliquie di S. Agostino siano state portate in Sardegna quando furono esiliati i vescovi e gli ecclesiastici nel 507-508. Mentre gli esiliati erano a Cagliari risulta che diversi cristiani da Cartagine venivano a Cagliari per vedere Fulgenzio e gli altri esiliati, per rendersi conto della loro situazione e riferirne poi in patria. Questo avveniva nel primo periodo dell’esilio. La vita di S. Fulgenzio ne parla in modo esplicito. La fama degli esiliati - dice il testo - perveniva in Africa e a Cartagine: "Haec fama per dies singulos crescens, Carthaginensis quoque Ecclesiae populos ad majora gaudia provocabat, et certissimis testibus ex illa provincia venientibus beatum Fulgentium commendabat absentibus" (Ferrando, cap. XX, n. 43). Ma dalla verosimiglianza - dalla occasione che sembrava la più favorevole - gli storici delle nostre cose, invece di basarsi esclusivamente su documenti certi sono passati a rifugiarsi su documenti criticamente non probanti, come la lettera di Pietro Oldradi e le false pergamene d’Arborea.

2 - Le reliquie di S. Agostino furono certamente in Sardegna e poi da Liutprando trasferite a Pavia.

3 - La città di Cagliari non viene nominata; ma se c’è una città che può vantare di aver posseduto le spoglie di S. Agostino questa è propria Cagliari.

I contatti fra l’Africa, da cui dipese la Sardegna, sotto i Bizantini e sotto i Vandali, e la città di Cagliari furono continui. Il fatto stesso che un gruppo di esiliati in Sardegna dal re Trasamondo, li troviamo con S. Fulgenzio a Cagliari (Vita Fulgentii) favorisce, a prescindere dalla data e dai modi, la traslazione del corpo di S. Agostino a Cagliari. Aggiugiamo che nessuna località sarda ha mai vantato di aver avuto le reliquie di S. Agostino; e nessuna di esse ha una presenza di religiosi agostiniani come Cagliari, che li ricorda sin dal 1421 (Martini, III, pag. 458-459): i conventi delle altre città sorsero dopo. A completare il ragionamento, in favore di Cagliari, si aggiunga il fatto che i Saraceni invadevano più facilmente le coste meridionali sarde, fra le quali quelle del golfo di Cagliari, posta di fronte all’Africa.

Fatte queste necessarie precisazioni, non mi resta che congratularmi con tutti quanti hanno organizzato e voluto queste conversazioni. E mi auguro che il culto e la devozione dei cagliaritani per S. Agostino, manifestati nell’antica chiesa di Stampace (oggi c’è la cripta al Largo Carlo Felice n. 12) e in questa più recente di via Baylle, continui con rinnovato slancio e fervore ad opera del gruppo volitivo di Villanova, animati e guidati dal giovane sacerdote Don Vincenzo Fois, bramoso di creare di questa chiesa un centro di devozione e di cultura per tutto il popolo. L’iniziativa è ottima: ai cuori generosi alimentarla e aiutarla e a S. Agostino proteggerla e benedirla efficacemente.

Autori consultati

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